Le emergenze sociali nel territorio veneziano
di Teresa Mutalipassi
Più che a specifiche emergenze sociali, assistiamo in questi ultimi anni ad una
sorta di onda lunga del cambiamento, che va via via segnalando aspetti e problemi
diversi del vivere sociale.
Si tratta in realtà di fenomeni che hanno a che fare con variabili storiche e culturali
dell’epoca che stiamo vivendo e che quindi non riguardano solo il territorio
veneziano, ma un’ area geografica più ampia.
Trattandosi di un onda lunga, ad oggi abbiamo già elementi di conoscenza per
cominciare a costruire una visione d’insieme dei cambiamenti, che sia di stimolo
e di aiuto per chi opera nel sociale.
Intendo quindi considerare emergenze sociali significative, alcuni aspetti che
da un lato, sempre più caratterizzano i contesti familiari e le relazioni fra adulti
e bambini e dall’altro, interessano i servizi e tutti coloro che svolgono attività
nel sociale.
1. Costellazioni familiari, tipologie di relazioni e rischi di disagio
Gli aspetti rilevanti dei cambiamenti in atto riguardano l’intero contesto sociale,
investono gli adulti nelle loro molteplici funzioni e compiti. Qui ci interessa
focalizzare l’attenzione sulle vicende che caratterizzano la famiglia, le
modalità di relazione affettiva e di investimento progettuale degli adulti e
come i bambini si collocano in questi contesti di vita.
Utilizzo i termini “costellazioni familiari” perché un aspetto importante da considerare
è che attualmente ci troviamo di fronte a molteplici tipologie di famiglia.
Diversi cambiamenti di ordine culturale, sociale e non ultimo economico,
stanno ridefinendo significativamente gli assetti familiari. A questo si aggiunge
e contribuisce anche la presenza sempre più significativa di famiglie straniere,
portatrici di modelli culturali ed educativi diversi, con i quali cominciamo
a confrontarci e delle quali, quando hanno necessità di sostegno, dobbiamo
meglio comprendere le specificità, interrogandoci su quanto le nostre chiavi
di lettura e le nostre modalità di intervento siano adeguate.
I contesti familiari si presentano assai diversificati, nell’assunzione dei ruoli e
delle responsabilità e nello svolgimento dei compiti da parte dei diversi appartenenti
alla famiglia stessa. Non è più così immediato il riconoscimento di chi
fa che cosa e soprattutto non è detto che funzioni specifiche, vengano svolte in
continuità sempre dalla stessa persona.
Ad una prevalente rigidità nella distinzioni di ruoli ed inviolabilità di confini
della famiglia tradizionale, si sono andate sostituendo una certa flessibilità nel
gioco delle parti ed una significativa possibilità di variare i confini della famiglia
stessa.
La definizione meno rigida dei ruoli, che ha rappresentato un passaggio culturale
importante, ha permesso nella famiglia, lo sviluppo di relazioni affettive
ed educative sicuramente più ricche ed articolate, ha aperto e rinforzato la dialettica
nella coppia, prima fondata sostanzialmente su valori e regole di convivenza
socialmente condivise; ognuno più o meno esplicitamente sapeva quali
erano i suoi compiti e i limiti da non oltrepassare.
La possibilità di inventarsi la propria relazione di coppia e il proprio progetto
di famiglia ha messo in moto energie nuove, così la convenzione sociale ha
ridimensionato la sua funzione di garanzia di stabilità e continuità; la coppia
si fonda principalmente a partire dai bisogni affettivi individuali, dalle reciproche
aspettative e rappresentazioni della vita insieme. Questo implica che il
patto può essere anche ridefinito in base all’insorgenza di nuovi bisogni, sciolto
nel caso non sia più sostenibile oppure tradotto in accordi da stipulare di
volta in volta, a seconda delle questioni da affrontare e degli interessi dei
membri della coppia.
I contesti di vita familiare, possono quindi divenire meno stabili e certi e così
può diventare più complicato starci dentro, trovare la propria collocazione, e
nelle dinamiche relazionali, distinguere la propria specificità in riferimento
agli altri, con la possibilità quindi di definire i confini identitari e allo stesso
tempo riconoscere quelli altrui, regolare gli spazi della relazione, considerare
e integrare i propri bisogni con quelli dell’altro...
Si assiste ad un aumento di domanda di aiuto da parte delle famiglie in generale,
una domanda rivolta direttamente ai servizi ma anche rilevata indirettamente
dai comportamenti degli adulti, sempre più alla ricerca di informazioni, modelli,
ricette su come comportarsi e come affrontare difficoltà e fatiche che inevitabilmente
l’esperienza relazionale, in particolare poi quella con i figli, comporta.
Questo aumento in parte è spiegabile con una maggiore consapevolezza ed
attenzione di una parte degli adulti alla complessità e all’importanza che si
attribuisce alle relazioni affettive e all’esperienza della genitorialità, ma per
un’altra significativa parte, sembrano richieste di chi è disorientato o sorpreso
di fronte a ciò di cui deve andare ad occupare, o bisognoso di alleggerire il
peso delle responsabilità e dell’impegno familiare sentiti come troppo onerosi
e limitanti.
A tutto ciò si aggiunga un contesto sociale in cui, giustamente per certi versi,
l’individuo occupa una posizione centrale, dove importante è perseguire la realizzazione
di sogni ed aspirazioni, ricercare nuove opportunità, per crescere, per arricchirsi sul piano personale o per provare emozioni mai conosciute.
Questo ha comportato uno spostamento rilevante degli investimenti di risorse
personali ed affettive dal contesto familiare ad un contesto di vita più ampio
e su progetti individuali. Pertanto poi non è semplice curare questi bisogni
individuali e allo stesso tempo mantenere uno spazio, prima di tutto mentale,
sufficiente per accogliere ed occuparsi dell’altro, il partner e i figli.
Anche questi aspetti contribuiscono a ridurre la stabilità della coppia e la
dimensione progettuale, che per esistere richiede una continuità nel tempo e
una condivisione di obiettivi. Il non sentirsi sempre e necessariamente sulla
stessa barca, come si suol dire, limita le possibilità di alleanza fra gli adulti
nell’affrontare le dinamiche della loro relazione, i compiti genitoriali e anche
la semplice gestione del quotidiano.
Di fronte alle necessità di tutti i giorni, fino ad arrivare a particolari difficoltà
che la vita può presentare, venuti meno comportamenti convenzionali e regole
certe a cui affidarsi, non si può che ricorrere alla negoziazione come modalità
relazionale, che permette di individuare una prospettiva comune tenendo
sufficientemente conto di tutti i soggetti coinvolti.
Ma la negoziazione richiede innanzitutto che si sappia esattamente chi sono le
parti in causa, di quali differenti interessi e bisogni sono portatrici e necessita
che le diverse parti condividano per lo meno gli obiettivi di fondo e l’importanza
di arrivare insieme ad una soluzione.
L’aumento significativo di richieste di aiuto da parte degli adulti genitori ed
educatori perché non in grado di gestire la relazione e in particolare la conflittualità
con i figli e i bambini in generale, l’aumento di richiesta di intervento
per dirimere i conflitti nella coppia, sono segnali chiari di questa difficoltà di
mantenere la costanza della relazione, dentro cui utilizzare strumenti e strategie
per affrontare i problemi. Le contraddizioni ed i conflitti tendono più facilmente
a rompere le relazioni, o ad espellere chi viene sentito persecutoriamente
responsabile del problema.
In questo modo si indebolisce molto la funzione di contenitore della famiglia,
entro cui sperimentare le relazioni e definire i confini delle identità personali,
soprattutto per chi, come i bambini, l’identità se la stanno costruendo.
Ritroviamo spesso bambini e ragazzi cresciuti nella precarietà dei confini
familiari, dei ruoli e compiti di ognuno, o della continuità relazionale, anche
solo perché i genitori sono molto impegnati nel lavoro, che si ritrovano ad
essere, e sembrerebbe un paradosso, bambini idealizzati, sovrainvestiti di valore
ed aspettative, su cui si proiettano i sogni di genitori spesso alle prese con
tentativi di riparare in qualche modo alla loro scarsa presenza, alla difficoltà di
ricavare uno spazio mentale adeguato ai loro bisogni ed uno spazio empatico
sufficiente ad accogliere i loro vissuti emotivi.
Bambini e ragazzi visti più virtualmente che nel concreto di ciò che sono, talvolta
adorati come piccoli dei e subiti come piccoli tiranni, che tengono in
scacco gli adulti agendo sui sensi di colpa o stuzzicando il compiacimento narcisistico
dei genitori che ne colgono l’apparente determinazione e capacità
contrattuale e non la richiesta di attenzione e contenimento e spesso la labilità
emotiva.
La precarietà e la difficoltà di mantenere la costanza della relazione, la distinzione
dei confini in termini di differenze di ruolo, di genere, di generazione
ecc si può tradurre per certi adulti, in una sorta di dichiarazione di impotenza,
di rinuncia ad esercitare i propri compiti, ad assumersi la propria parte di
impegno e di fatica per poter comunicare all’altro quanto è importante e quanto
quindi valga la pena darsi da fare, cercare soluzione per proteggere e salvaguardare
la relazione.
Ma questa impotenza, questa inquietudine di fronte alle difficoltà di trovare la
giusta posizione nella relazione con l’altro, si può tradurre in forme di prevaricazione,
di imposizione di decisioni, comportamenti, che nel tentativo di evitare
il senso di inadeguatezza o il conflitto diventano violazioni dell’altro,
disconoscimenti della sua specificità.
Non mi riferisco esclusivamente alle situazioni familiari in cui sono presenti
concretamente comportamenti maltrattanti e violenti nella coppia e sui figli, il
maltrattamento e l’abuso può avere a che fare anche con una violazione della
mente dell’altro, con la mortificazione dei sentimenti e delle idee dell’altro.
Per quanto riguarda specificatamente i bambini, in qualunque modo queste
problematicità si esprimono e si organizzano, il rischio è che divengano bambini
invisibili. Invisibili per adulti purtroppo presi dai loro impegni e bisogni.
Bambini invisibili perché non riconosciuti nelle loro esigenze specifiche legate
alla crescita, al bisogno di essere sostenuti emotivamente, ascoltati nelle
richieste e nelle paure, contenuti e aiutati a disegnare e delimitare i confini
della loro persona e delle loro opportunità di essere e di agire, quindi protetti
e accompagnati nella conoscenza e nella costruzione di un proprio spazio di
esistenza.
Attualmente queste problematicità si evidenziano nelle famiglie in generale,
pensando poi ai bambini in carico al nostro servizio e alle loro storie familiari,
alle mamme con i propri figli accolte in comunità come Casa Famiglia, le
ritroviamo molto amplificate.
A proposito di costellazioni, le tipologie di famiglie in situazione di grave
disagio, dove i bambini sono esposti a significativi rischi per la loro salute e la
loro crescita, sono veramente le più disparate, sembrano esposte a tutte le
intemperie, i legami sono fragili così come del tutto incerti sono i confini.
L’assetto interno è in frequente movimento, la coppia si modifica con facilità e spesso velocemente e così diventano instabili e cambiano di volta in volta le
figure adulte significative. Facilmente e frequentemente si cambiano casa e
lavoro, quando ci sono, si fanno progetti di vita che poi si disfano o si dissolvono
in tempi brevi. Tutti questi veloci ed importanti cambiamenti sono prevalentemente
in funzione dei bisogni degli adulti. Adulti, che molto spesso a
loro volta hanno alle spalle storie familiari molto pesanti, dove poco sono stati
riconosciuti nel loro essere bambini.
Questi adulti, che diventano madri e padri con grande facilità, sono prima di
tutto essi stessi portatori di bisogni infantili di cui nessuno si è occupato adeguatamente.
Bisogni di dipendenza ed immediata soddisfazione, di rincorsa di
progetti di vita talvolta irrealistici, di ripetizione di esperienze relazionali deludenti
e dolorose mai elaborate, di azioni che vorrebbero riparare alle sofferenze
e alle frustrazioni subite.
La difficoltà che riscontriamo in questi adulti a regolare i loro comportamenti
e i loro bisogni, si traduce poi in una forte difficoltà e incapacità ad assumere
e regolare le esigenze dei loro bambini nella crescita.Un buon accudimento,
l’accompagnamento nella conoscenza di sé e del mondo, nello sperimentarsi
con le proprie risorse ma con un buon bagaglio di sicurezza ed amorevole
sostegno, sono prima di tutto diritti e comunque necessità affinché un bambino
possa arrivare a costruirsi un identità e a dare un senso all’esperienza.
Quando nella mente del genitore il bambino non può essere entità separata,
perché non distinto da se stesso e dai suoi bisogni di bambino non curato e
sostenuto, allora facilmente i comportamenti genitoriali possono diventare
trascuranti e il bambino si trova alle prese con vissuti di solitudine e di abbandono.
Il bambino non riconosciuto come entità separata ma vissuto come una sorta
di prolungamento di se stessi rischia di non poter acquisire autonomia di movimento
e di pensiero, lo spazio fra il genitore e il bambino stesso non esiste e
quindi autentici movimenti di separazione non possono essere realizzati e tollerati,
la relazione rischia di oscillare continuamente fra una totale adesione
del bambino all’adulto e la possibilità di venire negato e rifiutato se non riconosciuto
più come parte di sé.
I comportamenti maltrattanti ed abusanti che spesso incontriamo in questi
nuclei, a partire dalla coppia, rimandano anch’essi all’impossibilità di riconoscere
l’altro, e così la violazione della mente e talvolta del corpo dell’altro può
avvenire perché si ignorano i confini e le differenze, di generazione e di genere,
di sentimento e di pensiero.
Ciò che va a complicare ulteriormente la situazione di queste donne, madri o
comunque di queste famiglie è che alla problematicità della loro storia personale
e quindi alle difficoltà di provvedere adeguatamente a sé e ai propri figli, si associa in genere una fragilità e problematicità dei contesti in cui vivono,
con una carenza grave di riferimenti personali che possano essere di aiuto e
spesso anche le risorse economiche mancano o vengono a mancare in riferimento
sempre a queste difficoltà di prendersi cura di sé e della propria vita.
2. Per i servizi: dall’azione alla relazione, un significativo spostamento di
prospettiva
Alla luce di queste considerazioni ritengo importante sottolineare quelle che
sono diventate, conseguentemente le emergenze per i servizi ma credo in generale
per chi opera nel sociale.
Nella recente esperienza di revisione ed aggiornamento del Piano di Zona
SocioSanitario, a cui anche Casa Famiglia ha partecipato, nella ricognizione
che abbiamo fatto di servizi, dispositivi, interventi, abbiamo verificato quanto
il territorio veneziano sia ricco di risorse, un territorio in cui in passato si è
molto investito sulla salute e sul sociale, mettendo in piedi servizi e attività
anche molto innovativi.
Si è convenuto, che in linea di massima non si riscontra una significativa necessità
di aprire nuovi servizi, ciò che invece è apparso evidente, in particolare in
alcune aree di intervento, è che vi è la necessità di mettere un po’ di ordine fra
le diverse offerte, di costruire un piano di regolazione delle offerte stesse.
Ciò che vorrei far presente è che, per lo meno in alcune aree di intervento,
risultano fragili le connessioni fra i diversi servizi, quindi torno a parlare di
relazioni anche se su piani diversi.
Mi riferisco, in termini generali a come si lavora intorno ad una certa domanda,
chi fa che cosa e con quali significati, alla necessità di costruire percorsi
finalizzati alla predisposizione di accordi, linee guida che aiutino tutti gli attori
in campo, a stare dentro una cornice condivisa.
Ritengo che questo sia molto importante per meglio affrontare la frammentarietà,
la dispersione, la confusione che spesso caratterizza le storie delle famiglie
di cui ci occupiamo, ma che come abbiamo visto, stanno diventando tratti
diffusi del vivere sociale e relazionale in senso lato.
Il sistema di connessioni, a partire dalla condivisione dei significati e degli
obiettivi del proprio lavoro, può rappresentare la prima strategia per contenere,
per costruire intorno a questi nuclei e bambini fragili e disorientati, una
sorta di cinghia di sicurezza.
Questo è il primo aspetto per il quale mi sento di dire che in questo momento
l’emergenza è un maggiore investimento di attenzione e di risorse non tanto
sul fare, mettere in piedi altri servizi, moltiplicare gli interventi, ma sul curare
e rinforzare le connessioni fra l’operato dei diversi soggetti che si occupano di
famiglie in grave disagio.
Intendo così sottolineare fortemente la necessità di spostare l’attenzione dall’azione
alla relazione.
Sempre più le richieste di aiuto e sostegno da parte delle famiglie vengono
sulle problematiche della relazione. Su questo vanno rinforzate le nostre competenze,
affinati gli strumenti di lavoro, in particolare per quanto riguarda la
capacità di costruire progetti, dove, per la complessità delle situazioni e anche
per la pochezza delle risorse interne ed esterne delle persone di cui intendiamo
prenderci cura, è necessario il coinvolgimento di molti soggetti diversi,
servizi, pubblici e privati, fino ad arrivare al mondo del volontariato.
L’emergenza è “regolare il traffico”, attivare strumenti e metodologie che permettano
una condivisione chiara degli obiettivi, una suddivisione altrettanto
chiara dei compiti e delle responsabilità, con tempi e verifiche che consentano
davvero di valutare la qualità e la quantità dei cambiamenti possibili.
Questi progetti complessi su situazioni fortemente problematiche hanno la
necessità di qualcuno o qualcosa che ne tenga le fila, che possa mettere insieme
i pezzi di intervento, di osservazioni e pensieri. Costruire cornice entro cui
tutti i soggetti coinvolti trovino il senso del loro intervento in stretta relazione
con gli altri.
Tenere insieme i pezzi di intervento, tenendo in mente chi altro è coinvolto nel
progetto, significa tenere insieme i pezzi di storia e i bisogni dei nostri utenti.
Ci sono casi in cui nonostante vi sia stato un impiego di risorse enorme in termini
di servizi coinvolti, di fatto non si riesce comunque a produrre dei cambiamenti
significativi, e rimane l’interrogativo di quale peso abbia avuto il
fatto che si sia aggiunto al grave disagio, la confusione e la frammentazione di
chi ci ha lavorato.
Sul piano operativo, se è proprio la relazione ad essere carente o problematica,
nelle persone di cui ci occupiamo, l’offerta di nuove relazioni avrà bisogno
di essere monitorata attraverso una continua rielaborazione di ciò che accade;
gli operatori, soprattutto quelli che vivono un rapporto di vicinanza e quotidianità
con queste persone, sperimentano la fatica e il rischio di coinvolgimenti
troppo diretti e intensi nelle loro problematiche e modalità relazionali disturbate.
Così, il progetto condiviso, che si attua con forti connessioni, permette ai
singoli operatori di non essere troppo soli, troppo esposti alle sofferenze e alle
difficoltà dell’altro.
La cura delle connessioni di chi lavora sul singolo caso è un’altra funzione
contenitiva, un’ altra cinghia di sicurezza che si cerca di mettere intorno a queste
famiglie.
Ma non basta, perché gli interventi non sono interminabili, le risorse da utilizzare
non sono infinite e comunque sia l’obiettivo dovrebbe essere, in particolare
per chi è stato accolto in una comunità, poter rientrare nella comunità sociale, tornare a farne parte. La realtà delle comunità di accoglienza, per
minori e per mamme non è un luogo di vita ma un dispositivo per avviare e
favorire percorsi di cambiamento, dopodiché la prospettiva sanamente e saggiamente
è ritornare a casa per chi ce l’ha o costruirsi un luogo e un modo per
un nuovo progetto di vita.
L’altra emergenza che vorrei sottolineare ha proprio a che fare con le prospettive
dell’uscita, sicuramente esiste un problema rilevante per quanto riguarda
le opportunità di avere risorse concrete senza le quali non si può ricominciare
il proprio progetto di vita, la casa, un lavoro…ma più che segnalarlo e prenderne
atto non posso fare, mi preme invece sottolineare, come la criticità spesso
sta nel fatto che nonostante anni di lavoro con questi nuclei, con queste
mamme in particolare, spesso i cambiamenti non sono comunque sufficienti
per una vita autonoma.
Le persone per le quali tendenzialmente si fanno progetti di percorso di comunità,
presentano tali e tante fragilità sul piano personale, compromissioni delle
capacità di provvedere a se stesse e ai propri figli, che i cambiamenti che poi
nel tempo avvengono e talvolta sono enormi, molto significativi, non sono
comunque sufficienti al raggiungimento di un buon grado di “ricomposizione”
come cita il titolo del convegno di oggi”, ricomposizione della propria storia,
della propria identità e delle competenze genitoriali.
Questo comporta che talvolta i tempi di cambiamento degli adulti non sono
adeguati ai tempi di crescita di un bambino e così ancora il bambino rischia di
divenire invisibile!
Non è tollerabile che il percorso evolutivo di un bambino avvenga per un
tempo troppo lungo in un contesto che per quanto accogliente sia, non è un
contesto naturale di vita, né che l’attesa di cambiamenti sufficienti da parte
della madre continui, seppur in un contesto protetto, ad esporlo ad una relazione
comunque insufficiente.
É difficile dopo anni che si lavora con queste donne, con un investimento
grande di fiducia e di affetto, accettare che più in là non si può andare, ridefinire
i limiti dei propri compiti per accompagnare comunque una persona alla
conclusione di un percorso e quindi ad affrontare una vera separazione, con i
timori di accompagnare qualcuno a gettarsi dall’alto senza rete!!
Non ho soluzioni da proporre, ma piuttosto segnalo la necessità a questo
riguardo, di investire in modo rilevante e precoce nei due momenti fondamentali
dell’esperienza di comunità.
Quello precedente l’inserimento, la fase in cui si devono valutare accuratamente
le potenzialità della persona, la portata delle sue sofferenze interne, le
capacità di mettere in atto dei cambiamenti, per essere in grado di fare delle
valutazioni prognostiche, per avere elementi fondati su quali e quante possibilità ci sono che un investimento su quella madre possa comportare per il suo
bambino, di avere in tempi ragionevoli, una madre sufficientemente capace di
prendersi cura di lui.
In questo senso, come si è fortemente evidenziato nel gruppo di lavoro interservizi
sulla presa in carico di queste donne, è necessaria un’attivazione forte
e precoce di interventi per conoscere la madre e le sue relazioni familiari e di
approfondimenti diagnostici sullo stato del bambino e sulle sue risorse interne.
Così si può verificare l’opportunità di avviare progetti di così ampia portata,
destinati inevitabilmente ad una lunga durata nel tempo e con il rischio che
si trasformino poi in una presa in carico assistenziale, di cui è difficile vedere
la fine.
L’altra fase importante e che costituisce ad oggi un emergenza da considerare,
è la conclusione di questi progetti, la necessità di arrivare a stabilire un limite,
una fine dell’esperienza, elaborando la fatica e il dispiacere del distacco, la
preoccupazione di non essere stati in grado di aver fatto abbastanza. Per chi è
carente proprio sul piano relazionale, avere l’opportunità di stare dentro un
sistema di relazioni diverso da quello attraversato nella propria storia, l’essere
accompagnato nel vivere ed elaborare un distacco importante come l’uscita
dalla comunità, è uno degli aspetti più significativi dell’esperienza stessa. In
questo senso ho parlato di relazione piuttosto che azione, si fa molto per queste
persone, tantissimo, c’è bisogno di affinare e lavorare molto sulle modalità
e i significati della relazioni con loro.
L’uscita sarà quindi possibile se, queste persone, che anche se hanno una casa
e un lavoro rischiano continuamente di perderli e di perdersi, troveranno fuori,
a proposito di cinghia di sicurezza, un tessuto sociale in grado di contenere e
trattenere i loro aspetti comunque fragili e carenti.
I servizi per quanto attrezzati, non possono assumersi in toto questo compito,
avendo quello prioritario di favorire il reinserimento, un ritorno o una prima
opportunità di integrazione.
Anche su questo territorio si pensa sempre di più e si intende investire maggiormente
per attivare e sostenere forme di sostegno ed aiuto partendo dalle
risorse della comunità sociale in senso lato, a chi, per la sua fragilità non è in
grado di vivere in piena autonomia.
L’idea delle famiglie d’appoggio, che Casa Famiglia ha fatto propria e su cui
anzi fonda in un certo senso la sua modalità di operare, rappresenta davvero
un’opportunità, una risorsa molto interessante da potenziare e sostenere.
Per molte delle famiglie di cui ci occupiamo, viene spesso spontaneo dire che
ce la farebbero se avessero intorno una serie di riferimenti molto significativi
e ravvicinati. Come dire, si può rientrare nella comunità sociale ma con garanzie
di protezione e con qualcuno che comunque, anche se in forma leggera e rispettosa, continui a prendersi cura dei bisogni infantili di questi adulti e dei
loro bambini reali.
Libero Majer – Grazie alla dott.ssa Mutalipassi che ci ha fatto entrare nello
specifico del territorio veneziano con la sua approfondita conoscenza.
Procediamo con tavola rotonda che sarà moderata sempre dalla dott.ssa
Mutalipassi nel corso della quale ascolteremo esperienze diverse vissute in
realtà e situazioni diverse.
Interverranno nella tavola rotonda Nicoletta De Lorenzi, presidente
dell’Associazione Mater Vitae di Lecco, Anna Del Bel Belluz, direttrice del
Consultorio S.M.Materdomini di Venezia, Lucia Trivellato, assistente sociale
del Comune di Venezia, Gioia Greifenberg, pedagogista e educatrice presso
Casa Famiglia e Patrizia Marcuzzo assistente sociale del Centro Donna Antiviolenza di Venezia.
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Staff Progettuale – Servizio Infanzia e Adolescenza del Comune di Venezia.
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