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ECONOMIA.
Il governo replica il provvedimento di detassazione per i premi di
produttività. Che però non serve allo scopo dichiarato (aumentare la
produttività, appunto), ma a ridurre il costo del lavoro e dare più
libertà agli imprenditori nella gestione del salario
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L'ANALISI
La produttività non dipende dalla buona volontà
di CARLO CLERICETTI
Nel 1935 Aleksej Stachanov, minatore sovietico, batté per la prima
volta il record di tonnellate di carbone estratte in un turno. La sua enorme
capacità di lavoro è diventata proverbiale, tanto da aver dato origine a un
aggettivo. Ma non aveva usato solo i muscoli e la buona volontà: aveva anche
inventato un nuovo metodo di estrazione, che permise di aumentare la
produttività di quel lavoro di ben 14 volte.
Se
Stachanov fosse nato un po' prima e negli Stati Uniti invece che in Russia,
magari avrebbe potuto trovarsi ad essere un operaio della Ford. E avrebbe
sperimentato, intorno al 1913, quella evoluzione organizzativa che avrebbe
in seguito caratterizzato le fabbriche per buona parte del secolo. Henry
Ford, che doveva fronteggiare il boom di richieste per la famosa
Model T, cominciò a studiare il modo di rendere più
efficiente la produzione e verificò che si risparmiava un sacco di tempo
facendo arrivare i materiali vicino alle persone invece di far andare in
giro gli operai a procurarsi i materiali che servivano: nasceva la catena di
montaggio e la produttività della Ford fece un balzo enorme, aumentando
di otto volte; la produzione quadruplicò in due anni pur con una
riduzione della manodopera, come
racconta lo storico David Landes.
Certo, poi bisognava che gli operai si dessero da fare, e abbiamo visto
anche nei film il "capetto" con il cronometro che misura quanto ci mette
l'operaio a fare la sua parte di lavoro. Ma senza l'invenzione precedente
anche la massima buona volontà avrebbe generato una produttività assai
inferiore.
A volte non è neanche questione di un'idea rivoluzionaria. Il sottoscritto
fa il giornalista su Internet: se l'azienda non mi fornisce un computer di
adeguata potenza, se per risparmiare non sceglie il software migliore ma uno
più a buon mercato (e così via), riuscirò lo stesso a fare il mio lavoro, ma
ci metterò più tempo e fatica e probabilmente il risultato complessivo sarà
inferiore a quello che avrebbe potuto essere. In altre parole, risulterò
meno produttivo.
Il premier Silvio Berlusconi, preannunciando martedì la confermata
della detassazione dei premi di produttività, ha detto: "In questo modo
l'azienda potrà decidere degli aumenti legati all'impegno dei suoi
collaboratori. E questo incremento graverà sulla retribuzione non più al 46%
ma al 10%. Così si passerà da una contrattazione nazionale ad una
contrattazione aziendale". Per Berlusconi, dunque, la produttività dipende
dall'"impegno" dei dipendenti. Gli esempi richiamati sopra servivano a
dimostrare che, se certo l'impegno di chi lavora è necessario, non è che una
parte, e certamente non la più importante, di quella cosa complessa che è la
produttività. I lavoratori possono anche diventare tanti Stachanov, ma se
l'organizzazione aziendale non è adeguata, se le procedure non sono
ottimali, se le tecnologie non vengono utilizzate e continuamente aggiornate
- tutte cose, queste ed altre, che non dipendono dai lavoratori - la
produttività non aumenterà. Non sembra molto giusto che una parte della
retribuzione sia legata a fattori che sono fuori dalle possibilità
d'intervento di chi la percepisce.
C%u2019è di più. L%u2019economista statunitense William Baumol ha osservato
che per suonare un quintetto di Mozart che dura mezz%u2019ora sono
necessarie, da oltre due secoli, due ore e mezza di preparazione. Non
c%u2019è stato aumento di produttività in questo caso, e com%u2019è evidente
non potrebbe esserci. Così come non può esserci per un insegnante che deve
spiegare il teorema di Pitagora (esempio, questo, ricordato da Roberto
Pizzuti), che pure deve necessariamente far parte del bagaglio di conoscenze
di ciascuno. Questo per dire che una cosa è la produttività complessiva del
sistema-paese (che dipende, anche, dal fatto che sia conosciuto il teorema
di Pitagora), e altra cosa è la produttività di singoli settori o comparti,
che dipende essenzialmente dalle possibilità di applicare gli sviluppi
tecnologici. Perché questo debba tradursi in un premio (fiscale) per le
imprese che operano nei settori “fortunati” e in un handicap (salariale) per
i lavoratori che ne sono fuori, può sembrare un problema filosofico, ma
diventa un problema economico (di macroeconomia) quando ci si trova alle
prese con una crisi dei consumi.
Quanto agli straordinari, forse il governo ha preso atto della serie
di motivi per cui il provvedimento è inopportuno
(vedi questo articolo).
In estrema sintesi: non solo questa misura non è a vantaggio di tutti i
lavoratori, perché solo una parte di essi fa gli straordinari; non solo
genera una quantità imponderabile di elusione fiscale; ma può aumentare la
produttività pro-capite (anche se nelle ultime ore di lavoro si ha
inevitabilmente una produttività più bassa), ma non quella per ora lavorata,
che dipende appunto da quegli altri fattori. Se ne è del resto
avuta una riprova
con i recenti
dati Istat:
l'anno scorso le ore lavorate sono aumentate, ma il Pil per ora lavorata
(cioè il valore aggiunto prodotto con ogni ora di lavoro) è diminuito.
C'era poi un altro motivo: favorire gli straordinari significa non
favorire l'occupazione. Una recente indagine della Banca d'Italia ne
fornisce la conferma: nel sondaggio periodico sulle imprese, alla domanda
sui livelli occupazionali del 2008 il 20,8 ha risposto che prevede una
diminuzione rispetto allo scorso anno; e di queste quasi un terzo (il 27%)
ne ha indicato la causa proprio nel provvedimento sugli straordinari. In
altre parole, senza quel provvedimento avrebbero fatto delle assunzioni,
invece in queste condizioni è stato più conveniente ricorrere agli
straordinari di chi già lavorava.
In questi ultimi tempi si sono sentiti più di una volta esponenti
dell'opposizione criticare la detassazione degli straordinari perché, in una
fase di crisi "nessuno fa straordinari". Errore: è del tutto
probabile che gli straordinari coesisteranno, in apparente paradosso, con la
cassa integrazione, perché serviranno a ridurre il più possibile gli
organici. Anche perché un'ora di straordinario all'azienda costa meno (il
28% in meno) di un'ora normale.
La conclusione che si può trarre sulla detassazione di premi di produttività
e straordinari è che non serve affatto agli scopi dichiarati. Serve a
ridurre ulteriormente il costo del lavoro e a dare agli imprenditori
maggiori margini di manovra nella gestione delle retribuzioni. Con
tanti saluti alla produttività.
Fonte la
repubblica.it (28 novembre 2008)
ECONOMIA
Così Ford moltiplicò per otto la produttività
Tratto dal saggio David S. Landes Dinastie (Garzanti, 2007)
Dal momento in cui fu messa in vendita, la Model T divenna l'auto più
popolare del pianeta. Le richiesta di "Tin Lizzie", come fu affettuosamente
soprannominata, crebbero in fretta - 18.664 unità nel 1909-1910; 34.528 nel
1910-1911; 78.440 nel 1911-1912 - costringendo Ford a focalizzare la sua
attenzione sull'aumento della produttività. La prima mossa fu la messa a
punto di parti intercambiabili, con l'introduzione di tutte le macchine
utensili necessarie a produrle. Henry e i suoi ingegneri puntavano a un
errore massimo di un decimillesimo di pollice: e ogni volta che trovavano un
attrezzo più preciso buttavano via tutti quelli vecchi. I contabili
storcevano la bocca, ma nel 1910 ogni problema di limatura e rifinitura dei
pezzi era definitivamente risolto.
Una seconda innovazione importante fu la semplificazione e la
routinizzazione dei compiti dovuta all'introduzione della catena di
montaggio, un'idea che Ford aveva rubato al suo concorrente Ransom Olds e
migliorato in maniera spettacolare. Il processo si sviluppò in tre fasi.
Nella prima c'erano squadre di assemblatori che si spostavano da un telaio
all'altro: gli assemblatori restavano cioè accanto al telaio cui stavano
lavorando mentre qualcun altro gli portava gli attrezzi e le parti di cui
avevano bisogno. Con questo sistema il tempo medio richiesto
dall'assemblaggio di una Model T era di 12,5 ore/uomo. Poi ci fu il varo
della catena di montaggio: una fune o un cavo ad argano facevano avanzare il
telaio e le squadre di assemblatori lo seguivano prendendo le parti da
montare da bidoni strategicamente collocati lungo la linea. L'unità avanzava
a scatti e in modo irregolare, ma il tempo medio di assemblaggio scese a
meno di 6 ore/uomo.
Nella fase finale gli operai erano posizionati lungo la linea in punti
fissi, stabiliti in base a calcoli precisi, i telai passavano loro davanti
all'altezza della vita, e all'altezza della testa carrelli scorrevoli e
piani inclinati recavano le parti premontate. Migliore tempo d'assemblaggio:
93 minuti per unità.
Henry ne fu contentissimo: "Economizza 10 passi al giorno per ciascuno dei
tuoi 12.000 dipendenti e avrai risparmiato 80 chilometri di spostamenti
inutili e di energie sprecate". Nel 1912-1913 la produzione raddoppiò, e
raddoppiò ancora l'anno successivo, mentre la forza lavoro veniva ridotta.
(fonte la repubblica.it 28 novembre 2008)
(La repubblica di tersite, 30 novembre 2008) |
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