PATRIARCATO DI VENEZIA

PASTORALE SPOSI E FAMIGLIA

 

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AL PROGRAMMA

Società del successo e frammentazione del clima familiare

 

di Vittorino Andreoli[1]

 

Desidero innanzitutto ringraziarvi molto per questo invito e per l’opportunità  che mi avete dato, venendo da un’altra città, di seguire la vostra attività e il  tema della giornata, molto dibattuto, che riguarda il problema delle famiglie  in gravi difficoltà. 

Si tratta di un tema molto specifico, da riportare persino dentro la dimensione  del singolo caso, che sempre si differenzia da un altro. 

Io vi parlerò di una cornice importante entro cui porre l’operatività. Cercherò  di affrontare con voi il rapporto famiglia - società. 

Mi sembra importante accennarne in questo particolare contesto perché è certamente  indubbio che la famiglia è un’unità, ha una propria dinamica che  risente delle influenze di una comunità più estesa che parte dal quartiere circostante  per arrivare ad una società nella sua dimensione più ampia. 

Mi pare particolarmente utile in questo legame famiglia - società, che la vostra  attività di Casa Famiglia Pio X in fondo rappresenti nella società una visione  del mondo ben precisa che è quella di una cultura legata al cristianesimo. Una  interpretazione del mondo che ha a che fare con il mistero, con tutto ciò che  riguarda la sacralità e la risposta al sacro data dalla religione. 

Se è vero che la famiglia risente della società, allora diventa interessante, al di  fuori di qualsiasi credo, valutare come una visione cristiana del mondo si traduca  sul tema della famiglia e verificare come quella cultura finisca per trasformarsi  in operatività. 

Mentre seguivo i vostri lavori, cercavo di chiedermi e di capire quali fossero  i passaggi da quella visione del mondo al vostro operare specifico. 

Vi devo dire che sono stato molto colpito dal numero di volte in cui stamattina,  mentre voi parlavate del ruolo dell’assistente sociale, dello psicanalista, è  uscita la parola amore. 

Un numero considerevole se lo dovessi confrontare con convegni di tema analogo  e dove addirittura c’è una certa paura ad usare questo termine. 

Oggi il termine amore è diventato sinonimo di una sorta di qualunquismo o di  una idealizzazione: espressioni lontane da un tema invece operativo che ha  bisogno di cose concrete. 

É stata una sensazione per me molto positiva perché anch’io parlo spesso di  amore. 

Mi occupo nel mio quotidiano di matti e credo che il tema dell’amore in quanto  tale - che vuol dire dare risposte in cui si esprime una presenza di comprensione,  di partecipazione e, se vogliamo, persino di condivisione con il dolore  del folle - manca completamente nella nostra cultura. 

Ne abbiamo conferma da una serie di gesti, anche questi “liturgici”, che  magari si fermano alla prescrizione di una ricetta o comunque a quei consigli  che sono una straordinaria modalità per allontanare non solo il paziente da noi  ma addirittura per dargli una comunicazione che è tutto fuorché interesse per  l’altro. 

Questo mi ha colpito nella vostra esperienza: uno stile di vita, una cultura,  una visione del mondo entro cui portate tutto quello che ognuno di voi fa nel  campo specifico. Portate la dimensione tecnica, quella che proviene dalle  scienze del comportamento, in particolare dalle scienze dei rapporti bambino/ madre bambino/padre dentro l’amore. 

Certo è più facile parlarne che metterlo in pratica,ma voi lo avete testimoniato  nei progetti e nei risultati. 

Già questo mostra come le visioni del mondo insite in una società sono visioni  culturalmente utili se si trasformano in comportamenti. 

Credo che il lavoro di questa Casa Famiglia abbia qualcosa di caratteristico  che è appunto la modalità con cui gli operatori e i “familiari” s’inseriscono  all’interno di un progetto e del progetto specifico di quel singolo caso. 

Allora se è vero che è importante stabilire il rapporto tra società, intesa come  visione del mondo, con l’operare, diventa utile analizzare la nostra società,  quella del tempo presente e coniugarla con la famiglia e con i suoi disturbi. 

Una società che potremmo definire del “successo” - e adesso cercherò di dire  anche meglio che cosa intendo - e la famiglia - su cui agisce portando a rompere  il suo delicato equilibrio. 

Il mio punto di vista - come voi sapete - è quello di colui che è più vicino alle  famiglie rotte, frammentate per una serie di motivi. 

Ecco i due aspetti: la società del successo e la frammentazione del clima familiare. 

 

Dobbiamo subito chiarire che il successo non è il livello raggiunto in una  società. Il successo è proprio uno stile di vita, è un comportamento, oserei dire  che persino nella miseria c’è il meccanismo del successo. 

Se voi andate a vedere negli ambienti che noi definiremmo di esclusione, di  emarginazione sociale, vedrete che anche all’interno di queste società del  minimalismo si genera lotta, si rileva la necessità di primeggiare, di esprimere  potere sugli altri. 

Insomma, il successo è una modalità di comportamento che tende comunque a stabilire delle gerarchie, ad essere riconosciuti come il numero uno o il  numero tre rispetto a quelli che sono invece più giù in una graduatoria. 

Persino nelle scuole elementari c’è la tendenza, in una classe, a fare delle  distinzioni del singolo io nei confronti di un altro usando il voto, usando la  simpatia, usando tutto quello che volete. Persino nelle scuole elementari non  domina come soggetto di riferimento il gruppo, la classe, ma dominano i singoli  individui che vengono – già in quella età - in qualche modo messi in una  certa concorrenza e competitività che finisce poi per creare le gerarchie. 

Sono stato colpito stamattina leggendo il giornale, nel sapere che c’è un movimento  di maestri elementari che si oppone all’idea che nel nuovo ordinamento  venga soppresso l’esame di quinta elementare. 

Mai mi sarei aspettato che proprio degli insegnanti elementari chiedessero che  invece sia mantenuto. 

É probabilmente un segnale che in questa società non si riesce a stabilire relazioni  se non di merito, e quindi al di fuori della logica del successo: già alle  scuole elementari! 

Il successo esprime una dinamica che si fonda sull’io. 

Nel Novecento ha dominato e continua ancora ai nostri giorni, una psicologia  dell’io a partire dalla Interpretazione dei sogni di Sigmund Freud. 

Credo sia stata una grandissima conquista, dal punto di vista storico, ma  anche che la psicologia dell’io abbia qualche responsabilità in questa visione dell’io che in qualche modo deve essere adeguato - nel senso più darwiniano  – e quindi protagonista nel poter vedere le proprie istanze affermate. 

Ciò rende più difficile i passaggi dall’io all’altro. Io, io, sommatorie di io,  allargamento dell’io ma mai alla percezione dell’altro che è strumentale alla  percezione di un distinto da me perché serve a me; serve proprio nel senso del  bisogno. 

Se nella famiglia un padre non avverte il bisogno di quel figlio, sarà molto difficile  pensare che sarà un padre, sul piano della donazione. 

Il padre che abbia un figlio ha il bisogno di stabilire con quel figlio una relazione  in cui certamente dovrà dare ma anche, proprio come bisogno nella  paternità - deve ricevere. 

L’andare a casa la sera presto per stare con il proprio figlio o con le proprie  figlie, non deve essere posto - almeno non solo - sul piano del dono ma sul  piano del bisogno. 

Anche un bisogno di scambio senza quelle formalità che invece mettiamo in  atto quando ci incontriamo tra persone che non sono parte della famiglia. 

Quindi la psicologia dell’io è stata fortemente strumentalizzata al di là degli  strumenti operativi, fondando dal punto di vista sociale l’eroe, il protagonista,  l’uomo di successo, l’uomo forte. 

Quando penso al primo, quando vedo il primo io penso sempre anche all’ultimo,  penso sempre a quanti sono rimasti giù dal podio e hanno vissuto, forse  nonostante il loro impegno, una situazione di sconforto e di frustrazione. 

In questa società tutto è spinto a ottenere il successo secondo le regole del  tempo, che in particolare oggi sono quelle di entrare nella televisione e nei luoghi  che possono rappresentare in maniera vasta le persone. 

Il successo è talmente entrato in questa dinamica sociale che lo ritroviamo  nella scuola, nel mondo del lavoro, lo ritroviamo persino nella famiglia: non  solo di lui nei confronti di lei, ma del successo più o meno importante di un  figlio rispetto ad un altro figlio oltre che con i relativi amici. 

Il successo ha queste caratteristiche: competizione e lotta. 

Per la competizione, tu esci da questa casa e devi lottare e lottare in tutti i modi  perché - come dice Darwin - la supremazia di un individuo o di una specie non  ha dei limiti: bisogna eliminare l’altro.

È inutile fare tante distinzioni, lotta significa che se uno perde, l’altro vince. 

Per la competizione, l’imperativo è: devi competere con tutti e devi lottare  per vincere. 

Ma questo non basta. 

La dinamica del successo comporta anche un’altra caratteristica: l’invidia. 

Tu devi invidiare ciò che ha un altro e lo devi raggiungere. 

L’invidia è una delle linee di comportamento più terrificanti, perché l’invidioso  vede solo quello che ha l’altro e fa di tutto per poterlo conquistare, senza  accorgersi di quello che egli stesso ha o di quello che è veramente. 

Quindi ha il bisogno di incamerare nel proprio io le caratteristiche, le qualità,  gli oggetti dell’altro.

Successo vuol dire affermare la cultura del nemico: l’altro fino a prova contraria  è un mio nemico, un nemico che devo battere, di cui non mi fido, di cui  è meglio che nemmeno mi fermi con lui, se ha bisogno meglio che pensi che  “sono fatti suoi”. 

La cultura del nemico è la necessità di vedere l’altro come qualcosa che mi  ostacola perché solo così ho anche la forza di poterlo vincere. 

Io sono sempre colpito da alcune tecniche di preparazione all’agonismo sportivo.  Tecniche in cui chi deve confrontarsi, competere con un altro viene psicologicamente  portato ad odiarlo, facendolo vedere in fotografia brutto, demoniaco… 

Qualcosa che si deve odiare, perché se uno entra nella competizione avendo  una immagine demoniaca dell’avversario, riesce a mettere più grinta e più  forza per poterlo battere. 

É questa la cultura del nemico che permette al massimo di proiettarsi e di  allargare il proprio io fino al piccolo gruppo, il clan. 

E questa è una società di io un po’ allargati, allargati fino al club, dove tutti  sono uguali - io sono uguale a te, tu sei me, non c’è bisogno di spiegarci, noi  siamo una unità – in una sorta di terrificante appiattimento. 

Ciò che non entra in questo club è inimicizia, che invece si impone in ogni  altro luogo, non possiamo farne a meno. É il paradigma che genera l’eroe.  L’eroe è una delle espressioni rapide del successo, perché con un suo gesto si  passa dall’essere nessuno a fare qualche cosa che tutti conoscono. 

L’eroe è l’esempio di un successo straordinario: una persona finisce per fare  la presentatrice, ma anche uccidere la propria madre, perché anche il delitto  entra nella dimensione del successo.

Il metro di misura del successo è la presenza televisiva. 

Voi sapete che la mia esperienza professionale mi porta - a volte controvoglia  – a presenziare a trasmissioni televisive. 

C’è una prima fase andando in televisione in cui la gente dice: “ma senta, lei  l’ho vista. L’ho vista in televisione”. 

Questa prima fase del riconoscimento, il “tu sei andato in televisione”, significa  che posso benissimo essere come Bilancia - Donato Bilancia in sei mesi  ha ammazzato diciassette persone - perché la gente percepisce che uno è dentro,  è dentro lo schermo del successo. 

Quindi non c’è dubbio che il televisore è una modalità per creare l’eroe e non  importa se l’eroe è buono. Io credo che l’eroe sia sempre una figura triste. 

Ancora una volta l’eroe è come colui che fa una metamorfosi e passa dall’essere  nessuno a una persona che viene riconosciuta, non importa per che cosa.  Lei l’ho vista, quindi il fatto di essere stato visto anche se non inserito in un  rappresentazione e quindi entro specificità. 

Questo vuol dire successo. 

Allora mi chiedo: se le stesse famiglie preparano i propri figlioli, e si preparano  gli stessi padri e madri, per il successo, com’è possibile poi distaccare  tutte le caratteristiche che ho indicato? 

Tali caratteristiche, peraltro, se vengono applicate all’interno della famiglia  non è più possibile definirla tale. 

Una competizione, ad esempio, legata allo stipendio: lei che prende più di me.  Un antagonismo all’interno della maternità perché se è vero che oggi c’è il  papà che fa il mammo, ci sono delle madri che dicono: “No, questo spetta a  me!”: un ruolo dettato dalla biologia. 

La competizione e l’invidia tra famiglie, vicinanze di nemici. 

Meglio non sapere niente; se il vicino grida o se sta ammazzando il nonno  la risposta è: “Alza un po’ la televisione così non sentiamo nulla”. 

Se è vero che la società influisce sulla famiglia, se è vero che è una società  informata o dominata dal successo, allora come è possibile che una famiglia possa mettere in atto alcune dinamiche utili a far vivere i suoi componenti  serenamente e a vivere con gli altri in maniera altrettanto serena? 

Che la famiglia possa avere come modello un trio d’archi o un ensemble  musicale dove ci devono essere delle competenze precise e ognuno deve sapere  suonare uno strumento, ma il risultato è un insieme (in un quartetto di  Vivaldi se il violino non va d’accordo con la viola o con il violoncello, è  meglio chiuderlo, anche se sono tutti e tre dei bravissimi solisti). 

Allora come è possibile poi entrare a casa, depositare i propri strumenti di lotta  e dire: ”Bé, adesso suoniamo Vivaldi…”?

Com’è possibile che con una società di questo tipo, tutto d’un tratto si arrivi  a casa, si abbandonino le strategie di lotta di cui ancora si è impregnati e si  passi a trasformare la casa in luogo dei sentimenti, cioè luogo dei legami, e  quindi sentire che l’importanza dell’altro è fondamentale per te?

Esperire il legame significa fare della casa il luogo dove finalmente ti senti più  tranquillo, più sereno e quindi non più in lotta. 

É difficilissimo e a dimostrarlo ci sono molti segnali come, ad esempio, i  momenti più drammatici della cosiddetta “baruffa” in famiglia. 

É nella mezz’ora successiva all’ingresso e al ritorno in casa di uno dei due  coniugi, ancora saturi di una grande carica di lotta dove il nemico, però, è  rimasto fuori di casa, che quella lotta può trasformarsi subito in dramma, alla  prima piccola provocazione. 

Il nome dimenticato di una telefonata, una raccomandata non ritirata, possono  essere la scintilla di un litigio sempre latente. 

É chiaro che la raccomandata, che leggerà domani, non è nulla, se non una  motivazione per riversare quell’energia da inimicizia su qualche cosa che  viene definito nemico; se non ce l’hai lo crei. 

Io penso che si debba operare nell’ambito della micro attività, nella famiglia,  nella casa famiglia come famiglia particolare, ma bisogna anche cominciare ad  occuparsi di una società più ampia, perché altrimenti è come se noi volessimo  proteggerci mettendoci in un fortino senza però tener conto delle artiglierie  che sono al di fuori e che sono puntate su quel fortino. 

Ecco perché sono convinto che per lavorare bene sui bisogni delle famiglie  dobbiamo anche occuparci di tutto il resto di ciò che ne è al di fuori. 

Quanti fallimenti nel nostro lavoro sulle famiglie, dipenderanno dal fuori,  dipenderanno dalla società del successo? 

Le vostre metodologie di intervento familiare (è difficile trovare qualche cosa  da dire in questa esperienza organizzata così bene) come si conciliano con ciò  che succede fuori, dove non si può fare nulla? 

Sappiate che i fallimenti o i successi si legano nella dinamica interna della  vostra struttura, o della famiglia per cui operate, ma anche con ciò che avviene nel quartiere, dal vissuto circostante, con la frustrazione nel mondo del  lavoro, l’insoddisfazione alla vita, la perdita della speranza. Dipende, insomma,  da tante altre cose. 

Ecco perché noi dobbiamo agire nel quartiere con lo stesso stile e impegno,  cambiando le atmosfere e gli stili di relazione. 

Attivandoci con lo steso impegno,e voi mi pare che da parecchi anni agiate  con intensità nella famiglia (mi hanno colpito i vostri 95 anni e, mi sembra,  che li portiate bene). 

Noi dobbiamo incominciare a studiare delle strategie che siano almeno a  livello del quartiere. 

So che voi lavorate alla Giudecca… la Giudecca sta cambiando completamente. 

Se cambia, non è possibile che le famiglie a cui voi date una risposta non cambino  ed è possibile che voi, operando nel modo prima del cambiamento, finiate  per essere meno efficaci nel dopo cambiamento, anche utilizzando una  metodologia che magari nel frattempo si è persino perfezionata. 

Ritornando alla parola amore che mi ha colpito vorrei porvi una domanda: non  vi pare che, al di là dell’interpretazione corretta del messaggio - so benissimo  a chi fate riferimento – ci voglia un po’ più di attenzione nel presentare le famiglie  riuscite come le famiglie dell’amore? 

Io ho una storia famigliare di 38 anni e vi potrei raccontare di momenti straordinari  ma anche di “baruffe”. 

Guardate che il problema non è la baruffa, è il come si esce dalla baruffa, è il  come questa viene “elaborata”. 

La baruffa può anche essere positiva, perché è una modalità per capire le scintille,  per stare molto guardinghi. 

Insomma, bisogna stare attenti a non dare un’immagine un po’ troppo romantica,  perché riferendomi a modelli più storici rispetto a quelli cui voi fate riferimento,  non possiamo immaginare che una famiglia si mantenga per 38 anni  sull’amore. 

Io credo che l’amore sia una “patologia” gravissima da non curare. 

L’innamorato che dice: “Io penso solo a lei…”. E agli altri? Che è interessato  solo a cosa pensa lei.

Uno davanti all’altro intenti a pensare uno dell’altro, è qualcosa di meraviglioso  ma per fortuna passeggero. 

Questo per dire che non si può pensare di fondare un’unione, una storia familiare  mettendo come unico elemento l’amore, pur essendo un motore straordinario  con dei ritorni incredibili. 

Io sono vecchio e vi posso dire che ci sono, nell’ambito del legame, della storia,  delle cose straordinarie che non c’erano all’inizio. 

Vi posso parlare di novità, di riaccensioni… 

Bisogna, però, stare molto attenti perché ci sono persone che hanno sperimentato  solo il dolore - e qui qualche caso è stato riportato - e allora l’amore è troppo  lontano come modello e forse non è nemmeno tanto realistico. 

Allora che cosa bisogna presentare? 

Io ho voluto scrivere “Lettera alla tua famiglia” rivolgendomi ad una famiglia  non con la pretesa di entrare in tutte per dir loro “le famiglie devono fare così”  poiché ogni famiglia è soggetta ad una dinamica legata a quel contesto specifico. 

Io non ho voglia, dico in questa lettera, di parlarti della violenza in famiglia,  però mi piacerebbe dirti qualche cosa che può aiutare a tenere lontana la violenza. 

Quindi tenerla presente come possibilità, come un’ombra che può interferire,  e allora ecco, l’amore è un motore che ogni tanto deve poter dare forza. 

Ma è importante la piccola storia di famiglia, è importante questa narrazione,  avere il gusto ogni tanto di ripercorrere la propria storia di famiglia, che sarà  magari una storia modesta, ma ti lega al passato, a quel nonno di cui nessuno  parla perché beveva, ma era una persona stupenda. 

E ciò permette di ricordare che con quella persona ci sono stati momenti di  grande gioia ma anche momenti di difficoltà. 

C’è un dolore che appare inevitabile. 

Io sono contro il dolore, vorrei lottare il dolore evitabile, ma c’è questo dolore  inevitabile e allora sono importanti quegli episodi della sofferenza… in una  storia che è fatta poi dei figli. 

Altri elementi sui quali insegnare come una famiglia si può reggere è la voglia  di partecipare alla vita dell’altro, che non è una vita di contenuto, non è una  discussione tra i contenuti all’interno della famiglia, ma è il fatto che nessun  contenuto, per quanto contrastato, debba rompere i legami affettivi, debba  rompere quella rete che dovrebbe essere di affetto e di sentimento e che fa dire  a un padre: “Io non condivido nulla di quello che tu hai fatto, perché va contro  tutto quello in cui credo, però ricordati che qualsiasi cosa tu faccia qui c’è  sempre tuo padre che ti vuole bene”. 

Quel padre potrà non essere d’accordo ma non c’è mai niente che rompe il  legame. 

Bisogna ripartire da questi legami che costruiscono delle storie, che uniscono. 

Bisogna poi sottolineare che la famiglia è un bisogno di ciascuno dei propri  partecipanti. 

Non è possibile che un padre dica: “Lo faccio per loro…” 

Certo che lo fai per loro ma lo fai prima di tutto anche per te stesso. Se sei il  primo violino di quell’ensemble non puoi dimenticare il tamburo: il violino in una orchestra impegnata in una grande sinfonia (pensiamo a Mahler) dovrà  rinunciare a farsi sentire e ascoltare quel momento in cui sembra che si spacchi  tutto, i timpani sono importanti. 

Io credo molto alla teoria dei bisogni, ai bisogni affettivi: io ho bisogno di  loro. 

E qui non ho nessuna paura ad affermare che ho bisogno delle mie tre figlie. 

Io ho bisogno di loro ed ho bisogno di colei che sta con me da 38 anni. 

Al contrario di qualche mio collega, che ai convegni di psichiatria ogni anno  mi presenta una compagna nuova. 

 

Termino con un unico suggerimento. 

Voi sapete che la Fiera del Libro di Torino, in cui ero ieri, si è aperta con un  bellissimo tema: “Il sogno”. 

Bisogna sognare. 

E io ieri ho parlato proprio della famiglia come sogno, dell’importanza di far  sognare la famiglia, non tanto il sogno come qualche cosa di illusorio, ma  come forza per la realtà. 

Mi sembra che riuscire ad avere un disegno di quella che è la famiglia che ci  piacerebbe, possa essere un punto di partenza. 

Sognare anche da parte di chi la famiglia la sta perdendo o, comunque, è già  in forte difficoltà e che arriva da voi. 

Insomma credo che sia tempo di sognare. 

 

Libero Majer – Credo che questa sua relazione ci abbia offerto moltissimi  spunti di cui la ringraziamo e sui quali senz’altro cercheremo di crescere dopo  averli approfonditi. Vorremmo ringraziarla anche per la sensibilità e l’entusiasmo  con i quali lei ha colto il nostro invito di calarsi in questa nostra realtà pur  piccola ma che vuole andare avanti. 

Continuiamo i nostri lavori. Doveva essere presente il dott. Iosa che non è  potuto intervenire per motivi di famiglia. Abbiamo con noi la dott.ssa Teresa  Mutalipassi che è psicologa e componente dello staff di dirigenza dei Servizi  dell’infanzia e dell’adolescenza del Comune di Venezia. Lasciamo a lei di presentarci  in questo intervento quelle che sono le “Emergenze sociali nel territorio  veneziano”.     

  segue> 

 

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[1] Psichiatra e scrittore.