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fotografo in Livorno

 


Calzoni corti e scarpe con i chiodidi Giancarlo Barsotti
I parte
Prologo
La Befana
Le serate nella festa di Natale intorno al fuoco
L'orto
Il forno
Polli, conigli e piccioni
Il primo amore
Cirimpolla, Quadrello, Tappini e Palline
Le bande
III parte
I Robin Hood
Carretti di legno e botti
La Chiesa
Pasqua
La grande festa della mietitura e della trebbiatura
Il campo di calcio
La carabina
Zemmira
II parte
Colazioni e merende
La palla di cencio
La conca
I lavatoi
Casa Ferrini
La corriera e i fumetti
Giuliano
Il botro
Il cinema
Alfonsino di Mezzanotte
IV parte
La pineta di Rivalto
La fiera
La vendemmia
La prima Comunione
La Sterza
Lucia
La più bella
Franco
I bar
Epilogo
   

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olo pochi lampi di memoria del lontano 1943. Io, mia mamma e mio fratello vedevamo da Montenero la città che prendeva fuoco sotto i bombardamenti aerei. Perché Montenero? Cercavamo un posto dove sfollare senza trovarlo. E così, dopo un lungo viaggio in corriera mi sono ritrovato, non so come, in una specie di chiesa di un piccolo paese di campagna. C'era un frate che parlava con la mia mamma, poi una stanza triste, scura, un letto, un panchetto che poi era un inginocchiatoio, un crocifisso appeso alla parete.

Solo qualche anno dopo ho saputo che quella era la casa del pievano di Chianni. Dopo aver dormito in quella stanza buia, al mattino siamo andati a trovare una famiglia che probabilmente, con le parole del pievano, ci avrebbe ospitato. Ricordo una lunga salita tra case e orti, una volta che sovrastava la strada, e l'attesa: io e mio fratello seduti su uno scalino e un uomo con un braccio solo che prima di entrare in casa ci saluta. Portava in un paniere un frutto a me sconosciuto: nespole, gialle e saporite. Avevo tre anni e questo è tutto quello che ricordo di quel periodo.

La casa era enorme. A noi fu offerta una camera della soffitta, prima del granaio. Era una piccola stanza dove a malapena entrava un letto e un armadio. Una finestra luminosissima si affacciava su un'immensa distesa di campagna.
Mia mamma preparava da mangiare in fondo alla scala che portava alla cameretta. Di solito c'era un piccolo fornello con il carbone ed una pentola che bolliva ed io che sguinzagliavo sempre di corsa tra le scale e la piccola stanza. Improvvisamente, una volta, sentii un rumore ed un gran calore su tutto il corpo: la pentola d'acqua bollente mi era caduta addosso. Ricordo allora una donna, la padrona di casa, che prima mi tolse ogni vestito, quindi spalmandomi tutto d'olio mi ficcò dentro una madia piena di farina. Dice sembrassi un pesce da friggere.


Chianni è un piccolo paese situato in collina e mentre le bombe continuavano a colpire Livorno, noi c'eravamo trovati come si suol dire "dalla padella alla brace". Infatti avevamo i tedeschi che cannoneggiavano da una parte e gli americani dall'altra. La nostra casa fu colpita tre volte tra cui anche la nostra camera . Un giorno un proiettile trapassò parte a parte l'armadio senza spaccare lo specchio. Per quest'episodio e perché ormai eravamo in amicizia con la famiglia che ci ospitava, scendemmo in una camera in basso e cominciammo a mangiare insieme. Pian piano diventammo come parenti tanto che io li chiamavo zio e zia. La guerra continuava e le famigerate SS fecero il loro passaggio nel paese, tanto che fummo costretti per ben tre volte a scappare. Una volta ci rifugiammo nel bottaio sotto casa, una seconda volta passammo ben tre notti in una stalla con un ciuco che si chiamava Dottore, un maiale e vari polli che circolavano nel fienile. La terza volta scappammo in mezzo alla campagna.
La vera padrona della casa dove abitavamo era una vecchia signora, un po' grossa, che camminava pochissimo ed era sempre tutta vestita di nero. Per scappare in campagna, dove fu improntato una specie di dormitorio a ridosso di un argine, la vecchia signora fu distesa su di una scala di legno a pioli che fungeva da lettiga. Infine ricordo di un rastrellamento che i militari tedeschi attuarono in paese: dovevano fare prigionieri da utilizzare per posare o sminare le bombe. Cercavano gli uomini e mio padre si salvò perché fu fatto nascondere sul tetto della casa. Tonino invece fu risparmiato perché mutilato a un braccio.

[ Giancarlo con la mamma ed il fratello, Armando ]In inverno il posto dove maggiormente stavamo era la cucina, spaziosissima e con un grande focolare ai lati del quale stavano due panche con tre comodi posti ciascuna. Il camino dove ardevano i ciocchi di legno era rialzato di almeno mezzo metro. Era molto scuro a causa della nera fuliggine e sopra il fuoco, per mezzo di un gancio che cadeva dall'alto, era appeso un paiolo di rame sempre con dell'acqua dentro.
Naturalmente il resto della casa era senza riscaldamento, che veniva surrogato con dei caldani d'argilla cotta riempiti di brace. Alla sera si ripeteva il rito del focolare: ci ritrovavamo tutti intorno al caminetto ed alcune volte si intrattenevano anche altre persone o altri parenti che venivano a trovarci. Era la televisione dei giorni nostri e invece di stare in silenzio si parlava molto: fatti della giornata, il lavoro nei campi, barzellette, e quello che mi interessava di più, le novelle che raccontava Tonino. Ne sapeva moltissime ed io ero incantato anche se dopo un po' le conoscevo già tutte e volevo che me ne raccontasse di nuove. Era un tipo molto scherzoso e a volte anche dispettoso, ma io gli voleva molto bene.
Quando si avvicinava l'ora di andare a letto venivano preparati i caldani con la brace e messi dentro i letti appesi o con il trabiccolo o con il prete: aggeggi strani , fatti in legno, che venivano sistemati sotto le coperte e che erano tolti al momento di andare a letto. E la maggior parte delle volte, a causa dell'umidità, con il caldo emanavano un gran vapore. I letti erano alti da terra, avevano le spalliere in ferro battuto, al posto delle reti, delle tavole e i materassi, erano riempiti con le foglie delle pannocchie di granoturco seccate, che facevano molto rumore ogni volta che uno si girava. Non so quanto siamo rimasti sfollati a Chianni perché data l'amicizia che era nata tra la mia famiglia e quella che ci ospitava, anche finita la guerra ritornavamo ogni anno; vacanze di Natale, vacanze di Pasqua e vacanze scolastiche. Non so quindi essere troppo preciso nella catalogazione cronologica degli avvenimenti della mia prima giovinezza.


 

La Befana

Era veramente questa la festa di tutti i bambini: a quel tempo non c'era Babbo Natale e la Befana non portava solo dolci, ma anche giocattoli. Nel piccolo paese era sentita in modo particolare perché oltre ai bambini coinvolgeva anche molti grandi che si vestivano da vecchietta cenciosa. Quel giorno ci svegliammo che il paese era ricoperto da un candido strato di neve. Una grande festa per ogni bambino. Nella stradina che andava all'orto, mio fratello, insieme ai figli di Mena e Tonino (Cecchino e Dino), mentre io stavo a guardare, costruivano per me il più grande pupazzo di neve che avessi mai visto. Non gli mancava niente, dal naso fatto con una carota agli occhiali, la pipa, i bottoni.
[ Mena Tonino Dino Cecchino ]Poi ci fu la battaglia a pallate ed io finii col piangere rifugiandomi da mamma che rimproverava gli altri. Nel tardo pomeriggio in mezzo alla neve bianca, illuminata da un lampione, vidi la famosa vecchietta con un grande sacco sulle spalle che teneva con una corda addirittura un ciuco (non era altro che il Dottore prestato per l'occasione), mentre la vecchietta, senza che io la riconoscessi, era sempre lui: Tonino. Dopo aver legato il vecchio ciuco ad una campanella vicino al portone, la vecchietta fu fatta salire in casa; ansante e con un grosso naso da ubriaca cercava di avvicinarsi a me che me la facevo addosso dalla paura. Ma l'interesse per i giocattoli era più grande e alla fine accettai i suoi complimenti, le sue carezze e i suoi bacini. Francamente non ricordo i regali che ricevetti in quell'occasione, ma quei momenti sono rimasti ancorati dentro di me. Un altro anno la befana (sempre Tonino) si calò addirittura attraverso la cappa del camino, il fuoco naturalmente era spento ma la fuliggine l'aveva fatto completamente nero. L'effetto, per me, aggrappato a mia mamma dalla paura, fu straordinario.


Le serate della festa di Natale intorno al fuoco

In occasione del Natale la sera dopocena era festa nella festa. Ci riunivamo in cucina [ Babbo Mamma Armando ]intorno al fuoco scoppiettante insieme ad altri amici che venivano da fuori per trascorrere una serata di giochi e di allegria. Più che altro si trattava di giochi di carte, tra i quali il famoso "sette e mezzo", anche se a me piaceva di più "l'uomo nero" , che però ora non ricordo neppure come veniva giocato. C'era una grande tavola e tutti, ospiti e non, si sedevano attorno, io naturalmente in collo a mia mamma. Non era tanto il gioco che a me piaceva, ma le penitenze che dovevano subire le varie persone a cui rimaneva in mano il "temuto" uomo nero. Me ne ricordo una in particolare: si prendeva un piatto e si riempiva con una cupola di farina bianca dentro la quale veniva posta una moneta. Chi faceva penitenza doveva cercare la moneta con la bocca nel cumulo di farina. Ma non era tutto qui, perché mentre eravamo tutti intorno ad osservare il povero disgraziato tra grida e risa, all'improvviso un gran polverone di farina si alzava tra noi perché il solito Tonino sbatteva la mano buona sul cumulo. Altre serate giocavamo a tombola oppure a domino sempre con finali scoppiettanti che finivano tra scherzi e risate generali.


 

L'orto

Sotto casa, attraverso un cancelletto in lamiera che era sempre chiuso con un lucchetto, si andava verso l'orto. Prima c'era il castro inevitabilmente puzzolente, dove vivevano un paio di maiali lardosi e rosa che grugnendo si rigiravano nel fieno misto a letame. Su una grossa pietra incavata, la pila, veniva rovesciato il pastone, fatto di semola e resti dei nostri pasti. Scendendo per una ripida e sconnessa scaletta si giungeva nel pollaio. In un certo periodo veniva sempre incontro un grosso gallo che cercava di aggredire chiunque passava, tanto che eravamo costretti a tenerlo a distanza con un bastone. Una quindicina di galline gironzolavano beccando tra la pollina, mentre in un piccolo recinto a parte, una chioccia si spostava qua e là con tanti pulcini pigolanti che seguivano ogni sua mossa. In un altro angolo sopraelevati da terra come palafitte, i gabbioni dei conigli, sempre con il naso in movimento appena vedevano un po' d'erba. Da un'altra porticina di rete si entrava nell'orto. Oltre ai filari di cavoli, cipolle, carote, insalata, carciofi, fagiolini, una parte era adibita ai fiori. Mena ne era appassionata e quando era stagione, rose, dalie e gladioli riempivano l'aria di colori. In fondo c'era un pozzo che a me faceva un po' di paura. L'acqua era tirata su con un secchio legato ad una catena che passava attraverso una carrucola, serviva per innaffiare l'orto e per dare da bere agli animali.

Sulla sinistra dell'orto c'era un casolare molto alto, dove alloggiavano due grossi buoi bianchi. La stalla era divisa in tre parti: la superiore per essiccare il fieno, a metà stavano le bestie e sotto, attraverso una botola, il concime. Secondo le stagioni, l'orto dava anche dei frutti, c'era il nespolo, due o tre tipi di susini, il ciliegio, il noce, il fico ed il caco. Quando avevo circa sei anni mi piaceva montare sul fico e mangiare i frutti con una bella fetta di pane.


 

Il forno

Adiacente alla cucina alla destra del camino, scendendo due scalini, si entrava in una stanza con una finestrina alta, vicino al soffitto. Nella parete opposta alla finestra c'era il forno e alla sinistra del forno la legna. Almeno una o due volte il mese il forno era acceso ed era il momento di fare il pane. Mena, ritta su di un panchetto perché era un po' piccola, cominciava a mantrugiare la farina dentro una madia ed a poco a poco si formava una grossa palla. Da questa venivano tagliati vari pezzi, messi poi su una lunga tavola, dove per circa un'ora lievitavano. Venivano poi infornati con una pala molto sottile. Pian piano il profumo del pane cotto riempiva tutta la casa. Un pane che a me piaceva in modo particolare era il "tortino" (praticamente la schiacciata). Poi un pane che veniva cotto solo in occasione della Pasqua e in questo caso si trattava di un impasto di farina, uova, pioli, uvetta.


 

Polli, conigli e piccioni

Era la "festa del gatto" quando veniva deciso di mangiare uno di questi animali. L'uccisione avveniva sempre nella stanza del forno. Per polli e piccioni la cosa era semplice: Tonino con il monchino teneva il pollo e con la mano buona gli tirava il collo. Fatto questo spettava a Mena, seduta su una piccola sedia con un grande grembiule sulle gambe, il compito di spennarlo. Le piume di piccioni e polli venivano messe da parte per farne poi dei cuscini. Per i conigli la cosa era più complicata. L'animale veniva preso per le zampe posteriori e messo a capo in giù. Poi un forte pugno tra capo e collo metteva fine al povero coniglio. A questo punto sempre in quella posizione, una persona lo teneva per le zampe e Mena cominciava a spellarlo tra il grande miagolio del gatto che aspettava la sua parte di interiora. Le pelli dei conigli venivano portate in soffitta dove seccavano in attesa del cenciaio che le comprava insieme a ferrovecchio e ad altre cose di cui le persone si disfacevano.


 

Il primo amore

Come ho detto la casa era situata in cima al paese e il posto si chiamava Poggiarello. Dopo una salita di circa centocinquanta metri la strada con case e cortili da entrambi i lati, passava sotto una "volta", sopra a questa era situata la casa. La camera dove dormivo io con i miei rimaneva proprio sopra la volta e dalla finestra si vedeva tutta la strada fino in fondo alla discesa. Non c'erano auto e solo ogni tanto passava qualche barroccio e qualche asino col basto pieno di legna da bruciare. Io ero libero di giocare per strada e tra i vari bambini con cui avevo rapporti di gioco, c'era anche Loredana. Con lei stavo molto volentieri tanto che a poco a poco è arrivato il "primo amore". Il gioco del dottore con la paziente, marito e moglie, qualche bacetto di sfuggita ed anche lei era cotta di me. Quando per le vacanze arrivavo al paese non vedevo l'ora di incontrarla e se lei tardava per qualche ragione le vacanze (abitava a Pisa), io stavo male.
Al mattino, appena sveglio, scendevo dal letto e in mutande e canottiera mi mettevo alla finestra in attesa di vederla arrivare. Questo amore è durato a lungo, diciamo fino a nove-dieci anni, ma col tempo ci vedevamo sempre più di rado. Poi le morì la mamma e quando veniva per le vacanze andò ad abitare con uno zio in fondo alla salita in una stanzetta nella soffitta . Passavo spesso di là sotto, Gino Paoli cantava "La gatta" che parlava proprio di una soffitta e una finestrina, io ero sempre più innamorato, ma forse lei no. E tutto finì.


 

Cincirimpolla, Quadrello, Tappini e Palline

Già allora esistevano le figurine Panini, con i ragazzi facevano gli scambi, ma quello che più mi divertiva era giocarci. Si teneva delle figurine tra palmo e palmo, poi si alzava rapidamente una mano gridando: "cincirimpolla quanto c'è nella polla?". L'avversario doveva indovinare il numero delle figurine. Se diceva il numero esatto prendeva tutto, se invece sbagliava pagava la differenza, naturalmente in figurine.
Subito dopo la guerra si trovavano ancora le vecchie monete, cinquantini, decini, ventini e mezzelire, con cui si giocava a "quadrello", "muretto" e "per ritto". Per il primo, dopo aver disegnato un quadrato in terra dovevamo cercare di centrarlo da una certa distanza, per il secondo tiravamo i soldi verso un muro e vinceva chi si avvicinava di più; per il terzo si incastravano i soldi in terra per ritto, poi da quattro o cinque metri si cercava di abbatterli. E infine c'erano le palline di creta colorate: oltre ai vari circuiti e alle normali gare, spesso mettevamo queste palline una sopra l'altra fino a formare una specie di piramide, quindi si provava a colpirle da una decina di metri con un sasso piatto. Spesso andavamo noi stessi a cercare la mota zilla, facendo personalmente le palline che seccate e pitturate sembravano quasi originali.
I circuiti con i tappini delle bibite è il gioco che in assoluto è durato più a lungo. Si disegnavano i circuiti con il gesso in mezzo alla strada e i tappini si lanciavano lungo il percorso per mezzo di "biscotti" con le dita. Dentro ogni tappino c'era il nome del corridore con tanto di maglia colorata della squadra di appartenenza. Era una specie di torneo di calcio dove si pagava in tappini l'acquisto di un dato corridore. D'inverno invece, quando il tempo non era buono e faceva freddo, giocavo in soffitta anche da solo, simulavo il Giro d'Italia o il Tour de France, con tanto di classifiche e punteggi per ogni tappa. A proposito del Tour, non essendoci ancora la televisione, ascoltavamo gli arrivi delle tappe alla radio (di chi l'aveva). Per sapere in anticipo l'arrivo delle tappe (che Radiorai diceva la sera), c'era chi, come un amico di mio fratello, si collegava con una radio francese, ma io non capivo mai niente.


 

Le bande

I ragazzi della mia età erano molti e spesso ci riunivamo in piccoli gruppi, o meglio in vere e proprie bande. Il paese era diviso in tre parti: BORGO che si trovava nella parte bassa, PIAZZA nel centro, POGGIARELLO, dove abitavo io, in alto. Stranamente io mi ero fatto amico dei ragazzi di piazza e questo comportò dei problemi con i ragazzi del Poggiarello. La banda era formata da me (il livornese, nome di battaglia: piccolo sceriffo), Giuliano che aveva un anno più di me (il babbo era capo dell'ufficio postale), Gabriele il più piccolo, figlio del maestro, Africo (Tex) che si chiamava così perché il babbo aveva fatto la guerra d'Africa, Fernando che ormai abitava a Livorno ma veniva spesso dai nonni che avevano una piccola osteria a Chianni, Fernando che lavorava con il babbo falegname, e Paolo Mariotti (Buffalo Bill), i cui genitori erano padroni di un grande orto dove noi ci riunivamo per le nostre strategie e i nostri giochi.
L'orto infatti era il nostro quartier generale, lì tenevamo le nostre armi, ci riunivamo in consiglio di guerra ed elaboravamo i piani di battaglia. Il posto chiamato semplicemente orto si estendeva ai confini del paese in campi coltivati a frumento, olivi, viti e alberi da frutto e praticamente era tutto per noi. Per entrarci c'era un cancello mezzo sgangherato sempre chiuso con un lucchetto ma noi trabarcavamo come se fosse una cosa normale. Avevamo costruito un capanno fatto di canne a ridosso di un argine, nel quale potevamo ripararci anche in caso di pioggia. Poi c'era un grande tavolo dove giocavamo a carte e dove mettevamo a punto le nostre pistole e i nostri fucili. La banda era fortunata e ben fornita: questo perché Fernando portava spesso del legno dalla falegnameria del padre per fabbricare le nostre armi. Esse infatti erano fatte di legno, venivano modellate con la sega e la raspa. Quando erano pronte applicavamo sopra la pistola un nasino (di quelli per appendere i panni) e un gommino fatto di camera d'aria di bicicletta. Con queste si lanciavano dei piccoli sassi fino a una decina di metri.
Con le fionde invece si arrivava molto più lontano. Quando ci si scontrava con altre bande la cosa diventava alquanto pericolosa e spesso si doveva ricorrere piangendo alle cure dei genitori. In mezzo ai campi eravamo liberi di fare qualsiasi cosa, non c'erano né auto né genitori: bastava ritornare a casa a l'ora di pranzo o all'imbrunire se era pomeriggio.
Un inverno che era nevicato eravamo andati nell'orto a piazzare tagliole per passerotti e merli. Faceva molto freddo, i nostri pantaloni erano inesorabilmente corti, i ginocchi lividi e marmati ma nonostante questo correvamo in mezzo ai campi coperti di neve lanciandoci pallate con i nostri baschi che tiravamo giù ricoprendo anche gli orecchi. Senza che ce ne accorgessimo ci trovammo quasi ai confini dell'orto, c'era davanti a noi un grande argine che decidemmo di saltare, l'altezza era di tre-quattro metri ed il salto poteva risultare pericoloso. Io ero un po' titubante, ma visto che alcuni di noi avevano già saltato, mi lanciai a mia volta nel vuoto e fu bellissimo; eravamo riusciti a fare qualcosa che forse nemmeno i grandi avrebbero fatto.
Oltre a pistole fucili e fionde, avevamo un'altra arma a nostra disposizione: la cerbottana. I canneti erano i nostri arsenali; le canne, pulite accuratamente con i nostri personali temperini, si portavano infilate sotto la cinghia dei pantaloni. Le munizioni provenivano da un albero di cui non so il nome, che produceva un'enorme quantità di piccole bacche simili ad acini d'uva: con questi ci riempivamo le tasche e quando ci incontravamo in battaglie ce ne riempivamo la bocca per sparare a mitraglia con la cerbottana.