San Rocco 1948: un’avventura a lieto fine

La’ dove il Sacco è cupo

Quando i ceccanesi facevano il bagno e pescavano (anche di frodo…) nel loro mitico fiume


di Claudio Mancini

Noi della terza età (e magari qualcosina in più…) siamo persone importanti! Anzi: più si va avanti negli anni e più si è importanti. Perché, se in buona salute mentale, noi siamo depositari di ricordi, di episodi di vita vissuti in proprio o da altri (anche “big”) accaduti sia nei luoghi in cui viviamo, sia altrove, e che comunque abbiamo presenti per il rilevo che essi hanno avuto direttamente o indirettamente su di noi, sui nostri paesi e spesso con effetti che ancor oggi si risentono. E possiamo narrarli. Dicevo al nostro amico “Pippotto” (lo individuerete subito) che, a ben pensarci, noi “anzianotti” siamo dei “pezzi di storia” ambulanti, perché ci sono tanti fatti e cose che già chi è nato qualche anno dopo di noi o non conosce o li ha percepiti per “sentito dire”, mentre noi li abbiamo visti e, come suol dirsi, toccati con mano. Volete un esempio? Vi rievoco quella fiaccolata, fatta con pezzi di giornale e di cartone che i ceccanesi d’ogni età accesero festanti quella sera dell’8 settembre del ’43 dopo l’annuncio dell’armistizio dato per radio dal maresciallo Badoglio; perché come tanti italiani (soprattutto… fanti…) credettero che fosse finita la guerra. Così come potremmo raccontare tanti episodi che abbiamo vissuto dopo quella data, ma anche prima: ad esempio la caduta di un nostro caccia, che per avaria, precipitò nei pressi della Botte: e tutto il paese a portarsi sul luogo, in bicicletta o a piedi e poi i solenni funerali, in piazza, del povero aviere che lo pilotava. Correva se non erro il 1941. Ma, tra le tante cose che si potrebbero raccontare, oggi un episodio debbo proprio narrarvelo. E’ un qualcosa che pur essendo di carattere prettamente personale ci riporta ai tempi, oggi proprio incredibili, in cui il nostro fiume Sacco, nonostante quel suo allora color marrone quasi “testa di moro”, non solo era un corso d’acqua molto pescoso (intere famiglie vivevano della vendita delle anguille, degli “squali” e degli altri pesci d’acqua dolce; vendita generalmente fatta casa per casa o per la strada dagli ambulanti capifamiglia pescatori, aiutati da qualche figlio bambino). Ma udite! Odano coloro che non volessero crederci. Il Sacco, a Ceccano, aveva le sue “spiagge” a ridosso delle anse e dei punti in cui, anziché essere “spaso” era “cupo” (cioè profondo). E così come avviene ancora per taluni fiumi “puliti”, ci si andava a fare il bagno, o come si diceva in dialetto “a natà”. E poco importava agli accaldati frequentatori delle sue rive se a poca distanza dei siti più idonei alla balneazione c’erano punti adatti al guado di vacche o altri quadrupedi che attraversano tranquillamente il fiume mentre qualche persona faceva il bagno. Mi direte: ma queste cose le abbiamo già lette o sentite; attenzione: ma quel che sto per dirvi certamente no, perché è una cosa, un fatto che riguarda direttamente il sottoscritto e, come tale, risaputo soltanto da chi ci si trovò presente. E qui faccio una premessa: una vecchia che incontrai “per le scalette” presso il “Cappellone” vedendomi, un giorno scendere dal Castello con una borsa in mano, mi fermò e mi disse: <<non andare al fiume! Il fiume vuole un morto all’anno>>. Siccome io non andavo affatto al fiume, ma alla stazione, neppure mi informai se, per quell’anno, l’annunciato tributo umano al nostro Sacco fosse già stato corrisposto da qualche annegato. Ma, per certo, se io quella vecchia l’avessi incontrata prima del ferragosto del 1948 io quel giorno di San Rocco agli “zumpaturu” non ci sarei andato. Come in effetti da quella data mai, mai più mi recai sulla riva del Sacco con l’intenzione di fare il bagno. Orbene quel pomeriggio del 16 agosto ’48 il mio fratello maggiore e Giacinto Ricci mi portarono alla suddetta rinomata spiaggetta, che sta poco dopo la confluenza tra il Cosa e il nostro Sacco. Ci arrivammo dal paese, passando su un sentiero che costeggiava il muro del vecchio Camposanto. Sulla riva c’era un bel gruppo di ragazzi che aveva già utilizzato a dovere il patrio fiume facendovi il bagno e carpendo con mani esperte dalle tane dei pesci tutti quelli che avevano potuto afferrare; per lo più piccoli “squali” (cavedani) e rovelle, cioè quel che i pescatori veri avrebbero chiamato “minutaglia”: stesi i loro fazzoletti ne avevano fatto dei piccoli mucchi e se la stavano spartendo. Accaldati ed esperti nel nuoto mio fratello Giorgio e Giacinto Ricci si immersero subito, ma senza tuffarsi. Io, nonostante il caldo (ma l’acqua mi parve freddina oltre che torbidamente marrone) non sapendo ancora nuotare (qualcuno aveva cercato di insegnarmelo l’anno prima sul Lago di Ginevra) non li seguii. Vidi però che dal fatidico sito “dugli zumpapuru” qualche ragazzo si tuffava ancora. <<Jettatu che è spasu!>> mi disse qualcuno di loro. Ma io per diffidenza, trovata sulle rive una canna, prima di dargli retta, mi risolsi di accertare la profondità del punto in cui avevo visto far tuffi. E fu così che per aver immersa quasi tutta la canna il peso della testa mi causò la caduta nel fiume; tuffo imprevisto e proprio involontario, proprio là dove, altro che spaso! il fondale era più alto. Annaspando riemersi una prima volta. Per fortuna il tonfo era stato percepito da Giacinto Ricci il quale cominciò a urlare verso quel gruppo di ragazzi <<Buttatevi! Prendetelo che non sa nuotare!>> Allorché, sempre annaspando, riemersi la seconda volta (e mi dissero che se fossi sprofondato di nuovo non me la sarei cavata!) un ragazzo di cui ricordo solo il nome, Mario, toltosi a mala pena le scarpe, ma non i pantaloni e la canottiera, si gettò nel fiume e mi portò sano e salvo sulla riva. Ovviamente in questa che eufemisticamente chiamerei “esperienza”, io ebbi modo di ingurgitare abbondantemente quel liquido marroncino e penso non fatto solo di H2O, che formava il nostro Sacco. E naturalmente poi, tutti quei ragazzi intorno a me: <<hai avuto paura?>> Mi chiese premurosamente uno di loro: <<Vuoi un bicchiere d’acqua?>> Io questa cosa l’ho raccontata talvolta in qualche cerchia d’amici. Perché quell’offerta “antipanica”, fu talmente spontanea che oltre a far corredo al salvataggio aggiunse a quell’episodio, quel pizzico d’umorismo che io amo rinvenire, sempre, anche nelle più singolari o tristi vicende dell’esistenza. Quanto al “salvatore” io, in tanti, tanti anni, non l’ho mai incontrato. Mi piacerebbe rivederlo, non fosse che per rievocare il fatto, berci sopra… un buon bicchiere di Brunello al “Vicoletto” di Terracina, quantomeno; e valutare con lui se l’avermi fatto vivere ancora per molti anni (ma attenzione: c’è stato, vari lustri dopo qualcuno che guidando la mia auto, ha rischiato di ammazzarmi era sempre d’agosto e ci ha salvato S. Maria del Fiume!) sia stato “o meno” utile per l’umanità. E, a riguardo ai viventi e ai posteri, quelli nostrani per lo meno, l’ardua sentenza.

Claudio Mancini