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Calzoni corti e scarpe con i chiodidi Giancarlo Barsotti | |||
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Colazioni e merende La colazione del mattino e
la merenda del primo pomeriggio erano più sacre del pranzo
e della cena. Al mattino Mena che era già stata a prendere
il latte dal pastore, metteva il bricco del caffè al fuoco
e preparava la tavola con le tazze, il pane e qualche volta anche
con le "marie", dei biscotti tondi che spalmavo con
burro e marmellata fatta in casa. Alcune volte Tonino mi portava
un uovo di gallina ancora caldo che io succhiavo dal guscio appena
aperto. |
La palla di cencio Giocare a calcio non era l'ultimo dei nostri giochi, ma dopo la guerra i palloni costavano cari e allora li fabbricavamo da soli. Occorreva prima di tutto una calza da donna, non di nylon come quelle di adesso, ma invernale di lana. Veniva riempita di altri cenci fino ad ottenere un diametro di circa quindici centimetri. Poi legata con lo spago e ripiegata su sé stessa varie volte fino ad ottenere una palla abbastanza grande da poterci giocare. I nostri campi di calcio erano le strade e i prati; terra polverosa in estate e acqua e fango d'inverno. Quando tornavo a casa ero sempre in uno stato pietoso e Mena mi toglieva dalle mani di mia mamma che altrimenti me le avrebbe suonate, mi spogliava e mi immergeva in una conca di sasso piena d'acqua, naturalmente nella stanza del forno. Dopo l'insaponata e l'asciugata ero bello e pronto per una nuova partita. |
La conca Era profonda circa settanta centimetri ed oltre ad essere la vasca per il mio lavaggio personale, serviva soprattutto alla pulizia degli indumenti. Su questa veniva posta una tavola che mi sembra si chiamasse "scolatoio", dove i vari vestiti venivano insaponati e sbattuti, immersi e di nuovo insaponati. Dopo il risciacquo finale, Mena li stendeva nell'orto al sole. Un altro lavaggio che faceva la conca era il fantomatico "ranno". Non so di preciso come funzionasse: dopo aver fatto un piano di indumenti si aggiungeva un piano di cenere e così via fino al riempimento. Ai lati venivano conficcate delle canne e il ranno fermentava per qualche giorno, dopo di che i lenzuoli erano più bianchi che lavati con un detersivo di oggi. |
I lavatoi Quando c'era tanto da lavare, Mena e la mia mamma andavano al lavatoio comunale che era situato un po' fuori paese. Per riparare dal sole e dalla pioggia, la struttura era ricoperta da un tetto in lamiera ondulata. Mentre le donne lavavano io ed altri compagni giocavamo sui prati vicini. Lo sbattere dei panni sui lavatoi, il chiacchierio e i canti si confondevano con i nostri gridi di gioco e l'atmosfera era gioiosa. Per riportare il bucato a casa, le donne si costruivano una specie di turbante chiamato "ciuffalo", che appoggiato sulla testa reggeva un catino pieno di panni strizzati, poi si incamminavano verso casa con un'andatura caracollante. |
Casa Ferrini I Ferrini erano livornesi, prima sfollati come noi e poi rimasti in domicilio permanente. La famiglia era composta da marito, moglie e cinque figli. Romano, il più grande, viveva in un mondo tutto suo: era sempre in giro e attaccava discorso con tutti quelli che incontrava. Vinicio aveva l'età di mio fratello e insieme al figlio di Mena, Cecchino, ne combinava di tutti i colori. Poi c'era Fatima, una ragazzina di circa sedici anni con i capelli lunghissimi ed infine le due gemelle Farida e Licia, che avevano più o meno la mia età. Il posto dove abitavano era più uno zoo che una casa. Infatti oltre alla numerosa famiglia, ospitava un numero indefinito di animali: cani, gatti, maialini d'India, canarini, passerotti, tartarughe. L'odore che si sentiva quando si entrava era molto sgradevole, ma in compenso nella casa regnava armonia e allegria. Il marito era un ingegnere in pensione e collezionava trenini elettrici. Una o due volte l'anno, in casa di Mena che aveva una grande sala, faceva esposizione del suo parco ferroviario con montaggio di un grande plastico con case, prati, auto, ponti e passaggi livello, dove per nostro divertimento faceva sferragliare le sue locomotive e i suoi vagoni. |
La corriera e i fumetti Dalla curva del camposanto avevamo il preavviso del suo arrivo. "Peo peo peo" ululava il suo clacson: il postale stava per entrare in paese. Molte persone si radunavano in piazzetta in attesa, questo sia prima del pranzo che prima della cena. C'era chi aspettava i parenti, chi la merce, chi la posta e chi stava lì solamente per curiosità. Le persone si spostavano poi dal giornalaio per leggere le notizie fresche, si fa per dire, di quello che succedeva nel mondo. Per noi ragazzi, almeno una o due volte la settimana, voleva dire l'arrivo dei fumetti. Facevamo la fila per accaparrarci al più presto le famose "strisce". Ognuno di noi aveva il suo eroe preferito, anche perché per un solo fumetto non bastavano dieci o quindici lire, che per noi era davvero tante. "Tex" era il preferito, ma anche "L'uomo mascherato", "Il piccolo sceriffo", "Cino e Franco", "Gordon", "Mandrake e Lotar", avevano i loro buoni acquirenti. C'è chi ne faceva la collezione ma c'era anche chi dopo averli letti, li scambiava o li dava in prestito. |
Giuliano Ci chiamavamo "gli inseparabili",
perché quando cercavano l'uno o l'altro era la stessa
cosa. Aveva un anno o due più di me e naturalmente era
lui che comandava, ma era un comando che io accettavo da buon
soldato. Egli era figlio dell'ufficiale postale e come figlio
sapeva perfettamente l'alfabeto morse. Abitava in una vecchia
villa del centro del paese. Questa era recintata da un muro parecchio
alto, al lato un piccolo cancelletto quasi sempre aperto dava
accesso a un modesto cortile dove noi giocavamo spesso. Alla
sinistra c'era un pergolato dove avevamo sistemato un'amaca e
nelle giornate estive ci stavamo a leggere i nostri fumetti.
L'ingresso della villa era abbastanza imponente: c'erano due
scale laterali che salivano fino al portone e appena entrati
una grande sala con il pavimento in mattoni rossi si allungava
davanti a noi, sarà stata circa una ventina di metri di
lunghezza e una decina di larghezza. Ai lati c'erano delle cassapanche
in legno scuro e nel centro del soffitto vecchi lampadari. Sulla
sinistra c'era la cameretta di Giuliano e di suo fratello, che
aveva sei o sette anni di più. La finestra della camera
dava proprio sul cortile, tanto che a volte, quando al mattino
andavo a svegliarlo tiravo dei sassi verso la finestra. |
Il botro A lato del paese scorreva il botro, un fiumiciattolo quasi secco d'estate e torrente d'inverno. Col trascorrere degli anni, io e la mia banda avevamo allungato i nostri giri di perlustrazione e sempre più spesso le nostre mete erano proprio lungo il botro. Si riempivano barattoli di girini e pesciolini che prendevamo con le mani e a volte rimanevamo fuori casa anche due o tre ore. Un giorno, mentre discendevamo il botro tra i sassi e la vegetazione quasi selvaggia, ci trovammo in cima a una piccola cascata di cinque o sei metri. In basso formava un laghetto e in men che non si dica c'eravamo spogliati e tuffati per rinfrescarci dell'afoso agosto. Ci divertimmo un sacco schizzandoci e lottando nell'acqua quasi gelida, poi si stendemmo al sole caldo, per asciugarci e lì dopo un po', "scoprimmo" (almeno per me) i nostri sessi. Naturalmente ci confrontammo e per mezzo di un rametto eseguimmo anche delle misurazioni: io, che ero uno dei più piccoli del gruppo, ci rimasi un po' male. |
Il cinema Un avvenimento importante per la comunità fu l'avvento del cinema. In un lungo capannone di proprietà del Ricciardi, il tabaccaio, fu approntata la sala cinematografica. Una volta la settimana, generalmente sabato sera, veniva proiettato un film, spesso a puntate perché era molto lungo: una specie delle nostre telenovela televisive. Mi ricordo che andava molto Amedeo Nazzarri e Yvonne Sanson. Tutto il paese era coinvolto, dai bambini nelle carrozzine ai vecchi con le pipe puzzolenti e l'alito un po' avvinazzato. Quando era ora, le persone cominciavano ad uscire di casa portandosi dietro sedie e sgabelli, e d'inverno coperte e caldani. Poi ognuno si sedeva dove meglio vedeva e il capannone si riempiva fino all'inverosimile. A noi ragazzi toccavano i primi posti proprio davanti alla tela, ma seduti per terra. All'intervallo ci scatenavamo correndo e rinchiappandoci, cercando poi le mamme per farci dare soldi per comprare caramelle e castagne secche che sgranocchiavamo per tutta la durata del film. Finito lo spettacolo ognuno tornava a casa propria riportandosi dietro la sedia ed i più piccini che nel frattempo si erano addormentati venivano portati in collo dalla mamma. Le pellicole erano molto vecchie e spesso si bruciavano. Ecco perché i film duravano così tanto. |
Alfonsino di Mezzanotte Il suono del martello che
batteva sull'incudine era la sveglia del mattino, infatti sotto
casa lavorava il fabbro. Io mi fermavo spesso ad osservarlo e
rimanevo affascinato quando prendeva dalla tramoggia un pezzo
di ferro incandescente e cominciava a batterlo sull'incudine.
Man mano che picchiava con il martello, il pezzo prendeva forma
e dopo un po' ne usciva un ferro di cavallo pronto per essere
applicato allo zoccolo dell'animale. Anche la messa a posto del
ferro richiedeva un lavoro ben preciso; il padrone teneva la
zampa piegata all'asino mentre Alfonsino applicava il ferro inchiodandole
con dei lunghi chiodi. Quando metteva il ferro ancora caldo lo
zoccolo strideva fumando e nell'aria si diffondeva una forte
puzza di bruciato. |