L’uomo che restituì la cittadinanza ai malati di mente

Franco Basaglia


di Angelo Gravino

 Nel numero precedente del marzo u.s. di questo periodico ho descritto, succintamente, gli ideali che animavano i giovani del ’68 che lottavano per la realizzazione di una società migliore. La società italiana di quegli anni sembrava incartata, incapace di recepire le spinte innovative che venivano dall’Europa e dall’America. In questo clima di indecisione, negli ospedali psichiatrici vigeva la vecchia struttura piramidale in essere dal 1904. La memoria mi rimanda alle prime notizie apprese riguardanti la malattia mentale. Il filosofo francese Michel Foucault, autore di “Storia della follia”, ha individuato l’anno in cui inizia la segregazione: il 1676. In quell’anno in Francia viene emanato un editto che ordina di istituire in ogni città centri che svolgono attività simili a quelle dell’Hospital General di Parigi. In questa struttura dal 1657 vengono ammassati mentecatti e vagabondi, nullatenenti, disoccupati, sfaccendati, alcolisti, pazzi, idioti, tutti quelli ritenuti pericolosi; nonché mogli odiate, figlie disonorate e figli che sperperavano il patrimonio. Di questi internati i più facinorosi venivano legati con catene. Questo inferno umano era stato creato al solo scopo di rendere più sicura la società cosiddetta perbene. Chi diede una svolta radicale alla cura dei malati di mente fu il medico francese Philippe Pinel. In seguito alla morte di un suo caro amico, il quale senza apparente motivo si rifugia in un bosco e dopo diversi giorni viene trovato dilaniato dai lupi, Pinel decide di dedicarsi alla cura del malato di mente. E nel 1793 viene incaricato di dirigere l’asilo Bicêtre di Parigi. Pinel libera gli internati dalle catene e inizia la cura dei malati di mente. Sorgono così le basi del lungo dialogo tra gli psichiatri e le istituzioni. Alla fine del 1800 quasi tutti gli Stati europei erano dotati di manicomi, dove venivano ospitati i malati di mente. Come ho accennato all’inizio, in Italia la struttura manicomiale viene istituzionalizzata nei primi anni del 1900. Essa ha uno schema prettamente piramidale. Il malato all’entrata nella struttura perde cittadinanza e diventa un numero: deve indossare la divisa, viene collocato in una camerata dalle finestre con inferriate e chiusa da una porta con serratura a doppia mandata, nonché chiusura perenne con il mondo esterno. Quando lo riteneva opportuno il personale di vigilanza poteva usare la camicia di forza, il letto di contenzione e l’elettroshock. L’organizzazione medica era assolutamente verticistica: l’infermiere, persona più vicina al malato e quindi conoscitore dello svolgersi delle azioni dello stesso, non aveva il diritto a riferire di quanto da lui appreso al primario che doveva stabilire il piano di cura del malato. Quindi tutto era demandato dal Caposala al Primario. La malattia mentale era schematizzata e la cura oggettivizzata e non aveva niente di scientifico. Questo modo di curare il malato di mente, in quasi tutta l’Europa, era considerato ormai obsoleto, per cui gli studenti in medicina nelle nostre Università negli anni ’60 contestarono le lezioni di psichiatria dei vecchi baroni, rivendicando una psichiatria all’altezza dei tempi, prendendo in osservazione i singoli soggetti. Lo psichiatra che dimostrò particolare sensibilità all’attuazione di una terapia veramente scientifica e democratica fu il veneziano Franco Basaglia, il quale nel1961 andò a dirigere il manicomio di Gorizia e in poco tempo cambiò al meglio la struttura, sopprimendo tutte le misure restrittive. Nel giro di poco tempo creò un’equipe di giovani medici che continuamente si riunivano e stabilivano una terapia mirata sul singolo soggetto. Per completare la terapia da lui programmata aveva bisogno che il malato venisse a contatto col mondo esterno. Ciò non gli fu concesso dalle istituzioni locali, per cui diede le dimissioni. Dopo aver trascorso alcuni mesi al Colorno di Parma, nel ’71 fu chiamato al S. Giovanni di Trieste. Qui Basaglia trovò molta disponibilità da parte dell’Amministrazione Provinciale, potendo così attuare in pieno il programma di psichiatria democratica. La popolazione del luogo, dopo un breve periodo di contrarietà, accettò l’incontro con la gente ospitata nell’ospedale psichiatrico. Approfittando che il S. Giovanni disponeva di un parco meraviglioso, Basaglia si attivò a organizzare convegni di livello internazionale sulla salute mentale, organizzò rappresentazioni teatrali, di pittura, concerti e balli in cui si notava che il malato di mente, uscito dal’isolamento, accettava di ballare con chi veniva dal mondo estero. In questi anni Basaglia Riuscì a convincere i dirigenti dell’Alitalia, che misero a disposizione un aereo che portò un gruppo di ricoverati del S. Giovanni in volo a Venezia. Nel 1973 l’Organizzazione Mondiale della Sanità riconosce il S. Giovanni di Trieste “zona pilota” nell’ambito psichiatrico. Per il rinnovatore della psichiatria non fu un cammino facile, anzi fu pieno di ostacoli che cercò in ogni modo di superare. Subì attacchi violenti dalla stampa e dalla televisione, dai quali si difese con determinazione, perché capì che la comunicazione era un’arma efficace per la divulgazione della sua terapia sulla salute mentale. Poche sere addietro ho rivisto in televisione uno spezzone della prima intervista fatta dal grande giornalista Sergio Zavoli. Si vedeva un Basaglia muoversi continuamente nella stanza mentre rispondeva alle domande. In seguito acquisì molta dimestichezza con i mezzi di comunicazione, centrando in pieno il suo obiettivo: la diffusione delle sue idee presso l’opinione pubblica. Questo dibattito sulla terapia della salute mentale convinse i radicali a promuovere il referendum per l’abrogazione della legge del 1904 sull’istituzione dei manicomi. Il Parlamento, sotto la spinta del referendum e dell’opinione pubblica che voleva una nuova terapia, il 13 maggio 1978 con n° 180 approva la legge che chiude i manicomi e racchiude nella normativa quasi tutta la terapia sperimentata da Basaglia, per cui viene sempre abbinata al nome del coraggioso psichiatra. Come si può constatare la legge 180 venne approvata tre giorni dopo la morte dell’onorevole Aldo Moro, per cui passò quasi inosservata. La 180 è denominata legge quadro in quanto dà alle Regioni la facoltà di emanare provvedimenti per istituire sul territorio centri destinati alla cura del malato di mente, creando un proficuo rapporto tra l’amministrazione locale, la struttura sanitaria e il mondo esterno. A 30 anni dall’approvazione, la legge 180 non ha potuto soddisfare del tutto l’opinione pubblica a causa di inadeguati finanziamenti. Bisogna tenere sempre alta l’attenzione, perché sono sempre in agguato i detrattori della 180, volendo modificarla per tornare al passato. Perché i movimenti del 1968 che chiedevano la riforma dei manicomi hanno attirato la mia attenzione? Negli anni 1953-70 insegnavo alle carceri di Frosinone. Ho avuto modo di constatare che ogni singolo detenuto presentava problematiche diverse, dipendenti dall’età, dall’ambiente di provenienza e dai sintomi caratteriali imprevedibili. Sono giunto alla conclusione che per alcuni, autori di reati minori, per la rieducazione sarebbe stato più adatto un luogo fuori le carceri, munito di laboratori dove apprendere un mestiere, che avrebbe favorito l’inserimento nella società, una volta conseguita la libertà.

Angelo Gravino