Per quale motivo la pena di morte
non è cancellata dal nuovo Catechismo?



«L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude
[...] il ricorso alla pena di morte»
 
così recita l'articolo
2267
del nuovo Catechismo che mantiene la stessa posizione del precedente.
Per quale motivo la Chiesa non ha eliminato questa norma che appare in contrasto con il suo insegnamento di amore?

~ Risponde Vittorio Messori, scrittore cattolico ~
(OGGI, 24 gennaio 2001)

Nella prospettiva cattolica riguardo alla pena di morte bisogna distinguere tra legittimità e opportunità.
Per la Chiesa, l'esecuzione del reo da parte dell'autorità costituita (salvaguardate le norme del diritto) è legittima.
Lo confermano sia la Scrittura sia la Tradizione. In effetti, se guardiamo alla Bibbia, nell'Antico Testamento la pena di morte non è soltanto permessa, ma è addirittura imposta per una lunga serie di colpe. Nel Nuovo Testamento, la pena capitale non è condannata da Gesù (che pure la subisce, ma ingiustamente) ed è approvata da san Paolo.
Per questo motivo non soltanto la Chiesa cattolica ma tutte le altre comunità cristiane (ortodosse, protestanti ) sino a tempi recenti non hanno avuto difficoltà ad accettare la tragica possibilità del boia. Ma, per stare al cattolicesimo, anche la Tradizione è unanime nel riconoscere la legittimità del supplizio, almeno in casi estremi.
Altro discorso è quello della opportunità: oggi, la sensibilità moderna sembra sempre più orientata all'abolizione, anche se è probabile che, se si andasse a un referendum, prevarrebbero i fautori del patibolo, se non altro per certe categorie di delinquenti. Dunque, anche il nuovo Catechismo raccomanda vivamente di astenersi dall'esecuzione ma, anche se lo volesse, non potrebbe negarne la legittimità, senza contraddire la Scrittura e la Tradizione.
Che sono le basi stesse della fede. Insomma, è un «no», quello cattolico, che nasce da questioni di opportunità.
Ovvia l'obiezione: come può l'uomo togliere la vita, se di questa è padrone Dio stesso? Innanzitutto, nella prospettiva di fede, ciò che davvero conta è la vita eterna. E siccome (lo osserva san Tommaso ) il patibolo è la maggiore espiazione per le colpe commesse nella vita terrena, il condannato che accetti la punizione è un candidato sicuro a quel Paradiso che rappresenta per l'uomo la sola, vera meta. Si ricordi, tra l'altro, la promessa di Gesù al ladrone crocifisso con lui. Va poi ricordato che (stando sempre alla prospettiva cattolica, basata anche qui sul Nuovo Testamento) le autorità legittime esercitano sulla terra il loro servizio a nome di Dio stesso. Quelle autorità, dunque, se davvero sono mosse da una simile consapevolezza religiosa, possono (anzi, devono) proteggere i popoli a loro affidati recidendo le membra sociali indegne.
Spesso si cita, a sproposito, il «Non uccidere!» nel Decalogo, nei Comandamenti divini.
Ma quel divieto vale per il singolo, per l'assassino, non per la comunità sociale, per il giusto giudice che applichi leggi legittime. Certo, bisogna essere realisti: prospettive come quella dell'assoluta preminenza della vita eterna e delle autorità come «vicari di Dio», sono oggi incomprensibili per la maggior parte della gente. Da qui la richiesta (che, per quel poco che conta, mi trova consenziente) dell'abolizione del boia laddove ancora esista. Ma consapevoli che inopportunità non significa illegittimità. Come conferma, lo dicevamo, anche quel nuovo Catechismo che è così attento alla sensibilità attuale.


Durante l'Inquisizione, le persone ritenute degne di dannazione, destinate al fuoco dell'inferno, venivano «purificate» con la spada, la tortura e soprattutto il fuoco, affinché con la morte del corpo nell'aldiqua potesse, forse, ancora salvarsi l'anima nell'aldilà. 
Non erano forse parole d'amore cristiano quelle che l'inquisitore Eymerich rivolgeva ai «bisognosi di purificazione»:
«Fratello eretico, sorella strega, poiché vi amo, brucio il vostro corpo onde evitare che bruci in eterno la vostra anima»?
Tutto è relativo, anche la morte. Tutto è giustificabile, anche la crudeltà. Ieri come oggi.
(Francesco Carpi)



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