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 Il bucato con il "cenerone"

 I Carbonai


 

 



Il bucato con il "cenerone"
     

Il bucato si faceva nella conca, filtrando la cenere con l'acqua bollita, che formava il ranno.
Rammento bene la conca. Era enorme, murata in un angolo della cucina, nascosta da una tenda. La cucina era la stanza più grande della casa, illuminata da due finestre, una di fronte all'altra, così da poter spiare il sorgere del sole ed il suo precipitarsi dietro i monti, e dalla porta del salotto. La parte superiore, di quella porta era a vetri. Un grande vetro bianco nel mezzo e tutt'intorno quadrati di vetro più piccoli, verdi e blu, sbalzati. L'aveva realizzata così babbo, perché amava circondarsi di cose belle. Diceva "Ci aiutano a vivere meglio e qualche volta bastano per essere felici". Attraverso la porta si poteva vedere il salotto. Una piccola stanza, impiantita con ambrogette rosse e nere, lucide. Ma erano i mobili a renderlo unico e meraviglioso. Erano mobili intarsiati, tipo Maggiolini. Consistevano in una tavola allungabile, posta al centro della stanza, una vetrina, con i serviti delle grandi occasioni, una scrivania, con sopra uno strano calamaio a forma di cane in argento; cinque sedie: una per la scrivania e le altre intorno alla tavola, tutte col sedile di treccia di giunco, ognuna con un disegno diverso e assai complesso, un'opera d'arte. Alle pareti un bell'orologio a pendolo del '700, che batteva le ore e le mezz'ore e teneva la carica per quindici giorni. I ritratti ingranditi a carboncino, grandi quadri, racchiusi in belle cornici di legno, degli zii e del nonno Angelo. Gli zii erano il fratello e la sorella del babbo, morti giovanissimi. Benedetto un bersagliere bambino. Un soldatino del 1899, la cui aria baldanzosa e di sfida, non era bastata a vincere la morte, e Maria, bellissima! Tanto bella che i giovani temevano di chiederla in moglie. Fu rapita alla vita da una banale bronchite.
Infine il nonno con occhi tondi e pungenti, a mezzo tra incanto e curioso timore, come quelli di uno scoiattolino, tra i armi intricati, di rughe profonde, sul volto stanco e deluso.
Infine, c'erano altri due quadri a colori, posti ai lati della finestra.
Indicavano le varie età dell'uomo e della donna. A noi bambini piacevano moltissimo: indicavamo sulla scala della vita, il gradino che ci ospitava e seguivamo intrepidi il ciclo che sarebbe stato, di volta in volta, nostro, immaginandoci attraverso gli anni a venire. Un bel lume a campana pendeva dal centro del soffitto, quando si accendeva emanava una luce chiara e forte.Era bellissimo guardare le cose intorno e le persone, prive di ombre. Quel lume a petrolio c'era stato regalato da certi amici inglesi, per i quali babbo aveva lavorato, restando con loro a lungo, considerato come uno di famiglia. Chi capitava, voleva vederlo quel salotto, di cui si
Faceva un gran parlare.
Durante il bucato era zona franca per noi piccini, nel patto che ci comportassimo a dovere.
Per il resto la vita si svolgeva in cucina. La cucina era la stanza del nostro teatro d'opera, serviva per fare tutto. Di volta in volta si trasformava, a seconda delle necessità. Il giorno del bucato diventava piazza di mercato: c'era un gran movimento, un via vai continuo, un gran daffare. Sul fuoco vivo e scoppiettante, attaccata alla catena, veniva messa un'enorme caldaia di rame che riempivamo d'acqua. Tali faccende erano compito nostro, nella prima fase del lavoro.
Per il bucato, non bastava un giorno, era una faticaccia, e un rito che coinvolgeva tutti. Prima si bagnavano i panni, al lavatoio della gora o direttamente nel fosso, s'insaponavano ben bene, specialmente sulle macchie e nei punti dello sporco più forte. Bisognava essere in due, per portare i catini, pieni di panni pronti per la conca, dove venivano sistemati a strati e ben distesi. I più andanti e sporchi in fondo, e via via che si procedeva verso l'alto, i più leggeri e delicati.

 

Da ultimo si metteva un telo fitto e grosso, detto "cenerone". Il "cenerone" ricopriva il tutto e doveva contenere la cenere, per questo doveva essere alzato lateralmente a formare un incavo. Pertanto venivano usate alcune stecche di legno d'acero, che non macchiano, infilate all'interno, tra la parete della conca e i panni, tutt'intorno. A quelle veniva poi fissato il "cenerone".
Vi mettevano quindi la cenere, che era stata pulita dalle impurità e conservata appositamente. Alla fine di tale operazione, i bambini guardavano, mantenendosi a distanza, spesso già da dietro i vetri della porta del salotto. Il momento cruciale, era quando si doveva versare l'acqua che bolliva, sulla cenere e farla filtrare piano, un po' alla volta, perché venisse assorbita e passasse attraverso i panni rendendoli puliti e bianchissimi. Allora, le donne ci mandavano via. Non volevano avere intorno nessuno e niente. Era troppo pericoloso, dicevano, perché si poteva inciampare, e con l'acqua bollita e il fuoco non si scherza.
Ci chiudevano in salotto, girando la chiave nella serratura. Noi guardavamo, restando a turno, col naso appiccicato ai vetri della porta, il susseguirsi del lavoro. Il vapore, a poco a poco, riempiva la stanza, nascondendo nella nebbia le figure e sfumando il contorno delle cose, mentre il profumo rancido del ranno, invadeva la casa.
Ci divertivamo a scrivere, sui vetri appannati, i nostri messaggi.
Era un lavoro lungo, perché bisognava far bollire più volte l'acqua della caldaia e riempire due volte la conca, in modo che il bucato riuscisse, come si deve. La conca, sul davanti, in basso, era munita di una cannella che si apriva per fare uscire il primo ranno, quello che portava via lo sporco più grosso. Dopo si riempiva di nuovo la conca, con altra acqua e vi si lasciava il bucato a macero, tutta la notte.
La mattina dopo, di buon'ora, veniva tolto il "cenerone" e raccolto il ranno nei catini. Il ranno si usava poi per gli indumenti andanti, quelli da lavoro e i calzerotti di lana con le solette. Insomma roba grossa e grossolana, che non aveva paura di un detersivo feroce, quale era il ranno. Così aggressivo e senza pietà che faceva sanguinare le mani. La biancheria, ancora calda, veniva sciacquata ai lavatoi di pietra, nel fiume, dove l'acqua scorreva abbondante. Le donne dovevano stare in ginocchio e stropicciare i panni sopra una lastra grande, che fungeva da lavatoio. Per stare più comode, mettevano sotto i ginocchi, una balla o una vecchia giubba ripiegata, a mò di balliccio.
Il bucato veniva steso sulle siepi vive. Sull'erba dei prati. Il mondo vicino a casa sembrava una grande magica città dai tetti bianchi. Piccole case in fila, tutte uguali lungo la siepe, grandi palazzi e giardini, e ancora case, intorno, qua e là, nel prato a formare le coordinate di immaginari percorsi.
Quando la biancheria era asciutta, si ripiegava. Pochi i capi da stirare. Tutti i pezzi venivano ripiegati sulla tavola, in cucina; mamma ci passava sopra con una mano aperta, facendo pressione e tirandoli ai lati, per pareggiare i pinzi.
Poi li ripiegava, e ci diceva di guardare, per imparare. Ne faceva vari mucchi e ci ordinava di portarli sui cassettoni, nelle camere. Sarebbero rimasti lì tutta la notte, a respirare. Avremmo sentito il loro fiato, la fragranza del bucato appena fatto. Indimenticabile, conciliante di sonni, con sogni fantastici, nel profumo di buono, di quell'antico pulito, ottenuto con la cenere. Profumi ed usi, ormai perduti nei sussulti ritmati e nelle giravolte, della centrifuga delle moderne lavatrici. Certo, il progresso, libera dalla fatica e da questo punto di vista, non lascia spazio per il rimpianto, tuttavia ci toglie i ricordi e i sogni, che intessono la vita come nuvole, che amano rincorrersi e scherzare tra loro; spesso quei sogni rappresentano l'unica speranza possibile oltre le apparenze reali.

 

  Silvana Santi Montini


 

I Carbonai
     

Parlare dei carbonai e del loro lavoro, significa ricordare un mondo ormai tanto diverso da quello odierno da stentare a credere, che possa essere esistito davvero, quel tempo, se pure così relativamente vicino.
Quando, in autunno e a primavera, arrivavano i carbonai, i boschi, sull'Appennino Tosco-Romagnolo, si popolavano di voci e di suoni particolari. Cominciava un'attività tutta speciale. Un lavoro fatto di preparativi che seguivano antiche tracce, ritmi e modi nuovi ed uguali. I boschi profumavano di trinciato forte, e piccoli fuochi fumavano presenze umane. I carbonai prendevano possesso del bosco e vi restavano per mesi; spesso, a turno, vi dormivano anche la notte. Quando arrivavano, si presentavano ai "capoccia" della casa più vicina al bosco. Chiedevano di poter dormire in capanna, quando pioveva e di poter usare, qualche volta, il loro fuoco e la loro tavola, per mangiare. Arrivavano vestiti di nero, sempre dopo il tramonto. Bussavano ed erano ricevuti nella grande cucina, davanti ad un bel fuoco, dove si pattuivano gli accordi, ed erano loro ad offrire una parte della cena: una polenta gialla che mangiavamo tutti insieme, col formaggio fresco.
Portavano poche e semplici arnesi. Un corredo indispensabile di zappe, accette e pennati, una pala grande e tagliente, il rastrello e una serie di balle da carbone: grandissime. Un fastello di oggetti caricati sulle spalle, dal quale penzolavano un paiolo e una padella di rame. Gli unici utensili per cucinare. Il resto all'occorrenza, sapevano costruirselo da soli, con pezzi di legno sagomati con maestria unica, perché i carbonai erano artisti artigiani ed è grave che si sia lasciato morire questo lavoro, che manteneva viva una tradizione di alta civiltà.
In molte zone, ormai, abbiamo lasciato crescere un bosco nel bosco, tanto intrigato e disfatto da far paura, passibile di vendicative tragedie. La presenza dei carbonai, al pari di quella dei contadini, era essenziale e positiva per il territorio. Erano gli gnomi laboriosi, attenti a ripulire i fossetti, a rinnovare le docce delle sorgenti, a riparare i muretti, a mantenere efficienti i viottoli. Insieme ai taglialegna, erano gli operai del bosco, l'anima di un mondo che sapeva ancora godere della natura e rispettarla, e ancora sapeva cantare e fischiare insieme ai merli, al picchio verde, alle sdegnose ghiandaie; partiti anch'essi per zone più domestiche, perché nella desolazione e nell'abbandono non c'è vita. I carbonai costruivano, nel bosco, una capanna do frasche, scegliendo il posto più giusto, che sembrava subito anche il più bello. Riparavano le antiche carbonaie, ne costruivano di nuove vicino alle cataste di legna. Spianavano il terreno, lo rinforzavano con muretti a secco, resistenti nel tempo più del cemento armato. Costruivano gorelli per deviare l'acqua piovana, ripulivano i dintorni dalle frasche e dalle sterpaglie che intralciavano. Intanto aprivano al cielo e al sole il sottobosco, fino a presentare una piazzola abbastanza grande, dalla forma rotonda e solida, che sarebbe stata usata anche in seguito per montare la carbonaia. Montare la carbonaia per la cottura del carbone, era un lavoro complesso, quasi magico per chi stava a guardare. Un lavoro da tecnici delle costruzioni. Ogni volta era imparare e capire qualcosa di nuovo e di più vero. Ne restavamo incantati. Ci avvicinavamo guardinghi, e restavamo muti, quasi fosse possibile cogliere l'essenza incantata di un avvenimento d'eccezione.
Intanto potevamo abbracciare il cielo, attraverso il bosco tagliato. Quell'azzurro profondo, dava il capogiro, gli occhi spostavano su e giù, nella leggerezza dell'aria, trasparente di luce.
Miraggio di qualcosa di inafferrabile, un presentimento che affondava lontano e non si poteva seguire. Seguivamo invece, quel lavoro, li cercavamo e stavamo per ore con i carbonai. Personaggi pazienti, bravi. Creature senza età, quasi fuori dal mondo, eppure così veri! Affascinava quel loro saper tutto, con semplici attrezzi da nulla. Quel mantenersi a distanza, scontrosi e rustici, come vecchie ceppe nodose, quel sentirsi padroni incontrastati della situazione.

 

Il loro modo di fischiare vecchi motivi, quasi a trovare un ritmo alle scansioni del tempo, dell'opera stessa.
Sembrava semplice ma non lo era. Il carbonaio cominciava col costruire al centro della piazza, un camino. Sceglieva i pezzi di legna più lunghi, spesso li tagliava, appositamente , lui stesso. Li piantava ritti, in cerchio, l'uno vicino all'altro, come a formare un tubo. Quello sarebbe stato il perno, la "pietra d'angolo", della costruzione della carbonaia. Appoggiava poi, tutt'intorno, a questo primo fulcro, i pezzi di legna; "randelli, matteri e pezzi di catasta", alternandoli e aggiustandoli, secondo la forma e la grossezza. Formava così, una specie di intelaiatura, il disegno sul quale costruire il progetto. Ogni fila di legni veniva appoggiata, in parte sulla precedente, allargandosi ed allungandosi un po' in fuori, a cominciare dal centro. E mantenendo sempre, la disposizione in pendenza. Era come fa seguire ai "matteri" le giravolte di una chiocciola, era trovare il posto adatto, al pezzo, che di volta in volta, si presentava.
Era costruire un mosaico, un intarsio monumentale alla perizia umana. Erano i gironi dell'inferno, che sarebbero andati a fuoco. Ora il cumulo di legna, doveva essere ricoperto da un mantello di pezzi di terra.
Con la pala grande e tagliente, sbucciavano il tappeto del bosco, formando larghe fette di erba e terra insieme, "le piote", con le quali ricoprivano la legna. Le piote venivano battute, pressate bene, per non lasciare spiragli d'aria.
Ripensandoci ora, la carbonaia così finita, assumeva l'aspetto di un'antica tomba etrusca e ne emanava tutto il mistero ed il fascino. Raramente abbiamo potuto assistere al momento del fuoco. Era sbalorditivo! Sembrava di toccare l'inferno, una magia streghesca, qualcosa di terribile e affascinante insieme, si materializzava davanti ai nostri occhi, ci incatenava lì, a vedere, e nello stesso tempo a non vedere. Accendevano, da una parte, un fuoco di legna fine, che facesse fiamma e brace viva. Attizzavano, pigiavano, rigiravano quel fuoco, con un "forcone" di legno verde e quando era al culmine, nel momento più ardente e stizzito, lo rovesciavano a palate nella bocca del camino. Era la miccia che dava inizio alla combustione. La combustione durava parecchi giorni. Una settimana almeno. La carbonaia, a fuoco, restava sotto il controllo continuo dei carbonai, che in ogni fase ne seguivano l'andamento, con interventi appropriati. Pressavano la terra, ne aggiungevano di fresca tastavano la compattezza, tesi ad accogliere ogni minimo rumore, ogni cedimento, ogni crepa, perché la cottura è importantissima per la qualità del carbone.
Infatti, le carbonaie dei nostri boschi, sono formate da legna di piante diverse tra loro, quindi da una miscela complessa di sostanze differenti; la legna deve essere, perciò, riscaldata e bruciare lentamente, in assenza, il più possibile d'aria, per poterci regalare, un carbone intero, di ottima qualità e senza fumo.
Un ammasso di carbonio, quasi puro, con minime quantità di idrogeno e sostanze inorganiche. Quelle ceneri che torneranno alla terra, nutrimento per future piante, in un ciclo perpetuo.
I carbonai lo sapevano bene. Conoscevano il momento giusto: quando come e dove praticare i buchi, col "punzone di pertica", sulla crosta rinsecchita. Allora, il fumo usciva dritto, impetuoso, formando grossi canapi bianchi, colonne doriche che sembravano unire la terra al cielo. Poi cominciava il singhiozzo, il fumo usciva a fiotti sempre più rade, e finiva.
Il cumulo si afflosciava, adagiato sul terreno e in riposo attendeva. Con abilità, i carbonai, smantellavano la montagnola, per mostrare il carbone. Ancora una somma di gesti conseguenti e precisi.
Mucchi di carbone, secondo la grossezza e la lunghezza dei pezzi. Si riempivano le balle e si praticava una chiusura a grata, con stroppe di legno, rigirate intorno ai quattro angoli dell'imboccatura. L'ultimo capolavoro. Degna rifinitura di un progetto concluso.

 

 Silvana Santi Montini