P.F. d'Arcais

 

Dio esiste?

Paolo Flores d'Arcais

La filosofia come ateismo e il dialogo con il credente: solo la fede del 'credo quia absurdum' e della fedeltà al Vangelo apre all'azione comune con l'individuo del disincanto, "solitaire, solidarie".

La fede comincia proprio là dove il pensiero finisce. (Soren Kierkegaard)

Una Chiesa senza verità?

La Chiesa cattolica è ancora interessata al contenuto di verità della religione che pur proclama vera? La domanda non è né paradossale né provocatoria. Prende atto di una situazione e vuole pensarla rigorosamente. Senza predisporre accomodamenti che svilirebbero ogni confronto credente/non-credente a miserabile farsa.

Andiamo subito al dunque, perciò. La religione cattolica certamente proclama la verità - anche razionale - della propria fede. Al punto che, anzi, «fuori della Verità rivelata» si resta «in definitiva, fuori della verità pura e semplice (Fides et ratio, § 73). E tuttavia, nel valore oggi sempre riaffermato del confronto con i non-credenti, Chiesa e cultura cattolica eludono ormai sistematicamente le obiezioni scettiche o atee elaborate dalla modernità. Non provano neppure più a controargomentare, a «smontarle» per dimostrarne l'errore. A replicare, insomma, sul terreno della verità come «oggetto» di argomentazione razionale o critico-empirica.

Tale rimozione avrebbe senso solo in due circostanze: qualora il cattolico ritenesse che le obiezioni scettiche o atee (da Hume a Freud a Monod) contro le «prove» di Anselmo e Tommaso (e magari Tehillard de Chardin) hanno ricevuto definitiva risposta, di modo che, in effetti, sarebbe «auspicabile» (razionalmente doveroso, anzi!) «che teologi e filosofi si lascino guidare dall'unica autorità della verità (il magistero ecclesiastico) così che venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio (ivi, § 79). 0 qualora, all'opposto, la Chiesa rinunciasse radicalmente ad ogni volontà di dimostrazione mondana della verità della propria fede, e anzi si inorgoglisse nella fedeltà al suo fondatore: «Dio sì compiacque di salvare i credenti con la follia del suo messaggio» che «ha reso follia la sapienza mondana» (Prima ai Corinti, 1, 21-22). Secondo Paolo (cioè la fonte più antica del Nuovo Testamento), due «sapienze» opposte e inconciliabili, perciò: o la ragione o la fede, che per la ragione è follia. 0 la fede o la ragione, che per la fede è follia. Aut, aut. La verità della fede non si può dimostrare, bensì: credo quia absurdum.

Ma nessuna di queste due circostanze si dà. Già con qualche teologo del Il secolo, e definitivamente a partire da Agostino, la Chiesa non considera più la fede come follia rispetto alla ragione, bensì come superamento-compimento di essa. La verità della fede supera la ragione, ma in questa superiorità accoglie e completa ogni verità del retto ragionare. Di modo che: «il filosofo deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri principi; la verità, tuttavia, non può essere che una sola» (Fides et ratio, § 79).

Ma le obiezioni della tradizione scettica e atea contro le «prove» razionali delle verità di fede sono state così poco confutate che anzi costituiscono, spesso e per lo più, l'implicito orizzonte del confronto tra credenti e non-credenti, una sorta di disincanto interiorizzato, di tacita koiné della discussione argomentata. Karol Wojtyla ribadisce come «san Tommaso sia un autentico modello per quanti ricercano la verità» (ivi, § 78), ma nessun cattolico userebbe davvero le sue «vie» per convincere chi non crede. E se ricorre a Kant (cfr. Bruno Forte in questo stesso numero, p. 89), è solo al Kant della Ragion pratica, che non «dimostra» Dio (ne ha anzi dimostrato l'indimostrabilità nella Ragion pura) ma lo assume come postulato e supposizione per la possibilità del sommo bene (la fede come «libero tener per vero». Un. bisogno, insomma, perché il mondo della natura sia anche un regno di fini, abbia senso e scopo). E se ancora parla di un Logos come principio primo dell'universo, è solo in riferimento a una vaga ipotesi antropica (cfr. Joseph Ratzinger in questo stesso numero, p. 52).

Insomma: non si dà nessuna delle due circostanze che giustificherebbero da parte dei credenti l'abbandono della controversia sulle «prove» della verità della religione (almeno di quella « naturale »: Dio, anima immortale, universo creato e finalistico). Ciononostante, il mondo cattolico si confronta ormai esclusivamente con quella parte della cultura (soprattutto filosofica) che si prende bensì cura, spesso appassionata, della religione, ma è tuttavia radicalmente indifferente al valore di verità degli enunciati religiosi. Non lo contesta proprio perché lo rimuove. Cultura credente e non-credente si confrontano e scontrano, così, esclusivamente sul senso (quando non addirittura sulla funzione) della religione, sui simboli e sulla ermeneutica della fede. Come se il confronto o dialogo non divenisse terribilmente frivolo (almeno per il credente), una volta eluso il tema della verità dei contenuti della fede, e in primo luogo della verità (o illusione) della vita personale ultraterrena, della morte mondana come apparenza, semplice soglia di trapasso alla vera vita, la vita eterna.

E' solo a partire dal carattere cruciale di questa verità (o illusione) della vita eterna per l'intero orientamento della vita terrena, però, che si può, con Pascal, stigmatizzare come «stoltezza e accecamento» l'indifferenza in materia religiosa. «L'immortalità dell'anima è per noi cosa di tale importanza, che ci riguarda così nel profondo, che bisogna aver smarrito ogni consapevolezza per restare indifferenti a come la cosa stia. Ogni nostra azione e ogni nostro pensiero dovranno prendere strade talmente diverse a seconda che sia fondata o meno la speranza di beni eterni, che è impossibile qualsiasi procedere sensato e ragionevole che non sia comandato dalla considerazione di quel punto, che deve costituire il nostro scopo ultimo» (13. Pascal, Pensieri, Chevalier 355, Brunschvicg, 194). «E' infatti indubitabile che il tempo di questa vita è solo un istante, la condizione della morte è eterna, quale ne sia la natura» (ivi, 334, 195).

 

 

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