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fotografo in Livorno |
Calzoni corti e scarpe con i chiodidi Giancarlo Barsotti | |||
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olo pochi lampi di memoria del lontano 1943. Io, mia mamma e mio fratello vedevamo da Montenero la città che prendeva fuoco sotto i bombardamenti aerei. Perché Montenero? Cercavamo un posto dove sfollare senza trovarlo. E così, dopo un lungo viaggio in corriera mi sono ritrovato, non so come, in una specie di chiesa di un piccolo paese di campagna. C'era un frate che parlava con la mia mamma, poi una stanza triste, scura, un letto, un panchetto che poi era un inginocchiatoio, un crocifisso appeso alla parete. Solo qualche anno dopo ho saputo che quella era la casa del pievano di Chianni. Dopo aver dormito in quella stanza buia, al mattino siamo andati a trovare una famiglia che probabilmente, con le parole del pievano, ci avrebbe ospitato. Ricordo una lunga salita tra case e orti, una volta che sovrastava la strada, e l'attesa: io e mio fratello seduti su uno scalino e un uomo con un braccio solo che prima di entrare in casa ci saluta. Portava in un paniere un frutto a me sconosciuto: nespole, gialle e saporite. Avevo tre anni e questo è tutto quello che ricordo di quel periodo. La casa era enorme. A noi
fu offerta una camera della soffitta, prima del granaio. Era
una piccola stanza dove a malapena entrava un letto e un armadio.
Una finestra luminosissima si affacciava su un'immensa distesa
di campagna.
In
inverno il posto dove maggiormente stavamo era la cucina, spaziosissima
e con un grande focolare ai lati del quale stavano due panche
con tre comodi posti ciascuna. Il camino dove ardevano i ciocchi
di legno era rialzato di almeno mezzo metro. Era molto scuro
a causa della nera fuliggine e sopra il fuoco, per mezzo di un
gancio che cadeva dall'alto, era appeso un paiolo di rame sempre
con dell'acqua dentro. |
La Befana Era veramente questa la festa
di tutti i bambini: a quel tempo non c'era Babbo Natale e la
Befana non portava solo dolci, ma anche giocattoli. Nel piccolo
paese era sentita in modo particolare perché oltre ai
bambini coinvolgeva anche molti grandi che si vestivano da vecchietta
cenciosa. Quel giorno ci svegliammo che il paese era ricoperto
da un candido strato di neve. Una grande festa per ogni bambino.
Nella stradina che andava all'orto, mio fratello, insieme ai
figli di Mena e Tonino (Cecchino e Dino), mentre io stavo a guardare,
costruivano per me il più grande pupazzo di neve che avessi
mai visto. Non gli mancava niente, dal naso fatto con una carota
agli occhiali, la pipa, i bottoni. |
Le serate della festa di Natale intorno al fuoco In occasione del Natale la sera dopocena era festa nella festa. Ci riunivamo in cucina intorno al fuoco scoppiettante insieme ad altri amici che venivano da fuori per trascorrere una serata di giochi e di allegria. Più che altro si trattava di giochi di carte, tra i quali il famoso "sette e mezzo", anche se a me piaceva di più "l'uomo nero" , che però ora non ricordo neppure come veniva giocato. C'era una grande tavola e tutti, ospiti e non, si sedevano attorno, io naturalmente in collo a mia mamma. Non era tanto il gioco che a me piaceva, ma le penitenze che dovevano subire le varie persone a cui rimaneva in mano il "temuto" uomo nero. Me ne ricordo una in particolare: si prendeva un piatto e si riempiva con una cupola di farina bianca dentro la quale veniva posta una moneta. Chi faceva penitenza doveva cercare la moneta con la bocca nel cumulo di farina. Ma non era tutto qui, perché mentre eravamo tutti intorno ad osservare il povero disgraziato tra grida e risa, all'improvviso un gran polverone di farina si alzava tra noi perché il solito Tonino sbatteva la mano buona sul cumulo. Altre serate giocavamo a tombola oppure a domino sempre con finali scoppiettanti che finivano tra scherzi e risate generali. |
L'orto Sotto casa, attraverso un cancelletto in lamiera che era sempre chiuso con un lucchetto, si andava verso l'orto. Prima c'era il castro inevitabilmente puzzolente, dove vivevano un paio di maiali lardosi e rosa che grugnendo si rigiravano nel fieno misto a letame. Su una grossa pietra incavata, la pila, veniva rovesciato il pastone, fatto di semola e resti dei nostri pasti. Scendendo per una ripida e sconnessa scaletta si giungeva nel pollaio. In un certo periodo veniva sempre incontro un grosso gallo che cercava di aggredire chiunque passava, tanto che eravamo costretti a tenerlo a distanza con un bastone. Una quindicina di galline gironzolavano beccando tra la pollina, mentre in un piccolo recinto a parte, una chioccia si spostava qua e là con tanti pulcini pigolanti che seguivano ogni sua mossa. In un altro angolo sopraelevati da terra come palafitte, i gabbioni dei conigli, sempre con il naso in movimento appena vedevano un po' d'erba. Da un'altra porticina di rete si entrava nell'orto. Oltre ai filari di cavoli, cipolle, carote, insalata, carciofi, fagiolini, una parte era adibita ai fiori. Mena ne era appassionata e quando era stagione, rose, dalie e gladioli riempivano l'aria di colori. In fondo c'era un pozzo che a me faceva un po' di paura. L'acqua era tirata su con un secchio legato ad una catena che passava attraverso una carrucola, serviva per innaffiare l'orto e per dare da bere agli animali. Sulla sinistra dell'orto c'era un casolare molto alto, dove alloggiavano due grossi buoi bianchi. La stalla era divisa in tre parti: la superiore per essiccare il fieno, a metà stavano le bestie e sotto, attraverso una botola, il concime. Secondo le stagioni, l'orto dava anche dei frutti, c'era il nespolo, due o tre tipi di susini, il ciliegio, il noce, il fico ed il caco. Quando avevo circa sei anni mi piaceva montare sul fico e mangiare i frutti con una bella fetta di pane. |
Il forno Adiacente alla cucina alla destra del camino, scendendo due scalini, si entrava in una stanza con una finestrina alta, vicino al soffitto. Nella parete opposta alla finestra c'era il forno e alla sinistra del forno la legna. Almeno una o due volte il mese il forno era acceso ed era il momento di fare il pane. Mena, ritta su di un panchetto perché era un po' piccola, cominciava a mantrugiare la farina dentro una madia ed a poco a poco si formava una grossa palla. Da questa venivano tagliati vari pezzi, messi poi su una lunga tavola, dove per circa un'ora lievitavano. Venivano poi infornati con una pala molto sottile. Pian piano il profumo del pane cotto riempiva tutta la casa. Un pane che a me piaceva in modo particolare era il "tortino" (praticamente la schiacciata). Poi un pane che veniva cotto solo in occasione della Pasqua e in questo caso si trattava di un impasto di farina, uova, pioli, uvetta. |
Polli, conigli e piccioni Era la "festa del gatto" quando veniva deciso di mangiare uno di questi animali. L'uccisione avveniva sempre nella stanza del forno. Per polli e piccioni la cosa era semplice: Tonino con il monchino teneva il pollo e con la mano buona gli tirava il collo. Fatto questo spettava a Mena, seduta su una piccola sedia con un grande grembiule sulle gambe, il compito di spennarlo. Le piume di piccioni e polli venivano messe da parte per farne poi dei cuscini. Per i conigli la cosa era più complicata. L'animale veniva preso per le zampe posteriori e messo a capo in giù. Poi un forte pugno tra capo e collo metteva fine al povero coniglio. A questo punto sempre in quella posizione, una persona lo teneva per le zampe e Mena cominciava a spellarlo tra il grande miagolio del gatto che aspettava la sua parte di interiora. Le pelli dei conigli venivano portate in soffitta dove seccavano in attesa del cenciaio che le comprava insieme a ferrovecchio e ad altre cose di cui le persone si disfacevano. |
Il primo amore Come ho detto la casa era
situata in cima al paese e il posto si chiamava Poggiarello.
Dopo una salita di circa centocinquanta metri la strada con case
e cortili da entrambi i lati, passava sotto una "volta",
sopra a questa era situata la casa. La camera dove dormivo io
con i miei rimaneva proprio sopra la volta e dalla finestra si
vedeva tutta la strada fino in fondo alla discesa. Non c'erano
auto e solo ogni tanto passava qualche barroccio e qualche asino
col basto pieno di legna da bruciare. Io ero libero di giocare
per strada e tra i vari bambini con cui avevo rapporti di gioco,
c'era anche Loredana. Con lei stavo molto volentieri tanto che
a poco a poco è arrivato il "primo amore". Il
gioco del dottore con la paziente, marito e moglie, qualche bacetto
di sfuggita ed anche lei era cotta di me. Quando per le vacanze
arrivavo al paese non vedevo l'ora di incontrarla e se lei tardava
per qualche ragione le vacanze (abitava a Pisa), io stavo male. |
Cincirimpolla, Quadrello, Tappini e Palline Già allora esistevano
le figurine Panini, con i ragazzi facevano gli scambi, ma quello
che più mi divertiva era giocarci. Si teneva delle figurine
tra palmo e palmo, poi si alzava rapidamente una mano gridando:
"cincirimpolla quanto c'è nella polla?". L'avversario
doveva indovinare il numero delle figurine. Se diceva il numero
esatto prendeva tutto, se invece sbagliava pagava la differenza,
naturalmente in figurine. |
Le bande I ragazzi della mia età
erano molti e spesso ci riunivamo in piccoli gruppi, o meglio
in vere e proprie bande. Il paese era diviso in tre parti: BORGO
che si trovava nella parte bassa, PIAZZA nel centro, POGGIARELLO,
dove abitavo io, in alto. Stranamente io mi ero fatto amico dei
ragazzi di piazza e questo comportò dei problemi con i
ragazzi del Poggiarello. La banda era formata da me (il livornese,
nome di battaglia: piccolo sceriffo), Giuliano che aveva un anno
più di me (il babbo era capo dell'ufficio postale), Gabriele
il più piccolo, figlio del maestro, Africo (Tex) che si
chiamava così perché il babbo aveva fatto la guerra
d'Africa, Fernando che ormai abitava a Livorno ma veniva spesso
dai nonni che avevano una piccola osteria a Chianni, Fernando
che lavorava con il babbo falegname, e Paolo Mariotti (Buffalo
Bill), i cui genitori erano padroni di un grande orto dove noi
ci riunivamo per le nostre strategie e i nostri giochi. |