PATRIARCATO DI VENEZIA

PASTORALE SPOSI E FAMIGLIA

 

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TAVOLA ROTONDA

 

Teresa Mutalipassi -

Io ho parlato a sufficienza, mi limito ad aprire la serie di  contributi che ci porteranno le diverse persone presenti, con la possibilità di  avere degli ulteriori approfondimenti da diversi punti di osservazione e da  esperienze anche concrete diverse su questo territorio e anche in altre aree.  Quindi a Voi. 

Gioia Greifenberg - pedagogista, educatrice Casa Famiglia S. Pio X

Lavoro in casa Famiglia, sono una operatrice, quindi parlerò dal punto di vista  pratico. 

Quello che mi ha colpito nell’ultimo intervento della dott.ssa Mutalipassi e di  alcuni altri interventi è proprio la concretezza operativa al di la di capire i cambiamenti  sociali, i mutamenti della famiglia e quant’altro visto che il nostro  lavoro ha a che fare con persone in carne e ossa. Le altre colleghe dei Servizi  vedono queste persone quando vanno a chiedere aiuto, noi le vediamo in  comunità e le seguiamo in un percorso di comunità. 

Quello che vorrei rilanciare a questo tavolo per discuterne insieme è la difficoltà,  a volte, proprio di lavorare insieme con i Servizi; difficoltà che vanifica  anche gli interventi possibili, positivi o negativi che siano, anche se dal nostro  punto di vista non è tanto il “come” si lavora in comunità che rende efficace o  meno l’intervento quanto la gravità delle situazioni con le quali ci troviamo a  “lottare”. 

Come, ad esempio casi di persone che entrano in comunità che sono gravissimi  e al limite dello psichiatrico, per cui la difficoltà del lavoro si accentua a tal  punto da dover continuare anche al di fuori della comunità. 

Un primo dato che vorrei porre in evidenza è proprio la difficoltà, quando ci  arriva un caso, di avviare un progetto che sia unitario, d’intesa cioè con i  Servizi perché mancano, magari, quei coordinamenti e quelle informazioni  che non sono dovute al fatto che le persone non siano diligenti nel loro lavoro  ma sintomo altresì di una difficoltà di lavorare insieme, perché non ci si conosce,  per mancanza di fondi o di risorse umane. 

Questo si evidenzia soprattutto nel progetto e nel lavoro unitario dopo le  dimissioni di una persona da una comunità; le energie, cioè, vengono disperse  perché c’è questa difficoltà di lavorare insieme. 

Perché, come si diceva prima, il carico della persona che entra in comunità è  tutto sulle spalle degli operatori e dei responsabili di comunità che si trovano  a condividere giorno dopo giorno le sofferenze, la vita quotidiana delle persone,  la difficoltà di realizzare anche i microprogetti, come, ad esempio la ricerca  di un lavoro, mentre il Servizio è una entità esterna che entra poco in questo processo. Ecco perché dico che delle volte il lavoro è un po’ difficoltoso,  un po’ frustante, e ha delle ricadute importanti sulle persone a cui noi ci rivolgiamo. 

Sarebbe bello pensare qui, insieme, come poter creare una equipe multidisciplinare  che lavori attivamente, che si incontri ed a cui far partecipare i Servizi, gli  esperti, gli psicologi, i pedagogisti dei comuni e gli operatori di comunità, in  modo da poter mettere a frutto le esperienze di tutti e poter lavorare insieme.  Questo credo sia proprio il pensiero comune di tutti… 

Mi interessava inoltre parlare del problema delle dimissioni e dell’uscita, perché  tanto si parla del progetto all’interno delle comunità, tanto si parla di progetto  individuale, di quello che si deve fare o non si deve fare all’entrata nella  comunità e poco si parla di quello che succede fuori. 

Ciò che avviene all’esterno deve, secondo noi di Casa Famiglia, e anche di  altre comunità, come abbiamo visto anche alla Mater Vitae, far parte integrante  del progetto globale di una persona, cioè del patto in cui l’offerta è il percorso  sia all’interno della comunità che all’uscita dalla comunità. A volte,  invece, si pensa solo al percorso all’interno della comunità dimenticando troppo  spesso che la persona accolta debba ad un certo punto anche uscire. 

Il progetto non può essere interrotto quando una persona ha casa e lavoro, ma  deve continuare e deve far parte integrante del lavoro che si fa. Questo può  costare anni e anni di carico delle persone ai Servizi, perché non si può pensare  che le persone ospitate in comunità possano essere in grado di star fuori da  sole, senza un supporto psicologico e anche affettivo con il rischio della compromissione  prima del rapporto con il proprio figlio e poi delle rimanenti relazioni.

Non potendole lasciare andare da sole ci troviamo di fronte a persone che stanno  a metà strada, hanno bisogno di essere aiutate, di essere seguite, di continuare  un percorso all’esterno della comunità dopo aver concluso quello all’interno. 

Questo, secondo me, deve essere operativo e tecnico ma anche deve diventare  parte della nostra mentalità. 

Mi pare che, a parte le difficoltà tecniche e anche economiche per realizzare  questi progetti, ci sia a priori il fatto che non è pensata nella nostra testa la  necessità che una persona venga seguita dopo.

Questo deve entrare nel nostro modo di pensare: l’utenza è cambiata, l’utenza  è difficile, è un’utenza “né carne né pesce” che va aiutata anche fuori.   questo è ovvio che costa fatica, risorse economiche e umane; costa pensare  anche al “dopo” e non solo al “mentre” al continuo educativo, non solo di legame,  tra il vivere dentro la comunità, che è un passaggio breve - ma deve essere  per forza breve, non può essere un passaggio lunghissimo – e il vivere fuori della comunità che prevede anni e anni di lavoro. 

Per cui rilancerei questa proposta anche alle altre partecipanti per conoscere il  loro pensiero. 

 

Lucia Trivellato - Assistente sociale del Comune di Venezia 

Le suggestioni della giornata sono state tante e, ripensando un po’ anche al  lavoro che ho svolto nel sostenere alcuni processi di crescita dei bambini, anche  con le loro famiglie, in particolare anche a donne inserite in comunità con i loro  bambini, devo dire che la parola che mi ha colpito di più oggi - e già nel titolo  del convegno - è stata quella della ricomposizione, proprio a partire dal fatto  che queste storie di vita famigliare sono tanto frammentate, sono proprio storie,  come già è stato detto, dolorose, che hanno generato grandi fragilità. 

Quindi, in mezzo ai tanti tipi di supporto che anche il nostro servizio offre a  sostegno della genitorialità, che incontra crisi anche nella normalità, perché i  ragazzini adolescenti mettono a dura prova le famiglie, facendo quindi richiedere  ai genitori una consulenza o per la separazione degli stessi e la conseguente  crisi della famiglia, ci sono appunto molte forme di sostegno che possono  essere messe a fianco di queste famiglie pur rimanendo nel loro territorio,  da un lavoro di rete, a una educativa domiciliare, a gruppi di genitori, a  spazi ludico ricreativi. 

Però per alcune situazioni, quello che si evidenzia è che non basta, è che ci  vuole qualcosa che dia la possibilità di un accompagnamento veramente quotidiano  e consistente, di un tempo e di uno spazio che permettano appunto di  ricomporre questa frammentarietà, di fare da modello e soprattutto di far sperimentare  alle donne una accoglienza, prima di tutto di loro stesse, perché poi  possano accogliere i bisogni dei loro bambini. 

In tutto questo il servizio ha un compito particolare che è anche proprio quello di  tenere il filo, il filo della memoria e della storia che così trova anche parole, perché  queste donne spesso non riescono nemmeno a narrare la loro storia, non  ricordano che cosa è successo quando erano bambine o perché fa troppo male o  perché effettivamente è stato così devastante che non trova parole per esprimersi. 

Perciò si fa una valutazione di questa situazione, dei bisogni dei bambini, del  loro stato di benessere, se sono o meno in linea con delle tappe evolutive e  della possibilità di queste famiglie di poter cambiare, di poter accettare e desiderare  anche uno spazio e un tempo - come è stato definito oggi - un po’ di  sosta ma anche di laboratorio, di palestra per provare in una situazione contenuta  e protetta quello che poi ti può servire nella vita, nella comunità sociale. 

É fondamentale condividere con le donne in primis, e anche con i papà possibilmente,  questa possibilità. 

Loro usano a volte dei termini anche semplici tipo “ho bisogno di un posto dove stare tranquilla”, “ho bisogno di imparare a fare la mamma ma non  voglio esser come mia mamma, voglio essere diversa” e trovano nella comunità  un luogo di questo tipo. 

L’esperienza di lavoro fatta con Casa Famiglia per me è stata molto positiva;  devo dire che ho sentito questa continuità nel lavoro di un progetto condiviso  perché, al di la di una valutazione iniziale poi c’è quella in itinere che si fa insieme  al personale della comunità che è, appunto, a contatto quotidiano, che rileva  le criticità ma anche i passi avanti. A volte sono piccoli, sono semplicemente il  poter riordinare una stanza, o poter separare un lettino dal letto della mamma.  Sono piccolissime tappe ma per alcune di queste donne sono passi da gigante.  Tenere un lavoro due ore al giorno per sette mesi è una enormità, anche se  nella vita quotidiana poi non sembra così.

Quindi impostare il progetto di lavoro con la continuità dei momenti in cui ci  si incontra, si fa il punto, si esaminano le criticità, con un ruolo del servizio  che è anche quello di tenuta, di alcune regole, fa un po’ da terzo in una relazione  che è tra una comunità e l’utente, molto quotidiana, molto stretta. 

Ci si sente, come Servizi, un po’ come quelli che continuano a tenere un po’   un filo della narrazione, della storia. 

La parte, se vogliamo, che effettivamente è un po’ più critica è quella del rapporto  con la comunità sociale ma anche con la rete più stretta della famiglia  che, però, non è dentro in comunità, a cominciare dal partner che un po’ spesso  si defila da sé, un po’ e difficile coinvolgerlo in un progetto così consistente,  e che quindi non fa altrettanti passi quanti ne fanno le donne con i loro bambini. 

E poi, tenere rispetto all’uscita, pensare a un progetto che sia di accompagnamento,  perché in effetti rimettersi in un tessuto sociale, tenere il lavoro, la  casa, dei bambini è difficile per chiunque ma tanto più per queste donne che  sono, molto fragili e perciò tendono, all’uscita, anche un po’ a regredire. 

Quello che finora è stata l’esperienza sempre di un pensiero molto presente sul  dopo e su come la comunità sia invece una fase, un passaggio, un momento in  cui si costruisce pensando però che questo passaggio non può essere tutta la  vita. Nel dopo, quindi, si pensano altre forme di supporto, a volte anche che  possano considerare delle temporanee separazioni dalle mamme e dai papà,  ma per ricomporsi poi. 

 

Anna Del Bel Belluz - Direttore Consultorio Famigliare S. M. Materdomini  

Mi permettete di allontanarmi da Casa Famiglia per entrare, forse un po’ presuntuosamente,  nelle case di tutti. Questo deriva dalla riflessione che ho fatto,  conseguente anche all’accettare la richiesta di essere qui oggi fattami dagli  amici di Casa Famiglia. 

La riflessione sul nostro operato! 

Io rappresento una equipe che lavora in tre consultori famigliari: due presenti  nel comune di Venezia e uno a Eraclea. Consultori famigliari privati, quindi,  che lavorano anche al di là, o al di qua, di mandati istituzionali e quindi anche  di connessioni con il mondo giuridico; consultori famigliari che accolgono -  passatemi il termine - la normalità, accolgono le persone che sicuramente sempre  di più oggi vivono situazioni complesse e gravi, articolate, che devono  essere anche affrontate attraverso una serie articolata di interventi, sempre più  a livello specialistico, fino ad arrivare poi, per i casi estremi, anche all’inserimento  in comunità. 

Sto pensando alla maggior parte delle persone che noi vediamo: la commessa  del negozio sotto casa, l’adolescente amico dei nostri figli, la coppia di  amici… Che cosa accomuna le situazioni - chiamiamole della normalità - che  si presentano nella casa di tutti e quelle che invece vengono accolte in Casa  Famiglia o in una casa di accoglienza, in altre strutture simili? 

Una realtà di fatica, di sofferenza, di fragilità. 

Oggi sempre di più questi elementi rappresentano la quotidianità per tutti e  quindi noi come Consultorio registriamo quotidianamente - è stato detto, ripeto  in modo sintetico - una sempre più marcata fragilità nelle relazioni coniugali  di coppia - per riprendere un po’ anche quello che diceva il prof. Andreoli  - dove spesso la biografia individuale si contrappone fortemente alla biografia  della coppia e della famiglia. 

Cogliamo una crescente incapacità e un crescente senso di inadeguatezza da  parte dei genitori nella relazione con i figli e conseguentemente questo si traduce  nell’incapacità o nell’insufficienza nel lavoro di cura e di accudimento. 

Cogliamo un disorientamento soprattutto nei più giovani di fronte alla necessità  di operare delle scelte di vita importanti, quelle che hanno implicazioni per  il futuro. 

In questo caso si lamenta una carenza di riferimenti famigliari significativi,  anche sul piano etico e culturale. 

Cogliamo la non appartenenza, la sofferenza, che deriva da un sentirsi non  appartenenti che è diversa, che è molto di più della solitudine e dell’isolamento,  e questa viene vissuta sia nei giovani sia negli adulti. 

Queste situazioni di fragilità e di sofferenza, a nostro parere, hanno un denominatore  comune: la fragilità dal punto di vista relazionale, la poca tenuta,  l’incerta attribuzione di significato alle relazioni, la fatica nel prendersi cura  delle relazioni. Quindi se vogliamo assumere una parola chiave, questa è relazione  ed è su questo che credo sia utile soffermarsi, perché questo è quello che  forma l’individuo: la relazione, la rete di relazioni. 

L’individuo si costruisce attraverso la rete di relazioni di cui fa parte e che egli stesso, con la sua presenza e le sue caratteristiche contribuisce a costruire. 

Questo vuol dire costruire l’appartenenza, vuol dire costruire una identità relazionale  in cui le diverse parti del sistema possano riconoscersi e possano, attraverso  questo riconoscimento, individuare degli obiettivi comuni e condivisi.

Però, perché possa esserci questo, perché quindi il legame e la relazione possano  essere vissuti e perché possano essere moltiplicati fino al punto da  costruire una rete, bisogna che si faccia un atto gratuito di apertura. 

Un invito a - anche qui passatemi il termine – “reciprocare”.  Molto spesso noi lavoriamo in situazioni in cui non c’è una fiducia tale, una  speranza tale che permetta di fare questo atto. 

Quindi alle persone che noi incontriamo quotidianamente manca la fiducia e  la speranza che potrebbe portare queste persone ad aprirsi a relazioni che loro  temono in qualche modo mortifere ma che invece possono essere per il loro  bene.  I

o penso che la grande sfida di oggi sia proprio questa: aiutare le persone ad  avere fiducia e ad avere speranza nella relazione, essere aperte alla relazione.  Non sto qui a ricordare quanto è già stato detto rispetto alla difficoltà e all’opportunità  nel tempo stesso, della società di oggi. Il mancato - per esempioriferimento  a modelli tradizionali porta la coppia come l’individuo, come la  famiglia alla possibilità di scegliere, anche dal punto di vista relazionale, con  chi entrare in relazione, con che modalità, che patto, che regole…questa è una  grande opportunità ma è anche un grande rischio perché, comunque, comporta  una grande fragilità e una grande sofferenza se non si riesce a operare una  netta riflessione; quindi se non si riesce ad avere quel tempo e quello spazio,  quel luogo di pensiero che permetta di “connettere i pezzi”. 

Noi che cosa facciamo? Noi cerchiamo con il nostro operato di offrire questo  tempo e questo spazio per “connettere i pezzi”, per “connettere i nodi”, per  creare una rete, per ridare fiducia alle persone che si rivolgono a noi, perché  possano, fuori dei nostri locali, fuori dai nostri studi, proporsi, fare questo atto  di apertura nei confronti delle relazioni. 

Questo a livello di rapporto individuale con le persone ma questo soprattutto -  e questa è un po’ la nostra esperienza che forse è importante ricordare - attraverso  anche l’attività che noi chiamiamo di formazione che è l’attività sul territorio. 

i è detto: ma fuori che cosa c’è? Anche Andreoli ha detto: ma poi fuori? 

Noi pensiamo che sia molto importante andare a sostenere questa logica della  relazione, questa cultura della relazione anche al di fuori dei nostri studi, al di  fuori di Casa Famiglia, perché le persone che hanno bisogno di aver fiducia  delle relazioni non sono soltanto quelle che entrano nei nostri studi o che  entrano in Casa Famiglia ma sono tutte, siamo tutti noi. Il nostro piccolo contributo, quindi, lo vogliamo dare andando a incontrare gruppi e varie altre realtà  attraverso un’azione, anche capillare, di presenza nel territorio. 

Noi vediamo che l’esperienza del gruppo, per esempio come si sta realizzando  anche al nostro interno, che comunque pur parte da una situazione difficile  come può essere la genitorialità dopo la separazione, è un’esperienza importante  per queste persone perché si vede, si coglie - perché lo dicono - che  l’esperienza di fiducia nella relazione che possono sperimentare nel gruppo è  importante. Poi loro diventano in grado di riproporla fuori e questo crea attenzione,  crea disponibilità, crea un atteggiamento di apertura che permette di  ricomporsi dopo la frammentazione dal punto di vista individuale ma anche  permette di essere attenti a quel qualcuno che sta vicino a noi, a quel vicino di  casa, come diceva Andreoli, che può essere il mostro. 

Quindi proporre, portare avanti, promuovere la cultura della cura delle relazioni,  del non aver paura delle relazioni passa attraverso il fatto che tutti noi operatori  dobbiamo ricordarci che abbiamo come primo nostro impegno quello di  curare le nostre relazioni, perché non possiamo, secondo me, essere anche  testimoni efficaci se per primi noi non ci impegniamo nel nostro compito di  costruire e di mantenere una rete efficace. 

 

Patrizia Marcuzzo - Assistente Sociale Centro Antiviolenza di Venezia 

Sposto ora l’attenzione su quello che è lo specifico del luogo in cui lavoro, il  Centro Antiviolenza del Comune di Venezia e sul tema che mi è stato chiesto  di portare in questa sede che, in particolare, focalizzerà l’attenzione sulle   donne straniere. 

Parto un pochino da lontano e cercherò di essere breve, per questa prima parte. 

La nostra specificità è riconducibile anche all’etichetta che si era dato il Centro  all’epoca della sua nascita; esso, infatti, si intitolava allora Centro Antiviolenza  del Centro Donne del Comune di Venezia. 

E parto dal fatto che questo Centro del Comune di Venezia, sebbene ci siano  circa un centinaio di centri antiviolenza in Italia, è l’unico, a livello istituzionale,  dell’Ente locale. Gli altri hanno a che fare piuttosto con il privato sociale. 

Nacque nel ‘94 all’interno del Centro Donna già esistente da dieci anni e il  fatto che qui sia nato specifica la sua collocazione dentro ad un contesto di  genere. Perché dopo dieci anni di apertura del Centro Donna, sempre più  importanti erano le situazioni che venivano rilevate all’interno dei gruppi che  facevano perno al Centro Donna. 

Erano situazioni difficili in cui c’erano dei contesti di maltrattamento e violenza  ed erano gli anni in cui si cominciava a spostare l’attenzione che identificava  il “cattivo” non più all’esterno, lontano dal nucleo famigliare ma inserito  nella condizione domestica e famigliare.

Fu chiamato Centro Antiviolenza, quindi un luogo di genere rivolto alle donne  che subiscono situazioni di maltrattamento e violenza. 

Se intorno al ‘94 ci fu un’affluenza importante, massima, di donne al Centro,  che si aggirava intorno alle 400 unità all’anno (donne che si rivolgevano al  Centro per la prima volta) - e queste erano tutte donne italiane - intorno al ‘99  - 2000, epoca in cui il Centro cambiò etichetta, nel senso che venne istituito  l’Assessorato “cittadinanza delle donne e cultura delle differenze” (e io dico  anche “differenza delle culture”), hanno incominciato ad arrivare anche donne  non italiane. 

Le donne che arrivano al Centro portano con sé situazioni grandi o piccole di  maltrattamento e di violenza. 

Ho provato a guardare i dati dell’anno scorso relativamente all’affluenza delle  donne straniere e delle donne che quest’anno hanno avuto accesso al Centro e  la proporzione rispetto alle donne italiane è una proporzione che sta cambiando  velocemente. 

Lo facevo presente anche alla rete dei Servizi della Città, antiabuso e antiviolenza  di cui dopo parlerò brevemente, perché se l’anno scorso vedevamo  un’affluenza di una donna straniera su cinque in totale che arrivano al Centro,  con quest’anno le donne straniere che arrivano al Centro sono una su tre di  totale. 

Questo fa una grande differenza per come sono organizzati i Servizi, nel senso  che se già è difficile la relazione per queste donne, il fidarsi di qualcuno dopo  che hanno vissuto una situazione di disagio grave, lo è ancora di più per quelle  donne che sono proprio prive di relazione e di connessione col territorio e  di rete, come si accennava anche negli interventi precedenti. 

Perché, anche per noi sono sorte difficoltà a lavorare con loro in quanto parlare  di donne straniere vuol dire parlare del mondo e non di categorie come,  ad esempio, “‘le donne dell’est”, “le donne nordafricane”, ecc. 

Già è difficile approcciarsi a un tipo di cultura, teoricamente al tipo di cultura  di quei luoghi, e dopo conoscere donne che sono uniche come persona ma  anche per il fatto di avere un unico punto di riferimento a disposizione: cioè  se stesse. 

Altro fattore di difficoltà è che se per le donne italiane, comunque, esiste una  sorta di rete di conoscenza del territorio, per le donne straniere, emanciparsi  dalla condizione di violenza vuol dire abbandonare totalmente quel poco di  rete e di relazioni famigliari, nucleo di riferimento già di per sé piccolo. 

Proprio da quel nucleo famigliare di comunità molto coesa che la donna deve  staccarsi se vuole cominciare un percorso diverso da quello che fino a quel  momento è stata una situazione di maltrattamento e di violenza. 

Se in questo momento, per fortuna, il numero di donne che hanno accesso al Servizio è nel tempo calato - dalle 400/450 unità siamo solo a 250/300 all’anno  - l’entità dei problemi però che queste donne portano con sé ha subìto  comunque, una differenza sostanziale, poiché, a volte, non sai come rispondere  all’emergenza. Se prima esistevano un minimo di rete, di conoscenza del  territorio, della lingua, dei luoghi in cui andare a cercare un’occupazione aiutando  in questo modo il nostro e loro lavoro, le donne che arrivano - le donne  straniere in particolare – oggi ci sono inviate direttamente dal pronto soccorso  e quindi non dopo una riflessione, una decisione, ma nell’emergenza, in cui  stanno molto male anche fisicamente. 

Siamo dunque costrette a lavorare spesso sull’emergenza sicuramente al  meglio delle nostre possibilità sentendo però la necessità di riorganizzarci al  nostro interno magari utilizzando quella ricchezza del territorio veneziano di  cui prima si faceva riferimento, in quanto a strutturazione di servizi e risorse,  anche se quelle economiche cominciamo a patirle anche qua come nel resto  del contesto più ampio nazionale. 

Il punto è riorganizzarci, ristrutturarci, dare un assetto diverso a quelle che  sono queste risorse in modo che possano rispondere anche a queste situazioni. 

La donna che arriva dal pronto soccorso è una donna che non ha più una casa,  non ha più un lavoro, non ha una rete di riferimento perché se ne deve distaccare,  come dicevo prima. Ecco allora l’importanza di parlarci tra Servizi. 

Il lavoro della rete dei Servizi antiabuso e antiviolenza della città, avviato a  fine ‘99 - 2000 e che vede presenti, non solo Casa Famiglia S. Pio X, ma molte  altre istituzioni del territorio, servizi sociali, forze di polizia e la ASL, è svolto  in un contesto importante, non perché ancora si vedano grossissimi movimenti  nell’operatività - anche se questi ci sono - ma perché, anche già parlare  linguaggi diversi nello stesso luogo significa “contaminarsi”, dando risultati  importanti in termini di desiderio di collaborazione effettiva, basata sulla fiducia  della relazione personale avviata attraverso questo contesto. 

Volevo solo dire un’ultima cosa rispetto a Piero Martinengo – responsabile di  Casa Famiglia - e alla provocazione di Gioia Greifenberg della necessità di  lavorare insieme. 

Gioia prima diceva che spesso si vive con una sensazione di solitudine o di non  incrocio o non connessione di progetti: ricordo che un po’ più di un anno fa c’era  stato l’inserimento all’interno di Casa Famiglia di una signora e, fatto l’inserimento,  ci andai per vedere come stava, per un’ora di aggiornamento ogni tot. 

Quando arrivai, avvisai Casa Famiglia dicendo: “Per cortesia potete avvisare  questa signora che verremo…”. 

Qui una operatrice della Casa mi disse: “Guarda che Piero avrebbe piacere di  essere informato per tempo del tuo arrivo perché vorremmo poter lavorare  insieme sui progetti”. 

Allora, al di là del solo problema di comunicazione che c’era stato, avevo fatto  una considerazione per me importante: era la prima volta che avevo accesso a  Casa Famiglia e Casa Famiglia in maniera così forte mi diceva: “Vogliamo  esserci in maniera precisa all’interno di questo progetto”.

  E questa fu un’ ottima prima impressione confermata poi anche nel proseguo  del lavoro.

 

Nicoletta De Lorenzi – Presidente Associazione Mater Vitae - Lecco 

UN CAMMINO INSIEME PER LA VITA 

Il rispetto della vita fin dal suo concepimento, il valore della dignità della persona,  la centralità della funzione educativa della famiglia, sono i principi e  valori che fondano l’azione sociale di professionisti e volontari che operano  presso l’Associazione “Mater Vitae”. 

Nel 1990, dall’esperienza vissuta per alcuni anni con madri nubili nel Centro  di Aiuto alla Vita di Besana Brianza, nasce l’associazione: da qui il desiderio  di dare vita ad una casa d’accoglienza concepita non solo come luogo fisico in  risposta ad un bisogno immediato, ma anche come luogo d’incontro. 

La casa d’accoglienza risponde agli standard per le comunità alloggio ed accoglie  madri in difficoltà fin dall’inizio della gravidanza e con figli fino ai sei anni. 

 

Dopo la brevissima presentazione della nostra opera, vorrei partire dalle provocazioni  di oggi, che sono state tantissime: questo stravolgerà in parte l’intervento  preparato ma, anche per questioni di tempo, preferisco seguire questa  modalità. 

La conclusione dell’intervento del professor Andreoli ci invita a sognare; io  rilancio un’altra provocazione: invito a guardare la realtà e a guardare i fatti  che accadono nella realtà. 

La nostra presenza qui oggi è dovuta ad una vostra apertura, perché voi l’anno  scorso, per tre volte, siete venuti dalle nostre parti perché colpiti da una proposta  che vi corrispondeva: per noi questa è una posizione da imparare, perché  è un’apertura. 

L’organizzazione di questo convegno, al di là della Giudecca, apre, come chiedeva  Andreoli, sul territorio, fa conoscere un’ipotesi di lavoro che non è normale. 

Una società cambia se cambiano degli “io”. Il lavoro fatto all’interno delle  nostre comunità per far sperimentare alle persone accolte ciò che dà speranza  a noi, non rimane confinato dentro le mura ma esce, contagia l’esterno. 

Vorrei fare una breve sottolineatura sul metodo di lavoro. 

Com’è stato ricordato anche questa mattina, l’uomo è mistero, non lo conosciamo,  ma sappiamo che è in relazione con qualcosa di più grande di lui, chiamatelo  come volete, ma è fondamentale in un rapporto, non solo educativo, riconoscere  questa evidenza: non ci facciamo da soli, quindi siamo fatti da qualcun  altro. Questo vale per tutti gli uomini, quindi sia per le persone accolte in comunità,  sia per chi ci lavora, sia per chi viene lì una volta alla settimana. 

Per noi cosa significa educare? Educare significa introdurre alla realtà totale,  alla realtà tenendo conto di tutti i suoi fattori. Ma la realtà non è mai veramente  affermata se non è affermata l’esistenza di un significato. Se uno non avesse  riscoperto per sè il significato della vita, che senso avrebbe mettere al  mondo un figlio, fare sacrifici per lui? Perché? 

Si parte da qui. In comunità ci sono educatori, assistente sociale, persone  accolte, volontari, persone dell’associazione, famiglie: ciascuno di questi soggetti  si coinvolge nel lavoro educativo, ognuno partendo dal significato che ha  trovato per sè. 

Il lavoro d’equipe consiste principalmente nel guardare i fatti, nel guardare la  realtà interpretandola il meno possibile, ricercando in ciò che accade nella  giornata, durante la settimana, quei fatti che ci permettono di conoscere sempre  di più la persona accolta in comunità. 

Il lavoro quindi è una specie di caccia al tesoro a cui tutti i soggetti implicati  partecipano e il progetto educativo è una domanda sulla realtà per conoscere  sempre di più cosa veramente desidera l’altro e come insieme si possa aiutare  ad arrivare al compimento di quel desiderio, più che ad una realizzazione di  ciò che io operatore penso che sia la cosa giusta per quella mamma. 

L’accoglienza non nasce per un transito, ma per permettere un’appartenenza. 

Durante un lavoro di formazione mi ha colpito l’affermazione di Miriam,  l’educatrice che è qui con noi, che ha detto:

“Quando ho cominciato questo lavoro pensavo che il fine fosse il raggiungimento  di un’autonomia della persona accolta. Quello che invece stiamo imparando  è che il lavoro deve essere finalizzato alla creazione di una sana dipendenza,  di legami sani, che poi permettano di costruire”. 

Questo modo di lavorare tende ad andare ad aiutare nel profondo, non a sistemare  un caso, e siamo consapevoli che questo lavoro chiede la vita intera, va  oltre le mura della comunità. Le famiglie d’appoggio si inseriscono a questo  punto della storia come risposta a questa domanda di aiuto, più che come sforzo  di costruzione di una rete. 

Rivedere in voi di Casa Famiglia, a distanza di chilometri, la stessa preoccupazione,  la stessa tensione, beh, per me è meglio del sogno, è una realtà che  convince della bontà del lavoro che si sta facendo e permette che rinasca la  speranza. 

 

Piero Martinengo - Sostituisco Libero Majer nella conclusione per accelerare  ulteriormente i tempi. Vi ringraziamo tantissimo della attenzione. Siete stati  bravissimi, meritereste un premio. Magari ci penseremo anche a come darvelo  in qualche modo… abbiamo i vostri indirizzi. 

Chissà che non ci vediamo una prossima volta per verificare che quello che  abbiamo tentato di elaborare oggi sia stato utile per tutti noi, soprattutto per le  persone che noi ospitiamo e quelle che aspettano con ansia, forse, delle risposte  ai loro problemi. Grazie tante a tutti.