Un' esperienza in Lombardia:
Le famiglie di sostegno
Intervento della dott.sa Costanza Marzotto
Premessa
L’esperienza che presento in questo mio intervento è stata realizzata dal gruppo
degli operatori della Casa di Accoglienza “Mater Vitae” – Cascina Levada
presso Casate Nuovo (LC), progetto all’interno della quale ho il ruolo di
supervisore scientifico. Supervisore nel senso di qualcuno che al di sopra, da
una certa distanza ne segue la realizzazione cercando di proporre delle ipotesi
di lavoro, ma anche delle occasioni di riflessione a coloro che compiono l’opera.
Il progetto “Famiglie d’Appoggio” - una rete di famiglie satellite che ruota
attorno alla casa d’accoglienza che dal 1990 accoglie donne sole con bambini
- risponde a due domande precise individuate dal personale della casa e dalle
madri stesse: avere qualcuno di esterno con cui entrare in contatto durante la
permanenza all’interno della cascina, ma anche poter contare su qualcuno nel
momento in cui si tenta il reinserimento nella società.
Come sappiamo, l’uscita di casa, la separazione dal gruppo, l’avvio di una vita
autonoma dopo la nascita di un bambino rappresenta per il piccolo nucleo
familiare un passaggio fortemente critico e degno di essere accompagnato da
un’alta ritualità. All’evento critico prevedibile che è la nascita di un figlio, si
accompagnano in questi casi altri eventi critici quali l’assenza di un vincolo
coniugale significativo, la necessità di trovare un alloggio e un lavoro, spesso
in una situazione di lontananza/rottura con le famiglie d’origine
La logica del famigliare
Vediamo allora a partire da quale ipotesi teorica sulla famiglia, si è pensato di
affidare ad essa il compito di accompagnare questo piccolo nucleo monogenitoriale
nella difficile transizione verso una nuova organizzazione della vita nel
contesto sociale.
Essa svolge nei confronti dei suoi membri compiti di cura, di care, di bilanciamento
tra le generazioni; di produzione di senso; risponde ai bisogni di appartenenza
all’interno e all’esterno del gruppo famigliare; favorisce uno stato di
benessere nella comunità e crea un tessuto relazionale indispensabile per il
miglioramento della vita di ogni suo componente (G. Rossi, Lezioni di sociologia
della famiglia, Carocci, Bologna, 2001). Il fare esperienza di legami affidabili
– cioè carichi di fiducia, calore e speranza, permette una reale generatività,
per mette di recuperare anche la storia, la memoria delle vicissitudini
genealogiche.
Come si dice da noi in Toscana:”hai detto stecco!”, ovvero appare evidente la
complessità dei compiti del famigliare sia nei confronti dei suoi membri, che
nei confronti del mondo esterno: compiti a livello del dare affetto, ma anche
del dare regole, a livello del codice materno dell’accoglienza, ma anche del
codice paterno dello spingere, incoraggiare verso il proprio compimento.
La nostra ipotesi è che sia possibile implementare il benessere sociale a partire
dalla diffusione della logica propria del familiare, mettendo in circolo quello
che è il suo codice simbolico peculiare: la solidarietà, e riprodurre gli
scambi a livello sia affettivo che etico. La famiglia diventa ciò che è nella
misura in cui scambia doni gratuitamente tra i propri membri, ma anche con
gli estranei, come ad esempio offrendo servizi sotto forma di ospitalità a persone
sconosciute con cui non è legata da vincoli di parentela. L’introduzione
di questa logica della gratuità e della reciprocità - che è tipica delle relazioni
familiari - può immettere innovazione anche all’interno del ciclo perverso di
certi servizi pubblici con cui le giovani entrano in contatto. Una logica assistenzialistica
tradizionale fa immaginare prestazioni professionali offerte da
assistenti sociali pagati dallo stato, dove nulla è richiesto in cambio all’utente
e dove elevato è il rischio della cronicità, della ripetizione o della dipendenza!
Il nostro progetto, a fronte di un bisogno esplicito delle ragazze madri di avere
una rete d’accompagnamento nel momento del loro reinserimento sociale prevede
che alcune famiglie mettano a disposizione risorse affettive (compagnia,
conforto, ecc.) ed etiche (senso di responsabilità, sincerità, fedeltà) per facilitare
questo difficile passaggio, in cambio di simpatia ed affetto corrisposto
dalla giovane e dal suo bambino verso la famiglia stessa. Quello che dovrebbe
avvenire è l’offerta di un dono da parte delle famiglie d’appoggio, con la
pazienza di aspettare che la giovane riesca a ri-donare a sua volta, con i suoi
tempi e i suoi modi, nella libertà e nella spontaneità connaturata al classico
dono.
Le finalità del “Progetto famiglie d’appoggio” possono essere così formulate:
• Fornire una prestazione di beni o servizi senza garanzia di restituzione,
ovvero senza un compenso in denaro, ma anche senza una pretesa;
• Al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone, a
seconda se questo legame non sia mai esistito, abbia bisogno di essere rinforzato
e addirittura necessiti di essere costruito su rovine di rapporti negativi
vissuti dalle ragazze in questione.
Dopo alcuni anni di lavoro, si è mirato a far sperimentare a questo gruppo di
ragazze legami significativi che li potessero accompagnare nella transizione –
che bene ha detto la collega (Annalisa Davanzo, ndr) – è la difficile uscita
dalla casa comune verso un alloggio esterno, nel momento dell’inserimento
del bambino al nido, quando iniziano un lavoro.
Come scrive l’antropologo canadese Jacques Godbout, “Ogni dono è la ripetizione
della nascita, dell’arrivo della vita, un salto misterioso al di fuori di ogni
determinismo. Né ipocrita né strumentale e neppure residuale - come spesso si
sostiene oggi - l’esperienza del dono si rivela essere fondamento stesso di ogni
società, la sua stessa condizione di sopravvivenza. Esso ci collega all’imprevisto,
alla libertà, al mistero” ( cfr. Lo spirito del dono, Bollati e Boringhieri,
Torino, 2000).
L’esperienza del dono è il fondamento della nostra società, ma è altrettanto
sconosciuto, e poco praticato, privando così di un’occasione di benessere sia
chi potrebbe fare doni sia chi potrebbe riceverne. Nella pratica del dono, la
società è come condotta al di là di se stessa, così come l’individuo mette in
gioco la propria identità. Il rischio del dono, infatti, è il rischio dell’identità.
Perché si dona? Si chiede sempre Godbout. “Per collegarsi, per mettersi in
presa con la vita, per rompere la solitudine, trasmettere, appartenere a qualche
cosa”. E si sa che è l’appartenenza che produce identità. che il dono è ogni prestazione
di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di
creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone, ricordando che
nella logica del dono, non si offrono solo beni e servizi, ma anche parole,
feste, impressioni, amore, odio, vita e morte (idem).
Gli obiettivi specifici di questo progetto possono essere così riassunti:
• Incrementare la cultura del dono, dell’accoglienza e del sostegno ad una
genitorialità difficile da realizzare;
• Tessere legami tra organismi del terzo settore, ma anche risorse pubbliche
e gruppi familiari per la costruzione di una rete sociale (in analogia con
quanto recentemente costituito anche a Venezia con l’ Associazione Amici
di Casa Famiglia onlus);
• Costruire una rete amicale di famiglie per il sostegno delle madri accolte in comunità e che vivono in condizioni di isolamento e povertà relazionale
sia durante l’inserimento che dopo le dimissioni.
Sappiamo bene che a volte nella storia di queste persone se non c’è l’isolamento,
ci sono cattive compagnie, o in ogni caso al momento dell’uscita c’è paura
per le dolorose vicissitudini passate!
Il contesto
Sulla base di queste premesse abbiamo presentato per due annualità un progetto
all’interno della Legge regionale della Lombardia n° 23/1999 “Politiche
regionali per la famiglia”, finanziato per l’anno sociale 2002/2003 e
2003/2004.
Nella prima fase dell’intervento è stata compiuta un’opera di sensibilizzazione
alla popolazione locale. Qui siamo in Brianza, località a nord di Milano
dove la gente è molto lavoratrice, generosa e accogliente: in questo territorio
ci siamo dedicati a promuovere quella che chiamiamo “la cultura della solidarietà
tra famiglie”.
É stato svolto un lavoro culturale per formare la popolazione
e reperire le famiglie disponibili a conoscere la realtà delle ragazze della
Mater Vitae e a diventare un supporto per alcune di loro in fase di dimissione.
A questo scopo sono stati coinvolti sia soggetti pubblici che di terzo settore
quali le Amministrazioni comunali, i Centri di Aiuto alla Vita, i Consultori
familiari, i decanati e le Parrocchie, l’Associazione italiana genitori (AGE), la
Scuola Materna “Primavera”, il Centro Servizi Solidarietà e Volontariato del
luogo. Analogamente ci siamo anche rivolti ad altri soggetti del tessuto sociale
quali l’Associazione Famiglie per L’Accoglienza; l’Associazione Lecchese
Famiglie Affidatarie (ALFA), il Coordinamento delle comunità per minori
della Provincia di Lecco, l’Associazione “L’incontro”, l’Associazione ALEG,
ecc. nell’ipotesi che la rete delle famiglie d’appoggio non si può che allacciare
su precedenti nodi già esistenti nel territorio circostante.
Il punto di vista degli attori in gioco
Prima di realizzare questo progetto abbiamo chiesto alle ragazze - che ne
sarebbero state le “destinatarie” – qual’era la loro idea in proposito e a quali
bisogni avrebbe potuto rispondere.
All’interno di un gruppo di parola, come potremmo denominarlo secondo la
terminologia utilizzata dalla dott.ssa Annalisa Davanzo, sono emerse alcune
frasi che ben descrivono le loro attese nei confronti delle “famiglie satellite” e
le loro rappresentazioni del progetto d’appoggio:
• “Avere un punto di riferimento con cui confrontarsi anche sul quotidiano”
• “Incontrare un modello famigliare in cui sia presente anche il padre, poiché
i nostri figli non hanno la possibilità di farne esperienza quotidianamente”
• “Creare un rapporto di gratuità, nel quale per essere accettate e dove non
si debba per forza dare qualcosa in cambio “
• “Avere un aiuto, un sostegno morale, un confronto, un’amicizia;”
• “Fare un’esperienza positiva e piacevole”;
• “Incontrare qualcuno da cui imparare …”
Emerge da queste parole il tema dell’eccedenza proprio della logica del dono,
dove si riceve più di quello che si da, ovvero anche le ragazze si immaginano
di stabilire dei rapporti con queste famiglie per ricevere in cambio un aiuto, un
sostegno morale, un confronto, un’amicizia, fare un’esperienza positiva e piacevole,
incontrare anche qualcuno da cui imparare.
Analogamente all’interno del gruppo delle prime dieci famiglie d’appoggio
selezionate abbiamo provato a chiedere loro “cos’è per voi una famiglia d’appoggio?”
e così hanno risposto:
• “ É una famiglia normale che affianca la Comunità Mater Vitae, ovvero è
stato ribadito dagli interessati, che non si tratta di superman o superwomen”,
come hanno affermato anche altri relatori del Convegno odierno
• “ É una famiglia che cerca di essere presente nella Comunità stessa come
aiuto volontario”
• “ É una famiglia disponibile come ambito esterno per accogliere le madri
con i loro bambini”
• “ É una famiglia aperta, caratterizzata dalla dimensione della gratuità e
dell’ospitalità”.
Rispetto alla rappresentazione grafica che ne ha dato l’assistente sociale Paola
Fattor di Venezia, come di un’entità esterna, di un cerchio tangente il cerchio
della casa di accoglienza, per gli interessati e per noi organizzatori, il gruppo
delle famiglie d’appoggio è un cerchio che interseca la comunità, è un corpo
che in qualche modo si incastra dentro alla vita della comunità, e che al tempo
stesso ne rappresenta un luogo altro.
Consapevoli della complessità del compito di diventare “famiglia d’appoggio”
abbiamo offerto ai nuclei selezionati di partecipare ad un gruppo condotto da
uno psicologo esterno. Fin dall’inizio sono stati organizzati incontri quindicinali
di un’ora e mezza ciascuno in una sede neutrale, dove le coppie hanno
potuto ritrovarsi per parlare delle aspettative e delle paure nei confronti di questa
nuova avventura e via via che gli abbinamenti procedono possono riflettere
sull’esperienza in corso.
Le tappe del progetto
La prima fase
di questa nostra attività per creare una cultura della solidarietà tra
famiglie, è stata la programmazione di un ciclo di conferenze pubbliche, in sedi
messe a disposizione dall’ente locale, incentrate sulla funzione e la competenza
delle famiglie d’appoggio, a cui si sono iscritte 45 persone (cfr. la scheda di iscrizione);
nelle tre serate hanno preso la parola un esperto e uno o più testimoni.
In particolare la prima serata è intervenuta Costanza Marzotto su “Le famiglie
d’appoggio e lo scambio reciproco di doni”, ed ha portato la sua testimonianza
“una madre accogliente”che aveva già attuato quest’esperienza.
La seconda serata è intervenuta Maria Teresa Maiocchi su
“Madri…Bambini…e il terzo che (non) c’è” ed ha testimoniato una ragazza
madre che era stata accolta nel suo passato.
La terza serata ha tenuto una relazione Manuela Tomisich su “Come l’essere
famiglia può diventare risorsa per la comunità” a cui è seguita la testimonianza
della responsabile di un’altra casa di accoglienza in Lombardia e di un
padre di una famiglia d’appoggio della medesima comunità.
É come se fosse una catena di buone prassi che prova a riprodursi!
Gli strumenti utilizzati per avviare quell’intreccio di legami che sarebbero poi
serviti a costruire la rete d’appoggio, sono stati un questionario autocompilato
dai partecipanti alle conferenze, il passa parola e la pubblicazione di articoli
sui giornali.
Nella seconda fase
si è svolta la selezione e la formazione delle famiglie d’appoggio
con la loro partecipazione al gruppo di discussione con lo psicologo,
allo scopo di avere un luogo di incontro all’interno del quale riflettere sulle
esperienze compiute, facilitare la conoscenza e l’instaurarsi di relazioni tra i i
diversi nuclei satellite ed affinare le capacità di lettura del bisogno delle madri
ospiti della comunità.
La terza fase
ha visto una partecipazione diretta delle famiglie d’appoggio
all’interno della comunità in momenti conviviali, dove erano presenti le ragazze
con i bambini. Per costruire gli abbinamenti la nostra ipotesi prevedeva
anche di valorizzare le simpatie reciproche e di monitorare nel tempo questi
accoppiamenti, consapevoli della delicatezza del legame che si veniva costituendo
tra una certa famiglia e una precisa ragazza.
Si sono cominciati così ad ipotizzare i primi otto abbinamenti, favorendo la
conoscenza di una ragazza con la sua famiglia e oggi - a maggio del 2005 -
siamo in questa fase del lavoro, in cui alcune ragazze sono uscite dalla casa
Mater Vitae, hanno un alloggio proprio e frequentano una famiglia d’appoggio.
Il processo di abbinamento e monitoraggio prevede incontri, telefonate
ecc. e l’utilizzo di modalità specifiche di verifica.
La metodologia operativa
Coloro che dopo le conferenze hanno restituito il questionario compilato, sono
stati convocati dall’assistente sociale Silvia Albertini, la quale - utilizzando una
griglia per il colloquio e facendo riferimento alla riflessione teorica condotta in
questi anni sulla metodologia del servizio sociale (cfr. C. Marzotto, Per un’epistemologia
del servizio sociale, F. Angeli, 2000) - ha esplorato le loro motivazioni
e in particolare ha cercato di mettere a fuoco ciò che ognuno desiderava
per sé e pensava di “offrire”. Secondo la logica dello scambio reciproco di doni,
si è messo a fuoco cosa esse cercavano per se come famiglia nel dedicarsi a
quest’opera e che aspettative si erano costruite rispetto alle ragazze.
Il complesso lavoro di abbinamento infatti prevede più tappe:
a.
Uno o più colloqui con la coppia per una conoscenza reciproca e l’esplorazione
e la prefigurazione del ruolo che avrebbe potuto svolgere come
famiglia d’appoggio;
b.
Uno o più colloqui con la ragazza, per permetterle di elaborare e comunicare
le sue fantasie rispetto al futuro e al rapporto /scambio con la famiglia
d’appoggio
c.
Un incontro congiunto in cui le persone, attrici del progetto d’appoggio,
s’incontrano fisicamente alla presenza dell’operatore (anche se si erano già
frequentate nella casa Mater Vitae);
d.
La formalizzazione dell’abbinamento;
e.
Colloqui di follow-up a distanza di sei mesi e di un anno.
Oltre alla griglia per il colloquio è stata utilizzata una batteria di strumenti grafico
simbolici che non possiamo qui illustrare dettagliatamente, e per conoscere
i quali rimandiamo alla bibliografia indicata.
• La mappa di Tod, (cfr. F. Folgheraiter (2002), Teoria e metodologia del
servizio sociale- La prospettiva di rete, Angeli, Milano) particolarmente
utile per renderci conto del vuoto relazionale intorno a queste ragazze.
• Il disegno simbolico dello spazio di vita familiare (Cfr. Gilli G.et altri
(1996), Il Disegno simbolico dello spazio di vita familiare, Vita e Pensiero,
Milano) dal quale emerge la presenza /assenza di persone significative nell’universo
relazionale delle giovani e delle famiglie e misurare così le
distanze esistenti prima e dopo l’instaurarsi delle relazioni d’appoggio;
• Il Genogramma familiare (Cfr. L. Mantagano A. e Pazzagli A. (1988) Il
genogramma. Teatro di alchimie familiari, F. Angeli, Milano). L’utilizzo di
questo strumento è fondato sull’ipotesi che dietro ad ogni “caso” ci sia una
storia drammatica che ha portato la vicenda al punto in cui noi l’abbiamo
incontrata, e che solo con un lavoro di bonifica dei legami intergenerazionali
sia possibile ricostruire del nuovo.
Una prima analisi dei dati
Per concludere vi presentiamo brevemente due situazioni:
La Piccola Principessa e la Volpe
”: La vicenda di Caterina e la figlia Paola,
con un eco evidente al noto romanzo “Il Piccolo principe” di Saint Exupery.
In questa vicenda potemmo così riassumere le tappe più rilevanti:
L’addomesticamento progressivo: la signora Rossi incontra Caterina e Paola
ogni mercoledì ancora presso al Casa d’accoglienza;
Ogni tre settimane Caterina trascorre alcuni giorni in casa dei coniugi Rossi;
si condividono piccoli gesti del quotidiano come il cambiare la bambina, il
cucinare insieme, ma anche importanti avvenimenti quali l’accompagnamento
della ragazza nel lavoro di separazione dalla sua bambina quando questa ha
cominciato la scuola materna, uno dei passaggi più critici per questi soggetti.
In questo periodo la signora Rossi fa un po’ da madre a Caterina, finché un
giorno alla famiglia Rossi è permesso di conoscere Samuel il padre di Paola!
Su questo tema dell’incontro con i padri si focalizza anche una domanda dal
pubblico. Chiede una madre delle famiglie volontarie veneziane “ Siccome
noi abbiamo dei rapporti un po’ controversi con quasi tutti i padri biologici dei
bambini, come è stato vissuto da voi questo avvicinamento?”
A questo proposito la risposta operativa è svariata: alcuni padri riprendono a
frequentare il bambino in modo spontaneo o in un luogo protetto con la presenza
di un operatore, con o senza la prescrizione del giudice, oppure dopo un
po’ di tentativi scompaiono dall’orbita quotidiana della madre e del bambino.
Nel caso in particolare il padre dopo aver conosciuto la famiglia d’appoggio
l’ha rivista in alcune occasioni, ma la madre ha sempre fatto da filtro, ovvero
ha tenuto per se il legame con i famigliari d’appoggio, ha potuto parlare con
loro anche di quest’uomo.
Noi sappiamo che la funzione paterna è una questione assai complessa e questi
personaggi non escono mai dalla scena delle madri nubili e dei loro figlioli.
Rosetta in un colloquio raccontava come François, il padre naturale della
prima figlia, non frequenta la bambina, ma è “rimasto l’uomo della sua vita”
pur avendo avuto altri incontri.
Vediamo quali possono essere le modalità di presenza simbolica del padre
nella vita di queste persone. Per meglio affrontare la questione faccio riferimento
allo strumento grafico simbolico denominato genogramma, da noi
utilizzato per conoscere le ragazze. Si tratta di una specie di albero genealogico,
dove su un foglio con simboli convenzionali, si collocano i membri di più generazioni che fanno parte del corpo familiare e si tracciano le relazioni
tra loro.
Da questa rappresentazione grafica appare evidente che un bambino per crescere
ha bisogno di sentirsi all’interno di una relazione triadica e non bipolare,
di non essere un oggetto totalmente a disposizione della madre, ma di
appartenere anche ad altri e la madre a sua volta ha bisogno di essere amata
anche da altri che non solo dal figlioletto. Come diceva in una delle conferenze
preparatorie M.T Maiocchi, “c’è una buona relazione del bambino con la
madre, cioè c’è una buona funzione paterna, quando c’è un posto che il padre
tiene in modo importante non per l’assidua sua presenza, ma per il fatto che la
madre in qualche modo è distolta dall’occuparsi in maniera esclusiva del bambino”.
Nel raffigurare le famiglie d’origine, possono apparire sulla scena altri attori
importanti per la vita della ragazza e dei suoi figli, e può essere messa parola
su eventi significativi per i soggetti implicati. Sempre attraverso il disegno le
madri possono collocare i padri dei loro figli, alla giusta distanza possibile, ma
non cancellarli.
La vicinanza con la famiglia d’appoggio ed il vedere degli uomini che non picchiano,
ma che si comportano in modo variegato, permette alle ragazze che
hanno esperienze spesso drammatiche con l’altro sesso, di confrontarsi con
nuovi modelli relazionali; inoltre attraverso il racconto della loro vicenda,
possono riavvicinarsi in modo “virtuale” alle figure paterne dei loro figli, scoprire
il loro valore nella propria storia, e trasmettere ai figli il senso di appartenenza
anche ad un’altra stirpe. Senza censurare queste figure, le famiglie
d’appoggio autorizzano a nominare il padre del bambino e permettono così
alla donna di scegliere, se tornare ad abitare con lui, o “mollarlo” definitivamente,
optando per nuove modalità di rapporto con l’altro sesso.
Le vicende di queste persone sono a volte tragiche e ripetono modalità di rapporto
che le ha viste vittime di violenza nella famiglia d’origine, poi in quella
d’elezione, senza riuscire a conoscere altre modalità di relazione uomo donna.
L’incontro con “famiglie altre” all’interno delle quali è presente la fede e la
carità, può aprire nella ragazza “appoggiata” la speranza, la virtù teologale più
piccola delle tre sorelle, ma che le tiene per mano. Come scrive il grande poeta
Charles Péguy, ”la speranza non va da sé. Per sperare, bambina mia, bisogna
essere molto felici, bisogna avere ottenuto, ricevuto una grande grazia.[ …] la
speranza vede quello che sarà.”.
Lucia e il figlio Marco entrano nella rete
In questa vicenda potemmo così riassumere le tappe più rilevanti:
La formulazione di una prima richiesta: Lucia riesce a comunicare “Ho bisogno
di amici e di aiuti concreti”.
I signori Bassi le propongono “Vuoi venire in vacanza in agosto con noi?”
Qualche mese dopo Lucia chiede “Volete venire al Battesimo di Marco?”
“Volentieri!” risponde la famiglia Bassi.
E qualche mese dopo Lucia fa sapere “Mi sto trasferendo, ho bisogno di mobili”
a cui i Bassi rispondono “abbiamo trovato questo letto per te”. Potremmo
affermare che Lucia è entrata nella rete delle amicizie della famiglia Bassi
mantenendo la sua indipendenza.
Da una prima osservazione dei dati è interessante rilevare una modifica sia
nella numerosità dei personaggi che entrano nel disegno simbolico dello spazio
di vita familiare della ragazza, sia una variazione delle distanze tra i personaggi.
Inoltre dopo sei mesi dall’avvio del progetto d’appoggio, le prime ospiti “abbinate”-
nel rappresentare le proprie relazioni - hanno indicato all’interno della
Mappa di Todd o del Disegno Simbolico dello Spazio di Vita Familiare
(DSSVF) almeno un membro delle famiglie d’appoggio e contemporaneamente
le famiglie d’appoggio hanno rappresentato all’interno del loro DSSVF le
ospiti della comunità a loro assegnate.
Ciò sembra evidenziare il carattere di reciprocità nel rapporto che si è instaurato
tra le ragazze della comunità e le famiglie d’appoggio, l’apertura del proprio
mondo simbolico alla presenza dell’altro.
Da un’analisi dagli strumenti grafico simbolici quali il DSSVF è emerso che
fuori dal cerchio, molto lontano dall’ambito di vita della ragazza e del figlio,
è collocato il padre del bambino; infatti, al centro del cerchio le ragazze pongono
quasi sempre se stesse con il bambino molto vicino, a volte sovrapposto
e disegnano pochissimi personaggi.
Alcuni mesi dopo l’abbinamento e a seguito dell’evoluzione della situazione
esistenziale, queste distanze cambiano: sul versante della giovane madre si
nota un tratto grafico che indica una certa differenziazione tra la propria identità
e quella del figlio mentre il padre del bambino resta assai periferico; per
quanto riguarda la famiglia d’appoggio anch’essa inizia a collocare nel suo
spazio interno la ragazza “appoggiata” e il bambino.
Infine segnalo ulteriori iniziative promosse dall’Associazione Mater Vitae –
per meglio aiutare le ospiti e per valorizzare le competenze emerse dalle famiglie
candidate all’appoggio:
1.
il laboratorio sulla genitorialità
con tre serate di proiezione di film d’autore sui temi delle relazioni familiari a cui è seguito un dibattito guidato;
2.
i piccoli gruppi di mutuo aiuto
per papà e mamme di bambini tra 3 e 6 anni,
a sostegno della genitorialità, al sabato mattina.
A questi momenti parteciperanno sia persone ospiti della casa di accoglienza
che altri abitanti del territorio della Brianza.
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1
Costanza Marzotto, psicologa e assistente sociale, responsabile per la formazione
del Centro Studi e Ricerche sulla Famiglia dell’Università Cattolica di Milano,
docente di metodi e tecniche del servizio sociale e di teorie e tecniche della mediazione,
presso la medesima università.
Sulla casa di accoglienza “Mater Vitae” si veda l’intervento di Nicoletta De Lorenzi,
la Presidente, e il sito www.matervitae.it
Vedi capitolo successivo riferito al “Dibattito” la cui risposta qui si riporta nuovamente
per completezza dell’intervento (ndr)
C. Péguy, I misteri, Jaca Book, Milano 1978, pag. 167.
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