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insegnanti ed educatori della scuola media di via Maffucci, del Distretto Scolastico 80, del quartiere Bovisa di Milano

 

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EDUCAZIONE E AFFETTI

Resoconto della conversazione del 7 febbraio 2001 con Anna C. operatrice ASL di via Brivio presso il Consultorio Famigliare, esperta di problematiche affettive e sessuali dell’età evolutiva.

Sono presenti all’incontro: Marisa G., Carlo E., Giovanna O., Giovanna G., Daniela R., Anna D.C., Ferruccio D., Felice S., Franca C., Rita R., Anna C.

L’incontro si apre con una introduzione – stimolo alla conversazione:

Felice:

Qualcuno del nostro gruppo, sul tema dell’affettività in educazione, ha cominciato a sperimentare nel recente passato alcune proposte che possono essere riassunte citando un testo per tutti: "Star bene a scuola" del gruppo della prof. Francescato dell’Università di Roma.

Questo testo integrava le proposte dello psicologo americano Gordon e suggeriva metodologie e strategie da impiegare in ambito educativo. Più recentemente dello stesso Gordon è stato pubblicato il libro "Leader efficaci"che si è aggiunto agli altri, importanti per la nostra esperienza, "Genitori efficaci" e "Insegnanti efficaci".

Negli ultimi anni il problema del trattamento degli affetti in educazione ha preso sempre più una "piega americana", nel senso che questo tema appare essere trattato come una malattia a cui si risponde con una medicina, una sorta di new-age educativa: "attiva questa procedura e tu vivrai felice", "usa questo strumento e sarai contento e potrai risolvere i tuoi problemi affettivi".

Lo stesso Goleman, lo psicologo americano famoso per l’"intelligenza emotiva" che propone addirittura una misura del QE – Quoziente Emozionale, rientra da un certo punto di vista in questa tipologia di approccio.

C’è invece tutto un altro filone teorico, che mi pare molto interessante, il quale propone un approccio più legato alla sfera del "profondo" della personalità e della relazione, più vicino alla dimensione dell’anima e alle ricerche della psicanalisi. Il gruppo di Clinica della Formazione del prof. Massa dell’Università di Milano ad esempio propone un approccio al problema dell’educazione agli affetti centrato sull’analisi dei dispositivi educativi, sulla ricerca delle dimensioni nascoste dell’operare educativo, sull’interpretazione delle zone d’ombra della relazione educativa.

Per schematizzare i due diversi approcci metodologici cito due lavori:

una serie di articoli degli ultimi numeri della rivista Psicologia e Scuola sull’educazione emotiva, nei quali si propone un vero e proprio curricolo educativo e formativo
il testo ultimo di Mottana "Miti d’oggi dell’educazione" nel quale l’autore, membro del gruppo di Clinica della Formazione, considera un mito il tentativo di "bonificare" gli affetti e dimostra che questi non sono affatto educabili. Egli propone una modalità di approccio che sia in grado di farci prendere coscienza dei sentimenti e delle passioni che ci travolgono, senza aver la pretesa di "governarle" poiché anzi queste sono funzionali alla nostra vita stessa, offrono un senso e "sono la nostra misura del mondo".

Chiudo questa introduzione ponendo le due modalità indicate come stimolo alla discussione e indicando altre domande su cui confrontarsi:

Si può proporre un curricolo educativo per gli affetti oppure no?

Chi può fare un intervento efficace?

Chi educa gli educatori che si occupano di questi temi?

Carlo:

Ho proposto ai miei ragazzi di terza media, come testo argomentativo, l’articolo di Pirani comparso recentemente sul quotidiano La Repubblica, che ha fatto tanto scalpore. Ne ho ricavato un’impressione negativa perché ciò che finisce sui giornali non corrisponde a ciò che pensano i ragazzi. Pirani dice addirittura che l’anello debole del percorso educativo è il ciclo della scuola elementare, sono cioè i bambini più piccoli.

Anna C.:

Io rilevo attraverso il mio lavoro che nei ragazzi è presente una forte mancanza di capacità di essere consapevoli delle proprie emozioni, un’incapacità a non farsi travolgere dai sentimenti. Penso che bisogna trovare le strategie giuste per far comprendere le emozioni perché noi registriamo sempre più un analfabetismo emozionale nelle nuove generazioni. Sembra che ci sia da parte dei ragazzi il bisogno di aumentare sempre più la spinta emozionale, la spinta a provare sempre più forti emozioni.

Giovanna G.:

Non solo c’è questa spinta ma c’è anche una mancanza di controllo sociale nel porre dei freni. I ragazzi si sentono più liberi e meno condizionati e in questo contesto le emozioni si liberano più facilmente.

Anna C.:

L’aumento dei fenomeni di bullismo e degli atti di violenza sono il segnale di questa "forzatura" emozionale. Da questo punto di vista le ragazze sono più dotate nel saper riconoscere l’espressività emozionale dell’altro, a differenza dei maschi che sono invece più portati ad agire l’aggressività e nell’essere più intolleranti. In tale contesto il possesso del telefono cellulare appare una sorta di controllo virtuale da parte degli adulti e anche un sostitutivo della comunicazione tra questi e i propri figli.

Nell’ambito dell’educazione affettiva i percorsi di intervento sono duplici:

uno spendibile sull’agito comportamentale nel quale sono gli educatori i protagonisti formativi
uno più collocato ad un livello più profondo nel quale è lo specialista a dover intervenire.

Non sono comunque d’accordo con chi pensa solo a soluzioni di intervento più specialistiche.

Anna D.C.:

Io penso che la sola presa di coscienza dei sentimenti, da sola, non produce trasformazione, tanto più necessaria per i nostri ragazzi.

Anna C.:

Anche il semplice contare fino a dieci prima di agire può essere utile per attenuare il sentimento di rabbia. Credo che qualcosa si può fare anche con piccoli interventi di autocontrollo comportamentale.

Carlo:

Si tratta di comprendere che cosa si deve intendere per educazione affettiva. Io penso che ad essere educabili debbano essere le abilità sociali mentre l’educabilità dei sentimenti vada ricondotta piuttosto alle origini della nostra formazione di vita. Qui sono i nostri genitori, la nostra esperienza infantile, le origini dei comportamenti.

Anna C.:

Credo che nell’ambito comportamentale ci sia un problema di lettura, di decodifica, dell’espressività mimica: ci sono alcuni che riescono a leggere questi aspetti e altri no.

Felice:

Faccio una provocazione: secondo alcuni autori "capire come stanno i miei lobi frontali o la mia amigdala" non garantisce della bontà del proprio vivere quotidiano. Cioè i tentativi di razionalizzazione non producono effetti sulle mie emozioni. Non è calmando l’ansia che risolvo un problema ma è dando un senso a questa che mi può aiutare a vivere meglio la mia vita.

Con Iole e Daniela e con la supervisione della "Associazione Il Minotauro" abbiamo realizzato due anni fa un’esperienza educativa in una terza classe con fenomeni di bullismo ( gli articoli che raccontano quell’esperienza sono stati pubblicati sulla rivista di pedagogia "Marcondiro" di Daniele Novara ). Io ne ho ricavato una lezione: le emozioni, i sentimenti dei ragazzi non li abbiamo bonificati. Siamo riusciti però a fornire un setting, uno spazio condiviso in cui queste emozioni potessero essere vissute e confrontate. Non abbiamo cambiato i ragazzi, la loro personalità, la loro storia affettiva pregressa e né poteva darsi questa possibilità perché penso che dietro questa fantasia ci sia una volontà megalomane e coercitiva. Ora, sebbene l’educazione sia cambiare qualcosa, credo che il discorso dei sentimenti sia questione molto delicata.

Andrea, il bullo della situazione, è rimasto Andrea, ad Andrea e agli altri ragazzi però è stato dato un dispositivo pedagogico in cui potessero essere agite le emozioni per essere meglio capite.

Anna C.:

L’essere umano impara attraverso l’esperienza e quell’esperienza che avete fatto è servita per un cambiamento.

Felice:

Allora forse l’approccio educativo efficace all’affettività è costruire dispositivi adeguati piuttosto che praticare curricoli specifici.

 

Anna C.:

Suggerisco un testo per la pratica di strategie di educazione emotiva, un testo di Di Pietro.

Felice:

Lo conosco, si intitola "L’educazione razionale – emotiva", deriva dalla RET ( Terapia Razionale – Emotiva ) di origine americana. La sottolineatura del termine terapia la dice lunga sull’impostazione pedagogica. Io non dico comunque che non debbano essere usate strumenti o protocolli di intervento, quello che mi preoccupa però è il tentativo di tranquillizzarsi solo per il fatto che si suggeriscono tecniche. La tematica delle emozioni è sfuggente, difficilmente si piega alle razionalizzazioni. Penso piuttosto alla costruzione di dispositivi, di setting in cui mettere a tema le emozioni. Ad esempio nella classe 1D c’è una ragazza che non viene più a scuola, immagino perché ha un grosso vissuto negativo nei confronti di questa; ora, se e quando tornerà, credo noi adulti dovremo creare un ambiente educativo, un setting pedagogico che possa consentire a questa ragazza di rigiocarsi soprattutto affettivamente in termini positivi.

Franca:

I miei due figli sono vissuti nello stesso ambiente eppure sono diversissimi, uno controllato l’altro aggressivo. Io penso che certe cose siano innate, in particolare credo sia un problema di autostima e di attivazione di strategie che siano in grado di potenziarla adeguatamente.

 

Marisa:

I ragazzi aggressivi e distruttivi ( l’altra faccia dell’abbandono e della violenza sociale e famigliare ) tutto sommato per noi insegnanti sono più leggibili, più decodificabili.

Franca:

Io e mio marito siamo sempre stati tolleranti eppure mio figlio minore nei confronti del padre è aggressivo e penso che questo dipenda dal bisogno di affermazione.

Carlo:

I figli ( primogenito e secondo figlio ) sono diversi anche perché noi genitori nel tempo siamo cambiati.

Anna C.:

C’è anche differenza tra figli maschi e figlie femmine oltre che tra il primogenito e gli altri.

Felice:

Sul piano sociologico è assodato che la società contemporanea è una "società senza padri". Su quello psicologico è il codice affettivo paterno che appare debole. La mia esperienza educativa presso il Carcere Minorile Beccaria mi conferma che la devianza quasi sempre si produce in ragazzi figli di una famiglia in cui il padre è una figura assente.

Vorrei adesso fissare l’attenzione su un aspetto importante degli affetti: la corporalità. Le emozioni sono fisicità, i sentimenti e le passioni travolgono il corpo. Invece la società moderna si declina tutta sul virtuale. Questo penso che peggiori la dimensione affettiva, fisica e corporale, delle relazioni soprattutto delle nuove generazioni orientate a praticare la virtualità della "rete".

Franca:

I genitori tendono sempre più a proteggere i propri figli. Ciò non avviene in altre culture, ad esempio guardiamo i nostri alunni cinesi: attraversano la città da soli anche da piccolissimi.

Giovanna G.:

Noto che, paradossalmente, sull’orientamento scolastico ( snodo importantissimo ) i genitori tendono a lasciar scegliere i propri figli, salvo poi quando questi sbagliano scelta far ricadere su di loro le responsabilità. Invece su cose meno importanti risultano iperprotettivi. Penso che i genitori debbano assumersi la responsabilità delle decisioni e portare il peso che queste comportano, in particolare quando le scelte diventano importanti per il futuro dei propri figli.

 

Daniela:

I genitori non amano vivere le emozioni nel rapporto con i figli. La mamma ideale appare agli occhi dei ragazzi quella che lascia fare tutto. Quando si comincia a porre delle regole o dei divieti questo crea lo scontro. Nell’adulto allora subentra la paura di gestire la portata del conflitto e delle conseguenze emozionali che ciò comporta. La paura naturalmente spaventa anche i giovani. Il modello conseguente di questa situazione è di evitare le emozioni il più possibile.

Marisa:

A proposito di regole, forse per quieto vivere oppure piuttosto perché i problemi che si hanno di fronte sono enormi, qui a scuola mi è capitato di vivere un’esperienza simile a quella raccontata da Pirani nei suoi articoli. In una classe durante una supplenza ho osservato che il conflitto era stato evitato, non era stato affrontato un confronto necessario tra adulti e alunni per risolvere i problemi. Noi sappiamo che sono presenti a scuola molti alunni stranieri che sono portatori di problematiche e dinamiche famigliari molto particolari. Ad esempio nelle famiglie sudamericane si registra una presenza esorbitante del ruolo materno, una sorta di matriarcato, un fenomeno del tutto simile a quello che abbiamo vissuto un po’ di anni fa con l’immigrazione dal nostro sud in cui però compariva la figura non positiva del padre - padrone.

Franca:

Il genitore ideale è chi è coerente, è in grado di porre anche dei divieti e non lanciare messaggi educativi ambigui.

Anna C.:

Nei giovani l’anticipazione del desiderio, la soddisfazione immediata del bisogno è un comportamento molto grave perché l’attesa, il saper attendere è importante.

C’è poi da rilevare che nelle professioni esiste la cosiddetta "zona d’ombra", un angolo nascosto delle reali motivazioni che ci portano a svolgere quel mestiere. Esserne coscienti è molto importante.

Io nel mio rapporto con mio figlio ho cercato di stabilire un contratto e questo mi è servito nel condurre il suo percorso educativo.

Anna D.C.:

Nella mia esperienza in scuole dell’interland milanese ho scoperto che i giovani chiedono sempre più di praticare esperienze condivise all’interno del gruppo classe. Esperienze da cui può derivare il riconoscimento delle emozioni, dei propri ed altrui sentimenti. Ho notato anche che una omogeneità di gruppo ( provenienza sociale, storia, … ) lascia più spazio al rapporto emotivo e al confronto. Mentre nei gruppi disomogenei, con presenza di molti alunni stranieri, il contatto emotivo e il rapporto è più debole. Penso che la differenza di cultura limiti i rapporti e il senso del confronto affettivo delle proprie storie e memoria.

Felice:

A questo proposito occorre creare un comune denominatore affettivo tra le diverse culture, una sorta di memoria storica condivisa degli affetti.

Carlo:

I cinesi ad esempio hanno una cultura emozionale molto diversa dalla nostra, al contrario dei ragazzi sudamericani con i quali già adesso è possibile una condivisione emotiva più profonda.

Felice:

Tra di noi si parla molto di curricoli didattici e poco di "curricoli affettivi", sarebbe bene approfondire ciò che le varie culture oggi presenti a scuola declinano sul piano affettivo.

Mi interessa anche sottolineare il concetto di tolleranza alla frustrazione espresso da Anna C.: la tolleranza alla frustrazione è la condizio sine qua non perché ci sia apprendimento. Gli studi di psicologia ci dicono che fin da piccoli è solo la tolleranza all’assenza della madre, al vuoto prodotto dalla sua non presenza e quindi a ciò che non conosco, che consente la capacità di apprendere. Una società che consente tutto e subito farà fatica a gestire efficacemente i livelli di conoscenza e di apprendimento delle nuove generazioni.

Vorrei fare ora una provocazione: è meglio essere freddi e controllati nel rapporto educativo? Oppure al contrario, per essere dei buoni educatori, bisogna accrescere il proprio investimento affettivo?

Daniela:

C’è una diversa dimensione temporale nella costruzione del rapporto tra l’essere genitore e l’essere insegnante: si è genitori per sempre, insegnanti solo a tempo determinato.. Quindi sul piano degli affetti è cosa diversa coinvolgersi per la vita come per un figlio, piuttosto che per qualche anno, come con un alunno.. L’attesa da questo punto di vista è soprattutto un problema per il genitore.

Carlo:

La frustrazione vissuta da insegnante è molto diversa da quella vissuta da genitore, quest’ultima è molto più profonda.

Giovanna O.:

Il tempo funziona come un meccanismo di difesa dallo stress provocato dalla relazione educativa. E’ cosa diversa educare un alunno rispetto ai propri figli perché con loro la partita non è mai chiusa.

Franca:

Da questo punto di vista essere allo stesso tempo genitori ed insegnanti è un problema per i figli che possono nutrire perfino sentimenti di gelosia nei confronti dei nostri alunni.

Felice:

Vedo che non è possibile separare il mondo della professione dal mondo della vita.

Carlo:

La relazione e i ruoli tra le persone cambiano perché sono le persone nel tempo a cambiare. A scuola non è così perché il ruolo dell’insegnante è sempre lo stesso, è rigido. E paradossalmente siamo noi insegnanti a chiedere agli altri partners della relazione, i ragazzi, "perché non cambiate?", mentre invece dovremmo essere noi a dover cambiare.

Anna C.:

Secondo me i figli insegnano molto di più di tante altre persone che ci capita di incontrare nella vita. Penso che non debba essere proposto un modello rigido di insegnamento e che per produrre cambiamento bisogna affrontare il problema della distanza con l’altro.

Felice:

A proposito di corsi di aggiornamento il Centro Psicopedagogico di Piacenza propone percorsi di formazione di varia natura ( educazione ai conflitti, educazione ai rituali educativi, … ) e ci sono anche disponibili varie esperienze e metodologie, alcune molto affinate, di educazione socio – affettiva. Io però ritengo che rimanga aperto, attorno al tema degli affetti, la questione delle "zone d’ombra", la cosiddetta "latenza" del fare educativo. Resta cioè non risolto il problema di come dare efficacemente voce agli aspetti "nascosti" anche perché, se ci pensiamo bene, contano molto di più nel nostro sistema di relazioni ed emozioni ciò che ci diciamo nei corridoi e nei luoghi informali di quello che ci giochiamo nelle sedi istituzionali e formali.

Carlo:

Ho l’impressione che pur instaurando con i propri alunni dei buoni rapporti, di fatto essi non ci parlino mai veramente perché noi siamo sempre "l’adulto" e ciò che hanno da dire di importante, le "vere cose" le dicano solo ai compagni. Questo conferma che pur in presenza di un insegnante disponibile, il punto di riferimento resta sempre e comunque il gruppo. Il vero confidente è l’amico o l’amica.

Anna C.:

A mio parere il ruolo dell’adulto nell’adolescenza e nella preadolescenza non può essere quello del confidente ma quello di essere presente. Ad esempio, il problema che abbiamo noi in Consultorio, quando lavoriamo con i ragazzi, è quello di aspettare i loro tempi. Non sappiamo mai se e quando vengono e se vengono non sempre aspettano. Come educatore, ma anche come genitore – educatore, il compito più difficile è quello dell’attesa di ciò che si è seminato. L’importante è saper cogliere l’opportunità quando l’adolescente la crea. Il messaggio è: io ci sono, sono sempre disponibile.

Daniela:

Penso che gli adolescenti non ti parlino mai veramente perché anche per loro è difficile avere coscienza di ciò di cui devono parlare. Premesso che a mio parere è naturale che si confidino tra loro perché non è facile aprirsi con un adulto, credo che il vero problema sia l’incapacità di "decodificare" le emozioni, di tradurle in parola. Spesso ciò che prova l’adolescente per lui non ha un nome e diventa quindi difficile che sappia esprimere le sue emozioni. Capire quale percorso si sta vivendo dentro non è facile per nessuno e tanto più per un preadolescente che in questa sua ricerca e conoscenza di sé non è certo aiutato dalla società di oggi, dove ciò che conta è l’apparenza ed il possesso di cose sempre nuove e diverse.

Felice:

Sicuramente esiste un problema di nominazione, di autoconsapevolezza delle proprie emozioni e questo può capitare anche ad un adulto quando in particolare è posseduto dalle passioni, dall’ira, dall’odio o dall’amore. Ho comunque notato, ad esempio per esperienza personale nella mia famiglia, l’importanza di provare insieme delle emozioni. E’ la comunanza delle esperienze emotive, la condivisione e il loro racconto che diventa fondamentale nella relazione. I problemi nascono quando questa condivisione manca. Un bambino o un ragazzo che si gioca le sue emozioni in solitudine, che non può comunicare ( anche dissentendo ) con empatia e comunanza con un adulto avrà sicuramente dei problemi perché è una persona che non riuscirà ad elaborare le emozioni, i sentimenti. Guardando l’orizzonte da insegnante vedo un rovesciamento della problematica: i ragazzi in genere sono lasciati da soli e questo è il vero dramma. Anche il "gruppo" nel quale ognuno di loro è inserito, sebbene sia il mezzo per trovare un’identità e per diventare adulto, spesso diventa un muro che non consente di guardarti dentro perché comunque ti confondi col gruppo e l’emozione diventa quella "gruppale" e non quella individuale che intimamente ti appartiene. Penso quindi che il problema non sia solo quello di saper dare voce e parola alle emozioni ma anche di saper fornire un "setting", una possibilità al fatto che i sentimenti possano essere vissuti, confrontati, discussi. Se ci pensiamo bene questo, come educatori, spesso non lo facciamo come scelta consapevole.

Recentemente ho avuto la possibilità di entrare in molte classi per una mostra e un video di Emergency sulle mine antiuomo. Ciò mi ha offerto un punto di osservazione privilegiato perché ho potuto constatare come, nonostante le apparenze, molti ragazzi provassero emozioni e sentimenti profondi. Occorre secondo me tenere presente l’importanza del vissuto emozionale condiviso di ragazzi e adulti perché è attraverso questo che si può gettare un po’ di luce in quella "zona d’ombra" che sono gli affetti.

Milano, 7 febbraio 2001

Resoconto a cura di Felice Soldano e Daniela Rossi