I VANGELI DELL'INFANZIA
 
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE E LA NASCITA DI GESÙ (Mt 1, 18-25)

Testo:

18.  Or la nascita di Gesù Cristo avvenne in questo modo. Maria, sua madre, era stata promessa in matrimonio a Giuseppe, ma prima che iniziassero a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
19.  Allora Giuseppe, suo sposo, che era uomo giusto e non voleva esporla ad infamia , deliberò di lasciarla segretamente.
20.  Ma, mentre rifletteva su queste cose. ecco un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria come tua moglie, perché ciò che è stato concepito in lei è opera dello Spirito Santo.
21.  Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati»
22.  Or tutto ciò avvenne affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore, per mezzo del profeta che dice:
23.  «Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, il quale sarà chiamato Emmanuele che, interpretato vuol dire: "Dio con noi"»
24.  E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva comandato e prese con sé sua moglie;
25.  ma egli non la conobbe, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù.

Premessa

Esamineremo a fondo questo episodio in tutti i suoi aspetti. Prima di fare questo è bene però fare alcune premesse che ci aiuteranno a comprendere meglio e più a fondo quello che Matteo vuole trasmetterci e le implicazioni spirituali che ci riguardano più direttamente.

Il racconto della nascita di Gesù viene sviluppato da Matteo in maniera molto semplice e diretta sulla falsariga degli altri brani, che troviamo nella vita pubblica del suo Vangelo, con abbondanti riferimenti e citazioni dell’Antico Testamento.
Questo naturalmente ci conferma che egli è veramente l’autore del brano almeno nella forma attuale in cui ci è pervenuto.  Secondo Matteo Dio non entra nella storia dell’uomo in maniera clamorosa, come ci si potrebbe aspettare, ma in maniera molto semplice e umana attraverso l’umile storia di due fidanzati ebrei.
Questo ci conferma ancora una volta che, contrariamente alle aspettative degli uomini, Dio si serve delle piccole cose, di quelle più umili, per realizzare nella storia dell’uomo il suo grande piano di redenzione dell’umanità.

Il grande re Davide, che ha lasciato un impronta indelebile nella storia del popolo ebraico, e dal quale doveva discendere il Messia, non è stato scelto tra gli uomini più potenti e famosi di Israele, ma tra i figli di Iesse. Tra questi figli Davide non era neppure il primogenito, ma l’ultimo, l’umile pastorello di Betlemme, quello che suo padre non aveva neppure tenuto in considerazione quando Samuele si era recato da lui per ungere il re di Israele (1 Sam 16, 1-13). Così pure i dodici apostoli, che sarebbero stati il fondamento della futura chiesa, non vengono scelti da Gesù fra i rabbini ed i dottori della legge della Giudea, ma tra gli umili pescatori della Galilea, «illetterati e senza istruzione », come riconobbero i capi dei giudei sentendoli parlare (At 4, 13). Questo perché, come dice anche Paolo ai Corinzi, « Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti » (1 Cor 1, 27-29).

Matteo, però, oltre ad utilizzare le notizie in suo possesso avute direttamente da Maria o da Giuseppe o indirettamente da altri testimoni e altri parenti di Gesù, ha condito il suo racconto con immagini ed espressioni, conosciute e molto familiari ai cristiani del suo tempo, desunte dall’Antico Testamento secondo l’uso midrashico del suo tempo. Questo ci dimostra ancora una volta  che il suo scopo non è stato quello di trasmetterci una semplice cronaca degli avvenimenti sulla nascita di Gesù, così come poteva essere vista dagli occhi di un profano. Lo scopo del suo vangelo dell’infanzia di Gesù, come abbiamo più volte ribadito, è essenzialmente teologico.
Alla luce degli avvenimenti pasquali, alla luce cioè della risurrezione di Gesù, Matteo nel suo Vangelo vuole anzitutto esprimere il suo bagaglio di fede e quello della comunità per cui scrive, dando a quel Gesù, che era stato glorificato da Dio per mezzo della risurrezione, quella giusta gloria e quel giusto onore che i suoi contemporanei gli avevano negato nella grotta di Betlemme. Se Dio ha voluto glorificare il Suo Figlio facendolo risorgere dai morti, certamente egli non può avere trascurato di manifestare già fin dall’infanzia i segni della sua divinità.

Per esprimere questo concetto teologico della divinità di Gesù che si manifesta fin dalla sua infanzia, un uomo come Matteo, ebreo di nascita e di cultura, aveva a sua disposizione, oltre all’ispirazione divina che certamente ha guidato la sua penna, anche un ricco bagaglio religioso che gli proveniva direttamente dalle pagine della storia ebraica attraverso l’Antico Testamento.

Ecco allora che, pur rimanendo aderente alle notizie trasmesse dalla tradizione orale, egli sviluppa la trama del suo racconto basandosi essenzialmente sull’Antico Testamento.

1. La vera genesi di Gesù

La prima frase del v. 18: «Or la nascita di Gesù avvenne in questo modo» così come la troviamo nella traduzione del Diodati non rende sufficientemente l’idea che Matteo vuole comunicarci. In realtà Matteo qui non adopera il corrispondente greco del termine «nascita », ma inizia il suo racconto con lo stesso sostantivo « genesi» con cui al v. 1 aveva iniziato la genealogia davidica di Gesù. Egli evidentemente vuole riferirsi alla genesi del creato e del primo uomo.

In questo modo il brano che ora stiamo esaminando dell’annuncio a Giuseppe e della nascita di Gesù viene messo in contrapposizione al brano precedente della genealogia. Infatti mentre nella genealogia Gesù viene presentato come discendente di Davide dal punto di vista giuridico perché nato da Maria sposa di Giuseppe, in questo secondo brano Matteo vuole comunicarci che in realtà l’origine di Gesù è stata ben diversa e deve essere messa in parallelo con quella della creazione e del primo uomo Adamo. Siamo quindi in presenza di una vera e propria nuova creazione e del nuovo Adamo in quanto Gesù pur essendo figlio di Adamo tramite Maria e figlio di Davide tramite Giuseppe, in realtà egli è il primo uomo di una nuova creazione essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo.

Vedete quindi quale insegnamento teologico Matteo vuole comunicarci in questa semplice frase ed in tutto il brano della nascita di Gesù. La frase iniziale costituisce quindi il titolo di tutto il racconto e potrebbe benissimo essere così tradotta:
« Questa è la vera origine di Gesù Cristo ». Matteo con la genealogia ha voluto dimostrare che Gesù, il Messia entra a pieno titolo nella storia umana in quanto discendente di Davide e di Abramo, ma nello stesso tempo per un nuovo intervento creatore di Dio egli trascende questa umanità perché è anche il capostipite di una nuova creazione. Il nuovo Adamo dal quale nascerà il nuovo popolo di Dio.

Anche Giovanni nel suo prologo esprime lo stesso concetto con altre parole ed a proposito del nuovo popolo discendente dal nuovo Adamo egli dice: « a tutti coloro che lo hanno ricevuto, egli ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome, i quali non sono nati da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma sono nati da Dio » (Gv 1, 12-13). Il concetto di nuova nascita o nuova creazione viene ripreso ancora da Giovanni in occasione del discorso notturno di Gesù con Nicodemo. In questa occasione Gesù ribadisce a Nicodemo sostanzialmente lo stesso concetto: «In verità, in verità ti dico che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio» (Gv 3, 3). In questo caso Giovanni gioca un po’ sul termine greco anothen che può essere tradotto in italiano con l’avverbio " di nuovo ", ma può anche significare " dall’alto ". La forma di dialogo con cui Giovanni ci presenta tale insegnamento, permette a Gesù di precisare meglio il senso di tale nuova nascita che avviene dallo Spirito: « In verità, in verità ti dico che se uno non è nato d’acqua e di Spirito, non può entrare nel regno di Dio ». Le successive spiegazioni di Gesù a Nicodemo chiariscono ulteriormente il senso di queste parole ed è particolarmente significativo il fatto che subito dopo tali spiegazioni egli parli direttamente dal v. 13 al v. 21 della missione e dell’opera di Gesù nel mondo, mettendola in stretta relazione con la nuova nascita e quindi con la nuova creazione.

Il tema della nuova creazione, messo strettamente in relazione con la nuova nascita è un tema primario e dominante in tutto il Nuovo Testamento. L’apostolo Paolo lo sviluppa in modo particolare nelle sue lettere dove si riferisce a Cristo come al nuovo Adamo in contrapposizione al primo Adamo che – come dice in Rm 5, 14 – è figura di colui che doveva venire, cioè di Cristo. Di Cristo come del nuovo Adamo Paolo ci parla anche nella 1a Corinzi 15 ai vv. 22 e 45; della muova creazione troviamo un accenno molto esplicito nella 2a Corinzi 5, 17 e in Gl 6, 15.
È veramente singolare come il tema del nuovo Adamo e della nuova creazione, così ampiamente sviluppato da quasi tutti gli autori del Nuovo Testamento in maniera più o meno esplicita, sia già accennato anche nel vangelo di Matteo. Questo dimostra ancora una volta che l’autore unico di tutti questi testi sacri che costituiscono la base della nostra fede cristiana è Dio stesso. Egli infatti ha variamente ispirato gli autori sacri i quali, pur nelle diverse forme derivanti dalla loro personale formazione culturale, hanno sostanzialmente detto e scritto le medesime cose.

2. Maria: fidanzata o sposa?

v. 18 « Maria, sua madre, era stata promessa in matrimonio a Giuseppe, ma prima che iniziassero a stare insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.»
La traduzione in italiano, ma soprattutto quella greca, impostata su un participio (essendo stata Maria, sua madre, promessa in sposa = mnesteuthéises), ci rivela che l’affermazione più importante di Matteo, non solo in questo versetto, ma anche in tutto l’episodio è che Maria si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Tutto il racconto di Matteo  viene costruito attorno a questa affermazione: Maria incinta per opera dello Spirito Santo. Tanto è vero che tale affermazione viene poi ripetuta nuovamente al v. 20 per rassicurare Giuseppe.

Se l’affermazione più importante è che Maria è rimasta incinta per opera dello Spirito Santo, va tuttavia osservato che il protagonista di questo racconto non è Maria, ma Giuseppe. Giuseppe svolge infatti in questo episodio un ruolo determinante. Egli ha la missione particolare di introdurre Gesù nella discendenza davidica come padre legale. Il racconto di Matteo include quindi tre elementi: la concezione verginale, l’adozione di Giuseppe e l’imposizione del nome. Mentre il primo elemento (la concezione verginale) è, come vedremo, più ampiamente trattato nel racconto di Luca, qui, al contrario, sono meglio sviluppati gli altri due, l’adozione e l’imposizione del nome, specialmente il nome che viene presentato in due forme: Emanuele e Gesù.

Essendo Giuseppe il protagonista del racconto era necessario che Matteo facesse precedere l’affermazione della concezione verginale di Gesù da parte di Maria da un chiarimento circa i legami che univano sia l’uno che l’altra. D’altra parte tale chiarimento era necessario per poter introdurre e spiegare meglio sia il comportamento che il ruolo di Giuseppe in tutta la faccenda.

Già nella genealogia in Mt 16, 1 Giuseppe è presentato, non solo come il discendente di Davide, ma anche come il marito di Maria (lett. l’uomo di Maria  =  tòn àndra Marìas). Matteo ci tiene a precisare questo particolare che gli serve per anticipare e legare in qualche modo la genealogia agli sviluppi successivi del racconto.

Naturalmente qui si parla di marito (anèr) nella prospettiva storica dell’ avvenuta nascita di Gesù, detto il Cristo, ma quando si tratta di entrare maggiormente nei dettagli che servono ad introdurre il ruolo e l’importanza del personaggio di Giuseppe, allora Matteo osserva che Maria era stata promessa in matrimonio a Giuseppe, tuttavia ancora non abitavano assieme. Proprio in questo frangente è avvenuta la concezione verginale di Gesù da parte dello Spirito Santo.

Matteo dunque osserva che Maria era mnesteuthéises (promessa in matrimonio) a Giuseppe. Tale parola può significare, a seconda del contesto in cui è inserita, tanto "fidanzata" quanto "sposata" come possiamo dedurre da Lc 2, 5 in cui è usato lo stesso verbo. Qui in Matteo il participio del verbo mnesteùo viene generalmente tradotto con  "fidanzata" o "promessa in matrimonio", in quanto è precisato che non esisteva ancora la coabitazione caratteristica indispensabile del matrimonio vero e proprio.

Dobbiamo infatti precisare che la legislazione ebraica distingueva tra "fidanzamento" o accordo tra due giovani in vista di un prossimo matrimonio (Dt 20, 7) e lo "sposalizio" vero e proprio con cui la sposa veniva introdotta nella casa dello sposo. Questo atto assumeva un nome particolare in ebraico che corrisponde al termine italiano "la riunione"; in greco si diceva invece "prendere con sé la sposa", (paralambànein) con la successiva "coabitazione" (sunérkesthai). Entrambi questi verbi greci li troviamo in Mt 1, 18. 20 e 24. Da quel momento la sposa passava dal dominio del padre a quello dello sposo. Il fidanzamento ebraico aveva tuttavia un valore molto più impegnativo dell’odierno fidanzamento, che può essere rotto con estrema facilità. Fra gli Ebrei il fidanzamento veniva  in un certo senso equiparato al matrimonio vero e proprio con tutte le conseguenze legali legate a questo atto. Infatti:

1. La fidanzata infedele era punita con la morte al pari della sposa infedele (cf Tamar Gn 38; Dt 22, 23-27).

2. Con la morte del fidanzato la fidanzata era di fatto considerata vedova.

3. La fidanzata non poteva essere rimandata senza una lettera di ripudio (Mt 1, 19).

4. Il fanciullo concepito nel tempo del fidanzamento era considerato legittimo.

Per questo motivo non deve destare meraviglia che nel successivo versetto 19 Giuseppe sia indicato come lo sposo di Maria anche se in effetti la coabitazione non era ancora avvenuta. Il contesto suggerisce che il dubbio di Giuseppe sia avvenuto ancora durante il fidanzamento, prima della coabitazione e del vero e proprio matrimonio. Matteo infatti ci dice chiaramente che Maria fu incinta per opera dello Spirito Santo «prima» che i due «iniziassero a stare insieme» e quindi coabitassero. Questo senso è confermato poi dal fatto che l’angelo ordina a Giuseppe di prendere con se Maria (paralabeîn), ossia di prenderla in casa propria come sua sposa. Cosa che Giuseppe fa immediatamente come ci viene confermato dal v. 24.

3. Concepito per opera dello Spirito Santo

Prima di passare all’esame del versetto 19, non possiamo fare a meno di soffermarci sull’affermazione più importante di tutto il racconto e che viene ripetuta anche al versetto 20.

Lo Spirito Santo per Maria e Giuseppe e quindi anche per Matteo era la Ruah dell’Antico Testamento, quell’attributo dinamico e vitale con cui Dio aveva dato origine al mondo, all’uomo ed al popolo ebraico. Per gli Ebrei, lontani dalle successive speculazioni filosofiche e dal sincretismo con la religione greca, la Ruah di Dio interveniva in maniera straordinaria per realizzare il suo piano di salvezza nella storia dell’uomo, attraverso i fatti ed i personaggi. In special modo la Ruah di Dio interveniva nei profeti e nel futuro Messia.

La mentalità ebraica della pura spiritualità divina e soprattutto della sua assoluta trascendenza impedirono a Matteo ed alla sua comunità di pensare a questa unione tra lo Spirito Santo e Maria, come ad una unione tra dèi e donne, secondo lo schema classico delle mitologie pagane. Lo Spirito di Dio, quando interveniva nelle creature, secondo la mentalità ebraica, agiva spiritualmente con la sua potenza creatrice e non poteva quindi trasmettere qualcosa di sensibile e di materiale nelle generazioni umane come avveniva nel naturale concepimento tra uomo e donna. La mitologia greca, certamente conosciuta sia da Matteo che dalla sua comunità poteva fornire all’autore soltanto un’analogia per spiegare con parole umane ciò che per l’uomo rimane pur sempre un fatto straordinario ed inspiegabile, come inspiegabile del resto è Dio stesso al quale dobbiamo accostarci per fede.
Matteo non aveva altri mezzi per spiegare come il Figlio nato da Maria poteva essere l’Emmanuele e il Figlio di Dio. Non dimentichiamo quanto troviamo scritto in Dt 29, 29, dove l’autore ispirato da Dio ci mette in guardia dicendoci: « Le cose occulte appartengono all’Eterno, il nostro Dio, ma le cose rivelate sono per noi e per i nostri figli per sempre, perché mettiamo in pratica tutte le parole di questa legge».

Certamente con questa presentazione Matteo vuole comunicarci che Gesù, pur essendo in ogni cosa simile a noi nella carne, era al tempo stesso anche Figlio di Dio; e perciò uno in cui lo Spirito di Dio era intervenuto non solo in un dato momento della sua vita, come nei profeti, ma fin dal primo momento della sua esistenza terrena e fino a sostituirsi all’azione del padre terreno.

In Galati Paolo afferma che «quando è venuto il compimento del tempo, Dio ha mandato il suo Figlio, nato di donna, sottoposto alla legge » (Gl 4, 4) e con queste parole sottolinea l’umanità di Cristo. Ma ai Colossesi egli scrive anche che « in lui (Cristo) abita corporalmente tutta la pienezza della divinità » (Cl 2, 9) volendo con ciò sottolineare la divinità di Cristo. Come possa essere avvenuto questo per noi rimane incomprensibile a causa della nostra limitata natura umana. L’uomo naturale non può comprendere l’infinita sapienza di Dio, per l’uomo spirituale queste cose invece divengono certezze per mezzo della fede, come ci viene spiegato da Paolo in 1 Cor. cap. 2, 4-16 perché siamo stati ammaestrati a guardarle con la mente di Cristo.

4. Giuseppe, uomo giusto

V. 19: « Allora Giuseppe, suo sposo, che era uomo giusto e non voleva esporla ad infamia , deliberò di lasciarla segretamente ».

La prima impressione che si ha leggendo questa frase è quella di ritenere che Giuseppe sia stato "giusto" in quanto ha assunto nei confronti di Maria un atteggiamento benevolo proponendosi di lasciarla in segreto per non esporla alle critiche della pubblica opinione.

Questa impressione è dovuta al fatto che noi siamo propensi a dare al termine "giusto" un valore molto diverso da quello che gli Ebrei davano a questo termine. Per gli Ebrei "giusto" non significava soltanto, come pensiamo noi, un uomo retto e di buoni sentimenti. Per la mentalità ebraica un uomo era giusto quando aveva un autentico rapporto con Dio. Giuseppe quindi è detto "giusto", in quanto:

– ha fiducia in Dio ed è un perfetto osservatore della legge divina;

– è aperto quindi al piano salvifico di Dio, anche quando questo piano comporta delle novità sconcertanti;

– percepisce negli eventi il disegno di Dio preannunciato dai profeti e vi si adegua collaborando anzi al suo adempimento (cf Mt 3, 15);

– conserva il segreto ricollegato di solito alle rivelazioni divine. Secondo certe tradizioni rabbiniche, di cui abbiamo un’eco in Gv 7, 26s, si pensava che il Messia sarebbe dovuto rimanere nascosto e ignorato da tutti, fino al giorno in cui si sarebbe presentato al popolo in seguito a una manifestazione divina.

Per questo motivo Giuseppe merita di diventare il padre giuridico di Gesù ed il capo della famiglia nella quale sarebbe stato allevato il futuro Salvatore. Sotto la sua guida responsabile Gesù avrebbe potuto maturare e sviluppare dentro di sé il progetto di Dio per il quale era venuto in questo mondo.

Giuseppe quindi ha un ruolo importante nella missione del futuro Messia. Non a caso l’angelo del Signore si rivolge a lui chiamandolo « figlio di Davide» (Mt 1, 20). Come abbiamo già visto, egli è anche chiamato « sposo di Maria» (Mt 1, 16) o « l’uomo di lei» (Mt 1, 19) cioè, secondo il valore del termine greco (anér), vero sposo o marito di colei che viene chiamata vera «donna » (guné), ossia sua sposa (Mt 1, 20-24).

Nonostante questo Maria è pure detta «sua fidanzata » (Mt 1, 18), per il fatto che, pur essendo già legata a lui con il fidanzamento (allora irrevocabile), Giuseppe non l’aveva ancora condotta a casa sua, né aveva di conseguenza coabitato con lei. Ciò è espresso dalle frasi: «prima che venissero a stare assieme» e « Giuseppe prese con sé (nella sua casa) la sposa » (Mt 1, 24). Questo sottolinea pure il fatto che i due non avevano ancora questi rapporti intimi tra loro. Sappiamo anche che Giuseppe lavorava il legno, come appare in Mt 13, 55: «Non è costui il figlio del falegname?» o anche «del carpentiere? ».

Naturalmente anche Gesù dovette apprendere, come primogenito, il mestiere del padre, secondo l’uso ebraico. Forse a tale fatto si richiama il detto di Gesù: « Il figlio non può fare nulla da solo, nulla che non veda fare dal padre. Ciò che questi fa, lo compie pure lui, perché il padre ama il figlio e gli mostra quello che egli compie » (Gv 5, 19s).

Data l’ambiguità del termine per la mentalità occidentale, diverse sono state nel corso dei secoli le spiegazioni per chiarire come mai Giuseppe possa essere stato chiamato "giusto" per il fatto di voler dimettere segretamente Maria:

1. Giuseppe fu giusto in quanto seppe condire la giustizia con la misericordia . Secondo un’opinione risalente a Giustino (II secolo), Giuseppe avrebbe deciso di ripudiare la sposa adultera, ma, non volendo creare uno scandalo, volle per bontà dimetterla occultamente. Egli temperò quindi i rigori della giustizia con la misericordia. Il Crisostomo ne prende anzi spunto per combattere l’assurda gelosia di certi uomini:
« Ammirate dunque Giuseppe, quest’uomo ‘filosofo’, nei confronti di colei che lo ha realmente ingannato, mentre voi spesso non avete che dei semplici sospetti » .
Nella giustizia sta inclusa la bontà – continua lo stesso – per cui Giuseppe fu "buono" (chresòs) e conciliante (épios).

In questo suo comportamento egli si mostrò "giusto", vale a dire, secondo il pensiero di Filone contemporaneo di Gesù, seppe scegliere nel caso presente la soluzione migliore, pensando di dimettere la moglie senza pubblicità. la sua «fu una decisione di clemenza che rivela non solo la sapienza e la padronanza di sé, ma anche una benevolenza e, insieme, una misericordia generosa e magnanima » .
Anche altrove i Salmi dicono che «il giusto ha pietà e dona» (Sal 37, 21); e la Sapienza, un libro sacro per i cattolici, afferma che « il giusto deve essere umano» (Sap 12, 19).

Tramite il ripudio Maria non avrebbe più potuto essere accusata di adulterio, in quanto la sua situazione veniva in un certo qual modo legittimata dallo stato di fidanzamento che permetteva i rapporti tra fidanzati, benché questi rapporti non fossero sempre ben visti dai rabbini.

2. Giuseppe e la bontà di Maria. Girolamo pensa che il modo di agire di Giuseppe non sia stato suggerito dalla bontà, bensì dalla fiducia ch’egli aveva in Maria. Giuseppe, nonostante le apparenze contrarie, non era convinto della colpa e, sospettandovi un mistero, anziché denunciare la fidanzata come colpevole, volle dimetterla occultamente. Egli non riusciva infatti a giudicare colpevole colei che tanto stimava per la sua virtù. Si era forse trattato di violenza subita durante il suo viaggio da Elisabetta? Oppure v’era qualche altro mistero?

« Giuseppe, conoscendo la castità di Maria e stupito di quanto era accaduto, nasconde con il suo silenzio ciò di cui ignorava il mistero »

« Il giusto non condanna senza avere una prova decisiva di colpevolezza. Si dirà che tutte le apparenze erano contro Maria. Senza dubbio. Ma Giuseppe doveva tenere conto anche della sua virtù, della sua serenità, dell’ evidente innocenza di una creatura così pura, del suo proprio amore che non poteva essere ingannato. Quante volte si è ricorso all’ignoto, all’ inverosimile, per resistere alla contraria opinione pubblica, in favore di una persona amata di un amore sicuro! Se Giuseppe non avesse creduto alla possibilità di un fatto miracoloso, è poco probabile che egli sarebbe stato così docile all’avvertimento di un segno ».

Le due opinioni precedenti non spiegano tuttavia come Giuseppe possa essere chiamato "giusto" nel senso biblico con il suo comportamento.

« Se, per Giuseppe, Maria è un’adultera, si comprende che venga ripudiata, ma non si capisce perché lo sia in segreto. Se d’altra parte Giuseppe la crede innocente, se ne può approvare la bontà, ma non la giustizia».

Il testo non presenta alcun accenno all’ipotesi che Giuseppe ritenesse Maria innocente. La legge poi non obbligava il marito a ripudiare un’adultera. Essa condannava alla lapidazione una donna trovata nell’atto dell’adulterio (una fidanzata era sotto questo aspetto equiparata alla sposa), ma non diceva nulla per una donna trovata già incinta. I beduini fino a poco fa la uccidevano: i rabbini insegnavano che si dovrebbe strangolarla. La cosa migliore, ma non per questo obbligatoria, era quello di ripudiarla con un atto di divorzio che separava i due ridonando loro la piena libertà. Quindi la qualifica di "giusto" non si riesce a spiegare bene in questo caso.

3. Giuseppe conosce il mistero avveratosi in Maria . Una terza interpretazione che sembra cogliere meglio il significato della parola "giusto", si basa sul sentimento di indegnità da parte di Giuseppe di fronte al concepimento miracoloso. Giuseppe viene a sapere da Maria che il figlio era dovuto a potenza divina; infatti il v. 18 dice chiaramente che prima che andasse a convivere con Giuseppe, Maria « fu trovata (euréthe)  incinta per opera dello Spirito Santo ». Questo suggerisce che il fidanzato sia stato in qualche modo al corrente di quanto era accaduto. Giuseppe, essendo giusto, riconosce la propria nullità di fronte a Dio, si sente indegno, non osa intromettersi di sua iniziativa in un mistero a cui non è stato ancora chiamato; non vuole perciò imporre a tale straordinario Nascituro, che per giunta non è suo, il suo cognome. Pensa quindi di non dover più sposare Maria: vuole eclissarsi e lasciarla libera, ma senza indagare o divulgare, cioè far pubblicità sull’accaduto miracoloso. Anche la forma media del verbo mh\ fobhq$=j (= non temere) ci indica che è un timore riguardante se stesso e non Maria. Perciò egli delibera dentro di sé di lasciarla senza però " deigmati/sai" (= dare in pasto al pubblico) la misteriosa concezione di Maria, che tante chiacchiere avrebbe suscitato.

Questa soluzione, già presentata da Eusebio e da altri padri della Chiesa, è stata recentemente ripresa e rimessa a nuovo dallo studioso X. Leon-Dufour ed accolta anche con favore da altri studiosi ( J. Daniélou e P. Ortensio) come una buona soluzione.

Tutto il ragionamento di Leon-Dufour è basato sull’esistenza nel versetto 20 di una frase correlativa collegata al successivo versetto 21 dalle congiunzione greche gar . . . de per cui questi versetti dovrebbero essere tradotti così:

Giuseppe, figlio di Davide
non avere paura a prendere con te Maria, tua sposa;
quello che è stato generato in lei
è certamente (gar)  opera dello Spirito Santo,
ma (de) tu porrai nome Gesù
al figlio che ella darà alla luce.
Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati (Mt 1, 20s)

Usualmente questa espressione esige il correlativo greco mén gar . . . dé . Tuttavia talora (specialmente presso Matteo) si sottintende il men precedente. In questo caso il mén forma una specie di parentesi per dare più rilievo alla parte della frase con il dé. In altre parole con questo procedimento letterario si dà per scontato come un assioma un principio evidente in sé stesso ed accolto dall’interlocutore senza ulteriori dimostrazioni, per inserire poi con il de la necessaria conseguenza di tale assioma. Tenendo conto di questo il senso chiaro della frase è quindi questo:

Come è noto (o come tu ben sai) quello che è stato generato in lei
è certamente opera dello Spirito Santo,
ma nonostante ciò tu sei chiamato a porre il nome di Gesù
al figlio che ella darà alla luce.

Non abbiamo quindi in questo caso un duplice messaggio a Giuseppe (l’annuncio della concezione verginale di Maria e la rivelazione della missione di Giuseppe di esserne il padre legale), ma un unico messaggio: l’ordine a Giuseppe da parte di Dio di imporre il nome al bambino, quindi di divenirne il padre giuridico e trasmettere i suoi diritti messianici davidici al nascituro di Maria, nonostante che fosse stato concepito per opera dello Spirito Santo. Quindi l’angelo del Signore lo tranquillizza circa i suoi timori riverenziali nei confronti dell’intervento divino e gli mostra la missione che lui Giuseppe doveva compiere in riguardo al nascituro.

Per parte materna, né legalmente né dinanzi all’opinione pubblica, Gesù poteva essere considerato figlio di Davide, erede delle promesse e delle benedizioni davidiche. La successione secondo il diritto ebraico passava solo tramite il padre, e quindi tramite Giuseppe Gesù è « il figlio di Davide», come l’angelo lo interpella sin dall’inizio (Mt 1, 20). Giuseppe essendo "giusto" accetta subito con fede ed umile entusiasmo la missione  conferitagli accogliendo Maria in casa sua. Questo brano del vangelo di Matteo non intende esaltare Maria, bensì Giuseppe.

5. Genere letterario degli annunci

20.  Ma, mentre rifletteva su queste cose. ecco un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria come tua moglie, perché ciò che è stato concepito in lei è opera dello Spirito Santo.
21.  Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati.

Nella spiegazione del versetto 19 abbiamo già in parte anticipato la spiegazione anche dei versetti 20-21. Ci sono però altri particolari riguardanti questi due versetti che rimangono ancora da chiarire. Anzitutto dobbiamo precisare che qui Matteo sviluppa la trama del suo racconto sulla base degli annunci classici dell’Antico Testamento ed in modo particolare dell’annuncio della nascita di Sansone.

Anche se nell’annuncio della nascita di Sansone (Gdc 13, 3-5) il destinatario è la madre stessa di Sansone, notiamo però parecchie espressioni e parole che vengono usate anche da Matteo per descriverci l’annuncio a Giuseppe della futura nascita di Gesù, come appare evidente accostando i due brani:
 
Giudici 13, 3-5 
Matteo 1, 20-21
3. L’angelo dell’Eterno apparve (a questa donna) e (le) disse: «Ecco, tu sei sterile e non hai figli, ma concepirai e partorirai un figlio  20. Ma, mentre rifletteva su queste cose, ecco un angelo del Signore gli apparve in sogno, dicendo: «Giuseppe, Figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, come tua moglie, perché ciò che è stato concepito in lei è opera dello Spirito Santo.
4. Perciò ora guardati dal bere vino o bevanda inebriante, e dal mangiare alcuna cosa impura. 
5. Poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un Nazireo a Dio dal seno di sua madre; egli comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei  21.Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati.

Si possono notare da questo confronto alcune espressioni simili, come "Angelo del Signore", "concepire e partorire" e "egli comincerà a liberare Israele dalla mano dei Filistei" che trovano il loro corrispondente nel racconto di Matteo.

Naturalmente trattandosi dello stesso genere letterario va notato che le somiglianze sono soltanto formali e non sostanziali. Nel caso di Gesù infatti l’annuncio viene fatto a Giuseppe, mentre per Sansone l’annuncio è diretto alla madre. Gesù è concepito per opera dello Spirito Santo, mentre la nascita di Sansone avviene in modo del tutto naturale. Sansone comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei, mentre Gesù salverà il suo popolo dai loro peccati.

Rimane comunque il fatto che Matteo adopera lo stesso schema e lo stesso modo di esprimersi che troviamo in casi simili nell’Antico Testamento. Usando questo linguaggio, questo schema, queste espressioni, molto familiari sia a lui che ai suoi uditori, Matteo vuole semplicemente comunicarci che anche qui, nella nascita di Gesù, come era già avvenuto per la nascita di personaggi importanti della storia di Israele, abbiamo un intervento speciale di Dio.

6. L’apparizione in sogno

Tutte le comunicazioni divine a Giuseppe avvengono in sogno (Mt 1, 20; 2, 13; 2, 22). Anche i Magi vengono divinamente avvertiti in sogno di tornare al loro paese per un altra strada per evitare l’incontro con Erode (Mt 2, 12). Nella Bibbia i sogni appaiono come una via normale attraverso la quale Dio comunica con gli uomini. Così Abramo, durante un profondo sonno, riceve da Dio la promessa di una lunga discendenza (Gn 15, 12). Anche Giacobbe riceve la conferma di una lunga discendenza durante un sogno nel quale vede una lunga scala che dalla terra arrivava fino in cielo e sulla quale salivano e scendevano gli angeli. Egli consacra il luogo in cui ha avuto questo sogno notturno come la porta del cielo dove Dio ha voluto manifestarsi (Gn 28, 10-22). Rivelazioni per mezzo del sogno si verificano molto spesso anche nei profeti. Samuele, ancora giovinetto, riceve in sogno da Dio la rivelazione della rovina della casa di Eli (1 Sa. 3). Nel santuario di Gabaon, Dio appare in sogno anche a Salomone (1 Re 3, 5). Gli esempi sono numerosi in tutto L’Antico Testamento e sarebbe troppo lungo citarli tutti.

Benché questi sogni non siano mai stati oggetto di controversia lungo tutta la tradizione religiosa di Israele e abbiano anzi ricevuto una conferma del loro valore anche in numerosi passaggi del libro di Giobbe (Gb 7, 14; 33, 14-18), tuttavia con il maturare della religiosità ebraica i sogni, per la loro connaturale oscurità, sono un po’ alla volta considerati come una manifestazione teofanica inferiore rispetto alla comunicazione diretta di Dio con l’eletto. Così la tradizione sacerdotale esalta e valorizza sempre più, ad esempio, la funzione mediatrice di Mosè (Nm 12, 6-8) che a differenza di un qualsiasi profeta, parla con Dio, non con visioni o in sogno, ma direttamente faccia a faccia.

Via via che la mentalità si evolve, maturano anche le esigenze critiche. Così il Deuteronomio mette in guardia contro quei profeti che per mezzo dei loro sogni fanno deviare il popolo dalla fede nell’unico Dio (Dt 13, 1-5). È soprattutto Geremia che si scaglia contro quei falsi profeti che profetizzano prosperità al popolo gridando: «Ho avuto un sogno! Ho avuto un sogno!» In realtà questi falsi profeti con il loro «sogno» lusingano i vizi e le corruzioni del popolo facendogli dimenticare il loro vero ed unico Dio (Gr 23, 9-40). Geremia afferma che i veri sogni, quelli provenienti da Dio, mettono in guardia il popolo contro la prova tremenda che si sta avvicinando. Egli invita il popolo a non dare retta a coloro che dicono di non stare sottomessi al re di Babilonia (Gr 27, 1-11; Gr 29, 4-14). Alle parole di Geremia fa eco anche il profeta Zaccaria il quale afferma che i sogni bugiardi danno dei rimedi effimeri (Zc 10, 2).

Si tratta comunque, come si può chiaramente vedere, di una critica, tutto sommato, credente che mette in dubbio sì certe manifestazioni concrete, ma non intacca in fondo la validità del sogno come mezzo di rivelazione. Nel Giudaismo la riflessione prosegue. Nell’Ecclesiastico, per esempio, libro deuterocanonico, ritenuto ispirato solo dai cattolici, vi è un’impostazione più libera e razionale del fenomeno onirico. L’autore mette in guardia coloro che confidano eccessivamente nei sogni affermando che chi si fonda sul sogno è come colui che pretende di afferrare l’ombra e di inseguire il vento, perché il sogno non è che l’immagine di sé stesso, cioè la proiezione dei propri desideri e può essere causa di deviazione.
Nonostante questo l’autore ammette la possibilità che Dio possa servirsi anche del sogno come mezzo di rivelazione, ma non ci fornisce però criteri di distinzione per poter riconoscere i sogni soprannaturali da quelli naturali che nascono dalle preoccupazioni quotidiane e che sono assimilabili ai sogni ed alle visioni di cui ci parla Isaia nella sua profezia sulla città di Gerusalemme, indicata con il nome simbolico di Ariel (Is 29, 7-8).

Nel Nuovo Testamento i sogni conservano ancora tutto il loro credito, ma vengono usati con molta parsimonia e non servono in ogni caso come base per sostenere gli insegnamenti di Cristo e dei suoi discepoli. Degli evangelisti solo Matteo, nel suo vangelo dell’infanzia, fa riferimento ai sogni di Giuseppe e dei Magi. Matteo inoltre ci riferisce anche del sogno della moglie di Pilato in merito alla passione di Gesù (Mt 27, 19). Di visioni avute contemporaneamente da Anania e da Paolo si parla in Atti a proposito della conversione di  quest’ultimo (At 9). Sempre di visioni si parla a proposito della conversione del centurione Cornelio (At 10). Il sogno notturno di un uomo Macedone che lo supplica di recarsi in Macedonia, convince l’apostolo Paolo ad andare in questa regione per evangelizzarla (At 16, 9-10). Una visione notturna esorta Paolo a non aver paura di predicare l’evangelo a Corinto (At 18, 9-10). Giuda al v. 8 molto probabilmente parla dei sogni degli gnostici.
Contrariamente a quanto avveniva nell’ ambiente greco-romano, il cristianesimo primitivo si dimostrava reticente a dare al fenomeno dei sogni una rilevanza tale da poter influire sulla valorizzazione religiosa. I sogni pertanto sono nel Nuovo Testamento solo un fenomeno marginale che servono a dare soltanto delle indicazioni di carattere intimo e strettamente personale.

Matteo, nel suo intento di ricalcare le orme dell’Antico Testamento e di dare ai personaggi del suo racconto la stessa impronta degli antichi e famosi personaggi della storia ebraica, non manca di riferire a Giuseppe anche questo particolare della rivelazione notturna in sogno dell’angelo del Signore. Certamente c’è stata una rivelazione soprannaturale da parte di Dio a Giuseppe. Giuseppe infatti aveva precedentemente deliberato dentro di sé di lasciare Maria, ma in seguito alle parole dell’angelo, essendo "uomo giusto", comprende qual è il suo compito nel piano divino e si adegua prontamente. Come questo sia avvenuto in realtà è difficile dirlo. Le parole del versetto 20 « mentre rifletteva su queste cose» lasciano capire che ci deve essere stato in Giuseppe un travaglio interiore non indifferente. Dal punto di vista psicologico si può ben comprendere la situazione in cui venne a trovarsi in quell’occasione. Stava per sposarsi con Maria, ma un fatto del tutto imprevisto interrompe bruscamente il suo progetto d’ amore. La prima e la più naturale reazione di fronte a questo imprevisto che infrange le sue speranze di coronare un sogno d’amore a lungo coltivato, provoca in lui una forte emozione e la conseguente decisione di lasciare la sua amata sposa in segreto, senza esporla alle chiacchiere della gente. Ma questa decisione presa durante il giorno a caldo, continua a tormentare la mente di Giuseppe anche durante la notte. Ed è proprio durante la notte, mentre Giuseppe stava ancora riflettendo su queste cose, forse per trovare una soluzione diversa da quella presa a caldo durante il giorno, che interviene la rivelazione di Dio, gli apre la mente, gli dà la soluzione del problema.
Egli non deve lasciare Maria, perché il suo compito nel piano divino è quello di dare il nome al figlio che sarebbe nato dalla sua futura sposa. Giuseppe, uomo "giusto", nel senso biblico del termine, comprende finalmente e si sottomette al volere di Dio. Matteo non ce lo dice, ma non è escluso che Giuseppe nell’intimità della sua cameretta, nel dormiveglia, prima di addormentarsi si sia rivolto a Dio in preghiera per ricevere da lui l’aiuto necessario e Dio nel suo intimo lo abbia esaudito facendogli comprendere il posto che egli occupava nel suo progetto di salvezza.

Matteo non aveva a sua disposizione un linguaggio adeguato per esprimere il travaglio psicologico di Giuseppe se non quello che gli proveniva dalle Scritture dell’Antico Testamento. L’intervento soprannaturale di Dio su Giuseppe è indiscutibile perché senza questo intervento Giuseppe non avrebbe mai compreso il suo ruolo nel progetto divino. Come questo intervento sia effettivamente avvenuto è un discorso che deve essere inquadrato nella cornice del genere letterario usato da Matteo.

Considerando comunque l’immaginario di Giuseppe, giudeo di nascita e di educazione, allevato fin da fanciullo alla conoscenza della legge e della storia del suo popolo, non possiamo neppure escludere a priori che egli abbia effettivamente visto in sogno l’angelo del Signore che lo mette al corrente del suo ruolo di padre adottivo.

7. L’angelo del Signore

Matteo racconta che a Giuseppe apparve in sogno l’angelo del Signore e tale apparizione si ripete nel vangelo dell’infanzia di Matteo altre tre volte: in Mt 2, 13, dove l’angelo dice a Giuseppe di recarsi in Egitto per sfuggire alla persecuzione di Erode; in Mt 2, 19 Giuseppe viene avvertito in sogno dall’angelo di ritornare perché i persecutori erano morti; in Mt 2, 22 c’è un nuovo avvertimento di non fermarsi in Giudea, dove al trono di Erode era succeduto Archelao, ma di rifuggiarsi nel territorio della Galilea. In quest’ultimo caso viene usata la stessa terminologia che era stata usata per avvertire i Magi di non tornare da Erode: « divinamente avvertito in sogno» (Mt 2, 12.22). Le corrispondenti espressioni greche: " crhmatisqentej kat'onar " e " crhmatisqeij de kat'onar " che usano la forma passiva del verbo greco crhmatizw ci dice che si tratta di una utilizzazione religiosa di questo termine: Dio istruisce qualcuno (nel nostro caso i Magi e Giuseppe) mediante una rivelazione.

L’angelo del Signore che avverte in sogno Giuseppe richiama alla nostra mente il problema dell’angelologia. Chi era questo angelo del Signore? Che ruolo avevano queste creature spirituali nel progetto di salvezza dell’uomo? Nell’ Antico Testamento già troviamo queste presenze che interagiscono con le vicende umane. In Gn 16, 6-14 un angelo dell’Eterno conforta Agar scappata nel deserto per sfuggire ai maltrattamenti di Sara; Angeli del Signore appaiono anche ad Abramo in Gn 17, 15-22 e 18, 4-14 in forma umana, ma nel dialogo la loro presenza si confonde con la presenza dell’Eterno stesso il quale colloquia direttamente con Abramo. Un angelo dell’Eterno appare anche a Mosè nel roveto ardente in Es. 3, 2, ma i versetti successivi ci fanno comprendere che si tratta della presenza di Dio stesso. Anche dall’apparizione dell’angelo del Signore a Gedeone In Gdc 6, 12, si comprende che si tratta dell’apparizione dell’Eterno. La stessa cosa si può dire anche per l’apparizione dell’angelo dell’Eterno alla madre di Sansone in Gdc 13, 3. Dal contesto di questi passi si comprende che con l’espressione angelo del Signore o angelo dell’Eterno non ci si riferiva alla presenza di una creatura angelica separata da Dio, ma alla presenza di Dio stesso.

L’espressione ebraica corrispondente "malak Jahwèh" designa nei testi citati il Signore, Jahwèh stesso, rivestito di forma sensibile per rivelarsi agli uomini; per cui si può ragionevolmente ritenere con fondatezza che anche nel caso di Giuseppe, Matteo abbia inteso per "angelo del Signore" non un angelo creatura distinto da Dio, ma Dio stesso che nel sogno si rivela a Giuseppe in forma umanamente percepibile.

Del resto questo fatto appare in maniera molto chiara nell’episodio della lotta di Giacobbe con l’angelo a Peniel. In questo episodio si capisce chiaramente che l’angelo con il quale Giacobbe aveva lottato altri non era se non Dio stesso (Gn 32, 24-32).

Per una maggiore conoscenza sul tema degli angeli in generale e dell’angelo dell’Eterno in particolare, si possono consultare le corrispondenti voci del glossario che troviamo alla fine della Bibbia "La Nuova Diodati".

8. Il nome di Gesù

Interpellando Giuseppe, come figlio di Davide, in un certo senso l’angelo del Signore anticipa il ruolo che Giuseppe doveva avere nell’adozione di Gesù. Per parte materna Gesù non poteva essere considerato figlio di Davide e quindi erede delle promesse e delle benedizioni davidiche né dal punto di vista legale, né dinanzi all’opinione pubblica. La successione secondo il diritto ebraico passava solo tramite il padre, e quindi tramite Giuseppe che, essendo figlio di Davide, poteva a sua volta conferire questa sua davidicità anche a Gesù.

Dio comunica a Giuseppe che pur essendo la gestazione di Maria opera della potenza divina (Spirito Santo), egli aveva ugualmente una missione da compiere: quella di dare il nome al nascituro adottandolo in tal modo e trasmettendogli così la discendenza davidica. Giuseppe ha quindi una funzione indispensabile da svolgere nell’economia della salvezza, perché Dio agisce direttamente dove l’uomo non arriva, ma utilizza l’uomo fino dove esso può pervenire.

Era molto importante che Gesù discendesse in linea diretta da Davide e perciò il ruolo di Giuseppe da questo punto di vista era determinante. Secondo l’Antico Testamento quando Davide vagheggiò di costruire una "casa" (= tempio) a Dio, il profeta Natan gli rispose: «No, sarà l’Eterno a farti una casa! Io susciterò dopo di te un figlio (seme) e ne renderò stabile il regno e il trono in eterno. Perciò la tua casa e il tuo regno saranno eterni al mio cospetto. Il tuo regno durerà in eterno » (2 Sam 7, 5-16; 1 Cron 17, 14; cf Sal 89, 20-38). Anche se il trono davidico cade (come avvenne con l’esilio) la promessa sussiste per sempre (Mi 4, 1-5; Ag 2, 23) e si attua appunto in Gesù, detto Cristo.

Al tempo di Cristo si attendeva il Messia, come «figlio di Davide » (cf Mt 22, 42; Mc 12, 35; Lc 20, 41), proveniente dalla stessa sua città (Gv 7, 42). Gesù fu spesso salutato « figlio di Davide» dagli ammalati ( Mt 9, 27; 15, 22; 20, 30-31; ecc.), dalle folle (Mt 12, 23) e nel suo ingresso a Gerusalemme (Mt 21, 9.15), come restauratore del regno di Davide (Mc 11, 10) e re d’Israele (Gv 12, 13).

Si capisce in tal caso l’insistenza con cui fu presentato dalla predicazione primitiva come proveniente « dal seme di Davide secondo la carne» (At 13, 23; Rm 1, 3; 2 Tim 2, 8; Ap 22, 16), in quanto si voleva così affermare che in Gesù si erano attuate le antiche promesse rivolte a Davide dal profeta Natan.

Compito primario quindi di Giuseppe era quello di dare il nome al figlio che sarebbe nato da Maria. Dandogli il nome Giuseppe adottava ufficialmente il figlio che si stava formando nel seno di Maria e che era stato concepito per opera dello Spirito Santo.

Il nome per gli Ebrei era sinonimo di sostanza, natura, per cui nominare uno equivaleva a renderlo così come era nominato, almeno da parte di Dio. Il nome nella Bibbia, specie se dato da Dio, indica la realtà della persona, la sua funzione specifica in quanto Dio crea quel che esprime.
Il nome per gli Ebrei non era una semplice parola, bensì una parte essenziale della personalità. Gesù da Maria riceve la sua carne umana, ma da Giuseppe il suo nome che è stato suggerito da Dio stesso. L’angelo infatti dà questo ordine a Giuseppe: «tu gli porrai nome Gesù » Il nome Gesù è in ebraico Jeôshûa’ , abbreviato in Jeshûa’ (da cui deriva il nome greco Jêsou) e significa letteralmente "Jahwèh salvò" oppure come invocazione: "O Jahwèh, salva!". Ora questo nome era stato portato per primo da Giosuè, il conquistatore della terra promessa e quindi veniva spontaneo di pensare a lui.

Ma l’angelo si premura subito di precisare che Gesù non sarà semplicemente un salvatore politico-sociale, come lo era stato a suo tempo Giosuè. Facendo seguire immediatamente a questo ordine la frase: «egli salverà il suo popolo dai loro peccati» vuole intendere che in questo caso non si tratterà soltanto di una salvezza materiale, ma di una salvezza che andrà alla radice di tutti i mali e che, estirpando il peccato. ne eliminerà anche le conseguenze negative. Connettendo il nome di Gesù con la salvezza si vuole implicitamente dire che questo nome è espressione dell’amore di Dio (Is 26, 8; Gv 17, 6). Una frase simile la possiamo anche trovare nel Salmo 130, 8 riferita direttamente a Dio: «Egli redimerà Israele da tutte le sue iniquità». Nell’espressione dell’angelo: « egli salverà il suo popolo dai loro peccati» c’è quindi già un accenno alla divinità del nascituro bambino.

9. Emmanuele, Dio con noi

22.  Or tutto ciò avvenne affinché si adempiesse quello che era stato detto dal Signore, per mezzo del profeta che dice:
23.  «Ecco, la vergine sarà incinta e partorirà un figlio, il quale sarà chiamato Emmanuele che, interpretato vuol dire: "Dio con noi"»

Come avviene quasi sempre in tutto il suo Vangelo, Matteo, anche in questo caso, commenta e conferma la concezione di Gesù per opera dello Spirito Santo per mezzo di una profezia che troviamo in Isaia 7, 14 e che dice espressamente: « Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio e gli porrà nome Emmanuele ».

Su questo passo ci sono da fare alcune osservazioni preliminari:

1) Il testo originale ebraico al posto del futuro "concepirà" ha il presente "è incinta". Questo presente fa parte della retorica semitica per dire che il fatto è imminente, sta per verificarsi. La traduzione greca dei LXX traduce infatti con il futuro ed è seguita anche da Matteo.

2) La corrispondente parola ebraica almah, con cui viene tradotto il termine "vergine", significa semplicemente adolescente "fiorente in età" e non esprime necessariamente l’idea che si tratti di una vergine, per la quale si usa un altro termine ebraico betullah; tuttavia usualmente una "adolescente" è anche vergine.
Difatti Rebecca chiamata almah e pure detta poco prima betullah (Gn 24, 43; cf anche 24, 16). Il traduttore greco dei LXX usa in entrambi i casi la stessa parola greca parthénos che significa vergine o ragazza non sposata.

3) Il verbo « sarà chiamato» o «si chiamerà » si presenta in maniera diversa in alcune versione:

a) La versione dei LXX ha  "lo chiamerai".

b) Nei manoscritti di Isaia trovati a Qumran abbiamo "egli si chiamerà"  Sia La Vulgata che la siriaca Pishitta seguono questa versione.

c) Alcuni manoscritti greci hanno kalèsete "lo chiamerete" voi della casa di Davide a cui apparteneva Achaz, oppure kalésousin "lo chiameranno". Se tale variante non deriva dal vangelo di Matteo, è quella che è stata adottata anche dall’evangelista.

4) L’intento di Isaia . A che cosa si riferisce il profeta? Alla nascita di Ezechia rispondono gli Ebrei per bocca di Trifone (cf Giustino, Adversus Tryphonem). Ma in tal caso è difficile dire come mai la moglie di Achaz (che già era madre a quel tempo) potesse essere chiamata vergine. Forse si riferisce alla nascita del bimbo avuto dal profeta di cui al c. 8. I due racconti presentano alcuni punti di contatto e potrebbero essere paralleli, come risultata dalle seguenti osservazioni:
 

7, 14 La almah con l’articolo è un’adolescente ben nota 8, 3 La profetessa doveva essere ben nota. Non può essere la moglie del profeta, perché in tal caso sarebbe detta "sua moglie".
7, 15  Riprovare il male e scegliere il bene, indica l’età in cui si comincia a capire qualcosa.  8, 4 Prima che sappia gridare: "Padre mio, madre mia" indica l’età in cui egli inizia a capire
7, 16  Il paese di Siria e Israele sarà devastato  8, 4 Il bottino di Siria a Damasco sarà portato in Assiria.
7, 16ss Come mosche su tutta la Palestina; devastazione  8, 7s Come acqua strariperà anche su Giuda
7, 14  Nome: Emanuele  8, 8 Nome Emanuele (anche se vi è un altro nome simbolico Maher - Shalal - Ash - Baz). (Affrettato il saccheggio presto al bottino v. 3).

Che la nascita di questo bimbo sia un segno lo si deve al fatto che il suo nome sarà scritto su tavole deposte nel tempio prima ancora di nascere. La "adolescente" era nota come la "profetessa" forse nel tempio. Se fosse stata sua moglie, il libro di Isaia avrebbe scritto come sempre nell’A.T. "si unì a sua moglie". Qui si deve trattare di qualcuna (allora vergine) che non era sposa di Isaia; per meglio capire ciò si ricordi che allora era permessa la poligamia. Di più questo gesto non comune doveva servire di segno per Giuda e il re Achaz e imprimere meglio il messaggio del profeta.

5) Qual è lo scopo di Matteo nel fare questa citazione? Egli vuole mostrare che la profezia isaiana si era verificata in modo eminente in Gesù Cristo.

Secondo il metodo comune del midrash usato dai rabbini (e anche presso la Bibbia) al tempo di Cristo, si rileggevano i passi biblici che venivano applicati ad eventi contemporanei. Così anche il passo isaiano, connesso con eventi del secolo VIII a.C., si applica alla concezione di Gesù ad opera di Maria, avveratasi all’inizio dell’era cristiana.

Maria infatti è la "vergine" che non solo fu tale prima della concezione, come la profetessa isaiana, ma che rimase tale anche dopo la concezione come non si avverò invece nel caso di Isaia. Che debba rimanere vergine anche dopo il parto non è detto; è solo indicato che era ancora tale al momento del parto. Tertulliano nel 2° secolo pensava infatti che il parto avesse annullato la sua verginità. Il figlio di Isaia, detto Emanuele o "Dio con noi" (immanûel) era essenzialmente un segno della presenza di Dio, in quanto Dio sarebbe stato con lui e in lui avrebbe attuato la salvezza. Gesù invece non sarebbe stato solo un "segno" di tale salvezza, come il figlio di Isaia, bensì il mezzo scelto da Dio per realizzarla.

Siccome il nome di "Emmanuele" non è quello che deve imporre Giuseppe, ma quello che dirà di Gesù la gente in seguito, Matteo usa l’impersonale "kalésousin" ("lo chiameranno"), vale a dire lo si chiamerà. Non vedo in questa profezia l’allusione al fatto che Giuseppe deve imporre lui il nome di Gesù e nemmeno l’esaltazione di Maria, Matteo mette in prima linea Giuseppe, non Maria, e vuole esaltare Gesù e non i suoi genitori.

10. Giuseppe, il "giusto",  ubbidisce

24.  E Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva comandato e prese con sé sua moglie;

Il sogno dell’angelo fu una vera "annunciazione" che esigeva da Giuseppe un "fiat" pronto e generoso. Dio non obbliga, non costringe, ma vuole la cooperazione umana. Giuseppe, ubbidendo prontamente «prese con sé la sua sposa» e dopo la nascita del bambino «gli pose nome Gesù » (Mt 1, 24s).

11. Ma non la conobbe finché . . .

25. ma egli non la conobbe, finché ella ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù.

Nella Bibbia molto spesso il termine "conoscere" è un eufemismo per indicare i rapporti coniugali. Pur avendo preso con sé Maria con il rito delle nozze e con la susseguente coabitazione, Giuseppe si astenne da ogni rapporto intimo con lei sino alla nascita di Gesù. Per quale motivo? E’ difficile suggerirlo in quanto il testo tace.
Lo potrebbe aver fatto o per scrupolo essenico, poiché, ritenendo costoro che l’atto coniugale doveva avere per scopo la procreazione, se ne astenevano durante la gravidanza quando tale effetto era escluso. Oppure Giuseppe se ne astenne per rispetto verso la creatura che era nel seno di Maria e che apparteneva a Dio.
Oppure è Matteo ad esprimersi così per esaltare ancor meglio che Giuseppe, estraneo completamente alla concezione di Gesù, ebbe solo il compito di dare il nome alla creaturina. Ogni ipotesi è possibile, per cui è meglio lasciare nel segreto ciò che la Bibbia non dice, e tacere dove la Bibbia tace.

Va notato che il testo di Matteo dice che Giuseppe si astenne dal coniugio "fino alla nascita di Gesù" (eos); il che naturalmente fa presupporre che in seguito abbia avuto rapporti normali. La Chiesa Cattolica invece afferma, come già fece a suo tempo Girolamo (Adv Eludium), che il "finché" biblico parla solo dell’epoca  antecedente a quella fissata dalla congiunzione e non vale per il tempo successivo. Il prof. Fausto Salvoni ha dimostrato in alcuni suoi scritti  che questo presupposto è ben lungi dall’essere documentato. Infatti il "finché" ha questo senso precisivo solo in due casi: quando mette come termine la morte o il giorno d’oggi; ad esempio, Mikal rimase sterile fino alla sua morte (2 Sam 6, 23); le pietre rizzate da Giosuè dopo il passaggio del Giordano vi rimasero «fino al giorno d’oggi» (Gs 4, 9; Mt 28, 15). Questo è evidente perché dopo morti non si può operare e per il futuro non si può indovinare quanto sarebbe accaduto in seguito.

Ma in tutti gli altri casi in cui si determina una data particolare anteriore allo scrivente, il "finché" indica sempre un cambiamento di situazione. Anche il passo applicato a Cristo « Bisogna che egli regni fino a quando i suoi nemici saranno posti sotto i suoi piedi» (1 Cor 15, 25 = Sal 110, 1; Eb 10, 13), indica una variazione di stato, in quanto anche il Cristo, dopo aver debellato tutti i suoi nemici sarà sottoposto a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti (1 Cor 15, 28). Anche la frase: il Battista «Stette nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi a Israele» (Lc 1, 80), non fa eccezione, poiché lo stesso scrittore ci dice che al tempo in cui si presentò ai Giudei egli «andò per tutta la contrada attorno al Giordano» al posto obbligato dei guadi giordanici e quindi al di fuori del deserto precedente (Lc 3, 3). (1)

La conferma più evidente del senso normale del "finché" si ha pure dal fatto che i vangeli ci parlano di "fratelli" e "sorelle" di Gesù (Mt 13, 53-56), che alcuni senza motivo vorrebbero considerare dei semplici "cugini" o "fratellastri". Infatti per il Protovangelo di Giacomo, Giuseppe sarebbe stato un "vecchio" vedovo e con figli, ciò che il vangelo non lascia affatto sospettare. Paolo, che chiama "cugino" (anepsiòs) Marco nei riguardi di Barnaba, non teme di chiamare Giacomo « fratello (adelphòs) del Signore » (Cl 4, 10; Gl 1, 19).

Non è possibile insistere sul termine "primogenito", aggiunto al nostro passo da qualche codice, per dimostrare che Gesù è stato il primo di altri fratelli in quanto sembra che siamo in presenza di una parola proveniente da Luca e successivamente introdotta nel vangelo di Matteo. Inoltre il termine "primogenito", avendo per gli Ebrei un valore prettamente giuridico, non implicava necessariamente la nascita di altri fratelli: poteva essere primogenito anche il figlio unico.

Dalle considerazioni precedenti si vede quanto sia infondata l’asserzione del Winandy (op. cit. p. 53) il quale, pur ricordando l’esistenza di fratelli e sorelle di Gesù (Mc 6, 3), chiama "fanciullesco" (enfantin) il poggiare su questi passi per mettere in dubbio la verginità perpetua della madre di Dio: «Dal punto di vista storico l’argomento non presenta alcuna consistenza. Sarebbe lo stesso che pretendere, come fecero al III secolo alcuni controversisti giudei, che Gesù fos-se frutto di un adulterio. Da una parte e dall’altra si tratta di affermazioni gratuite, di ipotesi senza fondamento, di calunnie, di aggiunte, ultimo rifugio di spiriti che si adombrano dinanzi al mistero».

Le affermazioni precedenti mostrano come dinanzi a un dogma esegeti, anche valenti, dimentichino ogni regola critica nel valutare i testi. Strano questo paragonare l’interpretazione del vocabolo "fratelli" nel senso  di veri fratelli con le calunnie rabbiniche circa l’adulterio di Maria che è del tutto escluso dai vangeli.
Strano questo parlare di "aggiunte" e di "calunnie" dinanzi al mistero per persone che accolgono il mistero ben più grande della concezione verginale ed escludono invece la perpetua verginità solo per ragioni bibliche.

12. Valutazione storica del racconto

Appare chiaro che in questo racconto l’evangelista ha voluto insegnare la concezione verginale di Maria per l’azione straordinaria dello Spirito Santo ed il ruolo importante di Giuseppe come padre adottivo di Gesù.

Abbiamo già visto che la davidicità di Gesù è stata universalmente accettata da tutti gli altri scrittori del Nuovo Testamento e non è stata mai messa in dubbio nemmeno dagli avversari. Tale fatto dal punto di vista storico è rilevante, perché se ci fossero stati dei dubbi circa la provenienza davidica di Gesù sarebbe stato fin troppo facile squalificare tutta la sua opera e la successiva predicazione da parte dei suoi discepoli. Se ciò non è mai stato fatto è segno che c’era un serio fondamento storico sulla provenienza davidica di Gesù.

Per quanto riguarda il resto è ovvio che ci troviamo in presenza di fatti che non potevano essere constatati sensibilmente da altri testimoni all’infuori dei due protagonisti principali, Giuseppe e Maria. Già i primi cristiani li credettero per fede, prima sulla base della catechesi orale e poi sulla parola degli evangelisti. Sia la catechesi orale (insegnamento orale) che gli evangelisti non avevano altra fonte se non quella delle confidenze di Maria e di Giuseppe.

Affermare quindi che la catechesi orale e gli evangelisti abbiano storicizzato la sostanza del racconto per presentare la straordinarietà dell’azione dello Spirito Santo in Cristo, mentre in realtà dal punto di vista storico Gesù sarebbe nato da Maria e Giuseppe come tutti gli altri uomini, non ha alcuna base storica concreta di riscontro in altri fatti o documenti in nostro possesso. Sarebbe come dire in un processo che la testimonianza degli unici testimoni presenti al fatto non corrisponde al vero, senza portare alcuna prova per suffragare tale affermazione.
Nel caso del racconto di Matteo questa affermazione andrebbe anche contro il senso ovvio degli stessi evangelisti e di tutta la tradizione cristiana.

Più attendibili potrebbero essere le obiezioni circa i particolari del racconto, quali il sogno e l’apparizione dell’angelo in quanto si potrebbe pensare che si tratti di particolari di drammatizzazione e di abbellimento del racconto.

Il sogno e l’apparizione angelica potrebbero essere un rivestimento sensibile, composto con i dati biblici dell’Antico Testamento, del fatto (conosciuto per tradizione) che Giuseppe, a conoscenza della concezione verginale di Maria, sia stato convinto in sogno dall’angelo ad assumere il ruolo di padre adottivo. Tale avviso o avvertimento a Giuseppe potrebbe essere avvenuto in sede di cronaca in un altro modo, per esempio mediante un’ esperienza mistica o una visione interiore, come dice anche il Peretto, secondo il quale Giuseppe ha regolato la sua esistenza come gli dettava la sua coscienza illuminata dallo Spirito Santo. Questo è possibile, ma non lo si può provare. Non si può inoltre a priori negare, come abbiamo detto, che non possa essersi trattato di una reale apparizione in sogno.

È sul semplice aggettivo "giusto", che ruota tutto il racconto di Matteo. Su questo aggettivo infatti si impernea in definitiva la credibilità storica di tutto il racconto in generale e dell’apparizione in sogno in particolare. Soltanto ad un uomo "giusto" come Giuseppe, con una visione della vita fortemente influenzata e condizionata dall’appartenenza al popolo ebraico e della sua incrollabile fiducia in Dio, poteva apparire del tutto normale la concezione verginale di Maria da parte dello Spirito di Dio. Se lo Spirito di Dio era stato così potente da dare inizio alla creazione e da determinare con i suoi interventi la storia del suo popolo, come non poteva non aver agito con altrettanta potenza anche su Maria, sua sposa? E se così era stato quale poteva essere la sua parte in questo progetto divino?

Al primo impulso di abbandonare Maria in segreto, era subentrata la riflessione che non lo aveva abbandonato tutto il giorno e lo accompagnava anche nel momento di coricarsi per il riposo notturno. Con questi pensieri nella sua mente Giuseppe si era addormentato. Ma come avviene in genere in questi casi in cui si è colpiti da forti emozioni, il cervello di Giuseppe continuava a lavorare anche mentre dormiva. È quindi del tutto normale che in queste condizioni psicologiche durante il sogno egli abbia realmente avuto la visione di un angelo del Signore, di Dio stesso che gli ha chiarito le idee e gli ha mostrato con chiarezza la strada che doveva seguire per risolvere il suo problema.

Voce di popolo, voce di Dio si dice normalmente. Nei detti popolari vi è spesso una saggezza divina che supera ogni logica umana e che alla fine si dimostra vera. Uno di questi detti dice appunto che la notte porta consiglio. Effettivamente la notte portò consiglio a Giuseppe.  Al mattino egli, infatti, ebbe chiara la visione di quello che doveva fare.

Del resto non dobbiamo pensare che Dio agisca nei confronti dell’uomo come una sorta di genio della lampada di Aladino con prodigi fantasiosi e spettacolari da prestigiatore. Il suo intervento nell’uomo e nella storia dell’uomo è spesso molto sobrio e molto meno spettacolare di quello che si potrebbe pensare. Egli il più delle volte agisce nell’intimo stesso dell’uomo, si serve della stesse leggi che regolano la natura e la psiche umana per portare a compimento il suo grande piano di salvezza dell’uomo. Soltanto i credenti riescono a vedere negli avvenimenti la potente mano di Dio e si adeguano alla sua volontà; per i non credenti si tratta solo di casi più o meno fortunati della vita. Se Giuseppe non fosse stato un uomo "giusto", cioè un uomo che sa distinguere il superiore intervento di Dio, si adegua ad esso e anzi lo favorisce, molto probabilmente avrebbe reagito in maniera molto diversa alla notizia che Maria era rimasta incinta per opera dello Spirito Santo e non avrebbe mai visto in sogno un angelo che cercava di convincerlo del contrario.


NOTE A MARGINE

(1) Per uno studio più approfondito sul valore della congiunzione "affinché" (eos) vai a spunti di esegesi: "Matteo 1, 25" . torna al testo