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fotografo in Livorno
Calzoni corti e scarpe con i chiodidi Giancarlo Barsotti

I parte

Prologo
La Befana
Le serate nella festa di Natale intorno al fuoco
L'orto
Il forno
Polli, conigli e piccioni
Il primo amore
Cirimpolla, Quadrello, Tappini e Palline
Le bande
III parte
I Robin Hood
Carretti di legno e botti
La Chiesa
Pasqua
La grande festa della mietitura e della trebbiatura
Il campo di calcio
La carabina
Zemmira
II parte
Colazioni e merende
La palla di cencio
La conca
I lavatoi
Casa Ferrini
La corriera e i fumetti
Giuliano
Il botro
Il cinema
Alfonsino di Mezzanotte
IV parte
La pineta di Rivalto
La fiera
La vendemmia
La prima Comunione
La Sterza
Lucia
La più bella
Franco
I bar
Epilogo
   

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Colazioni e merende

La colazione del mattino e la merenda del primo pomeriggio erano più sacre del pranzo e della cena. Al mattino Mena che era già stata a prendere il latte dal pastore, metteva il bricco del caffè al fuoco e preparava la tavola con le tazze, il pane e qualche volta anche con le "marie", dei biscotti tondi che spalmavo con burro e marmellata fatta in casa. Alcune volte Tonino mi portava un uovo di gallina ancora caldo che io succhiavo dal guscio appena aperto.
Erano appena suonate le quattro del pomeriggio che avevo già fame per la merenda. A quel punto, se ero fuori correvo a casa, oppure ero invitato da qualche compagno. Mi attendeva una grossa fetta di pane con burro e marmellata oppure con prosciutto, altre volte ancora con frutta e quando proprio non c'era niente, pane bagnato con lo zucchero. Alcune volte quando domandavo alla mamma cosa c'era da mangiare, mi rispondeva: "pane e diatti". Io non sapevo cosa era il diatti ma piano piano ho capito che voleva dire "e anche troppo" perché in quel momento non c'era altro.


 

La palla di cencio

Giocare a calcio non era l'ultimo dei nostri giochi, ma dopo la guerra i palloni costavano cari e allora li fabbricavamo da soli. Occorreva prima di tutto una calza da donna, non di nylon come quelle di adesso, ma invernale di lana. Veniva riempita di altri cenci fino ad ottenere un diametro di circa quindici centimetri. Poi legata con lo spago e ripiegata su sé stessa varie volte fino ad ottenere una palla abbastanza grande da poterci giocare. I nostri campi di calcio erano le strade e i prati; terra polverosa in estate e acqua e fango d'inverno. Quando tornavo a casa ero sempre in uno stato pietoso e Mena mi toglieva dalle mani di mia mamma che altrimenti me le avrebbe suonate, mi spogliava e mi immergeva in una conca di sasso piena d'acqua, naturalmente nella stanza del forno. Dopo l'insaponata e l'asciugata ero bello e pronto per una nuova partita.


 

La conca

Era profonda circa settanta centimetri ed oltre ad essere la vasca per il mio lavaggio personale, serviva soprattutto alla pulizia degli indumenti. Su questa veniva posta una tavola che mi sembra si chiamasse "scolatoio", dove i vari vestiti venivano insaponati e sbattuti, immersi e di nuovo insaponati. Dopo il risciacquo finale, Mena li stendeva nell'orto al sole. Un altro lavaggio che faceva la conca era il fantomatico "ranno". Non so di preciso come funzionasse: dopo aver fatto un piano di indumenti si aggiungeva un piano di cenere e così via fino al riempimento. Ai lati venivano conficcate delle canne e il ranno fermentava per qualche giorno, dopo di che i lenzuoli erano più bianchi che lavati con un detersivo di oggi.


 

I lavatoi

Quando c'era tanto da lavare, Mena e la mia mamma andavano al lavatoio comunale che era situato un po' fuori paese. Per riparare dal sole e dalla pioggia, la struttura era ricoperta da un tetto in lamiera ondulata. Mentre le donne lavavano io ed altri compagni giocavamo sui prati vicini. Lo sbattere dei panni sui lavatoi, il chiacchierio e i canti si confondevano con i nostri gridi di gioco e l'atmosfera era gioiosa. Per riportare il bucato a casa, le donne si costruivano una specie di turbante chiamato "ciuffalo", che appoggiato sulla testa reggeva un catino pieno di panni strizzati, poi si incamminavano verso casa con un'andatura caracollante.


 

Casa Ferrini

I Ferrini erano livornesi, prima sfollati come noi e poi rimasti in domicilio permanente. La famiglia era composta da marito, moglie e cinque figli. Romano, il più grande, viveva in un mondo tutto suo: era sempre in giro e attaccava discorso con tutti quelli che incontrava. Vinicio aveva l'età di mio fratello e insieme al figlio di Mena, Cecchino, ne combinava di tutti i colori. Poi c'era Fatima, una ragazzina di circa sedici anni con i capelli lunghissimi ed infine le due gemelle Farida e Licia, che avevano più o meno la mia età. Il posto dove abitavano era più uno zoo che una casa. Infatti oltre alla numerosa famiglia, ospitava un numero indefinito di animali: cani, gatti, maialini d'India, canarini, passerotti, tartarughe. L'odore che si sentiva quando si entrava era molto sgradevole, ma in compenso nella casa regnava armonia e allegria. Il marito era un ingegnere in pensione e collezionava trenini elettrici. Una o due volte l'anno, in casa di Mena che aveva una grande sala, faceva esposizione del suo parco ferroviario con montaggio di un grande plastico con case, prati, auto, ponti e passaggi livello, dove per nostro divertimento faceva sferragliare le sue locomotive e i suoi vagoni.


 

La corriera e i fumetti

Dalla curva del camposanto avevamo il preavviso del suo arrivo. "Peo peo peo" ululava il suo clacson: il postale stava per entrare in paese. Molte persone si radunavano in piazzetta in attesa, questo sia prima del pranzo che prima della cena. C'era chi aspettava i parenti, chi la merce, chi la posta e chi stava lì solamente per curiosità. Le persone si spostavano poi dal giornalaio per leggere le notizie fresche, si fa per dire, di quello che succedeva nel mondo. Per noi ragazzi, almeno una o due volte la settimana, voleva dire l'arrivo dei fumetti. Facevamo la fila per accaparrarci al più presto le famose "strisce". Ognuno di noi aveva il suo eroe preferito, anche perché per un solo fumetto non bastavano dieci o quindici lire, che per noi era davvero tante. "Tex" era il preferito, ma anche "L'uomo mascherato", "Il piccolo sceriffo", "Cino e Franco", "Gordon", "Mandrake e Lotar", avevano i loro buoni acquirenti. C'è chi ne faceva la collezione ma c'era anche chi dopo averli letti, li scambiava o li dava in prestito.


 

Giuliano

Ci chiamavamo "gli inseparabili", perché quando cercavano l'uno o l'altro era la stessa cosa. Aveva un anno o due più di me e naturalmente era lui che comandava, ma era un comando che io accettavo da buon soldato. Egli era figlio dell'ufficiale postale e come figlio sapeva perfettamente l'alfabeto morse. Abitava in una vecchia villa del centro del paese. Questa era recintata da un muro parecchio alto, al lato un piccolo cancelletto quasi sempre aperto dava accesso a un modesto cortile dove noi giocavamo spesso. Alla sinistra c'era un pergolato dove avevamo sistemato un'amaca e nelle giornate estive ci stavamo a leggere i nostri fumetti. L'ingresso della villa era abbastanza imponente: c'erano due scale laterali che salivano fino al portone e appena entrati una grande sala con il pavimento in mattoni rossi si allungava davanti a noi, sarà stata circa una ventina di metri di lunghezza e una decina di larghezza. Ai lati c'erano delle cassapanche in legno scuro e nel centro del soffitto vecchi lampadari. Sulla sinistra c'era la cameretta di Giuliano e di suo fratello, che aveva sei o sette anni di più. La finestra della camera dava proprio sul cortile, tanto che a volte, quando al mattino andavo a svegliarlo tiravo dei sassi verso la finestra.
In fondo alla sala sempre a sinistra c'era la cucina, mentre altre camere erano al lato opposto. Al centro della sala un lungo tavolo di legno scuro come le cassapanche. Spesso, quando il babbo di Giuliano (che era molto severo) era al lavoro, trasformavamo il vecchio tavolo in un vero e proprio ping pong e insieme ad altri amici passavamo lunghi pomeriggi invernali. Al primo piano della villa, attraverso una scala a chiocciola si raggiungevano altre stanze, tra cui la camera e la cucina dei nonni dove io non sono mai stato. Ancora più in alto si arrivava alla soffitta. Per noi era proibita, ma ci andavamo ugualmente attraverso una porticina scricchiolante che faceva venire i brividi ed i capelli ritti: si entrava in un grande stanzone dal tetto molto basso, un po' a piramide.
Questo era molto polveroso e c'era accatastata una quantità enorme di cose strane. Mi è stato poi detto che la villa era di un anziano signore che abitava ormai lontano ed era stata data in affitto al babbo di Giuliano che era un lontano parente. Quella parte della villa doveva rimanere chiusa in attesa che prima o poi questo vecchio signore ritornasse per riprendere possesso delle sue cose. Come ho detto, io e Giuliano facevamo delle incursioni nella soffitta, a volte anche di notte con delle torce e tutto diventava molto impressionante. Animali impagliati ci fissavano con i loro occhi di vetro, un vecchio letto a baldacchino, un armadio che prendeva buona parte della stanza, un paio di cassapanche, un'infinità di libri ammonticchiati su tavoli o scaffali e fra le varie ragnatele giganti in un lato della stanza, una vecchia e polverosa cassa da morto. Ogni escursione ci faceva sempre più coraggiosi e dopo qualche titubanza aprimmo la cassa da morto che conteneva di nuovo vecchi libri, fogli e scartoffie varie. Trovammo un diario in cui un giovane che noi pensavamo fosse il vecchio padrone di casa scriveva bellissime frasi esprimendo tutto il suo amore ad una ragazza. Trovammo poi vecchie foto e persino degli scritti e dei disegni che a noi parvero qualcosa di addirittura pornografico.


 

Il botro

A lato del paese scorreva il botro, un fiumiciattolo quasi secco d'estate e torrente d'inverno. Col trascorrere degli anni, io e la mia banda avevamo allungato i nostri giri di perlustrazione e sempre più spesso le nostre mete erano proprio lungo il botro. Si riempivano barattoli di girini e pesciolini che prendevamo con le mani e a volte rimanevamo fuori casa anche due o tre ore. Un giorno, mentre discendevamo il botro tra i sassi e la vegetazione quasi selvaggia, ci trovammo in cima a una piccola cascata di cinque o sei metri. In basso formava un laghetto e in men che non si dica c'eravamo spogliati e tuffati per rinfrescarci dell'afoso agosto. Ci divertimmo un sacco schizzandoci e lottando nell'acqua quasi gelida, poi si stendemmo al sole caldo, per asciugarci e lì dopo un po', "scoprimmo" (almeno per me) i nostri sessi. Naturalmente ci confrontammo e per mezzo di un rametto eseguimmo anche delle misurazioni: io, che ero uno dei più piccoli del gruppo, ci rimasi un po' male.


 

Il cinema

Un avvenimento importante per la comunità fu l'avvento del cinema. In un lungo capannone di proprietà del Ricciardi, il tabaccaio, fu approntata la sala cinematografica. Una volta la settimana, generalmente sabato sera, veniva proiettato un film, spesso a puntate perché era molto lungo: una specie delle nostre telenovela televisive. Mi ricordo che andava molto Amedeo Nazzarri e Yvonne Sanson. Tutto il paese era coinvolto, dai bambini nelle carrozzine ai vecchi con le pipe puzzolenti e l'alito un po' avvinazzato. Quando era ora, le persone cominciavano ad uscire di casa portandosi dietro sedie e sgabelli, e d'inverno coperte e caldani. Poi ognuno si sedeva dove meglio vedeva e il capannone si riempiva fino all'inverosimile. A noi ragazzi toccavano i primi posti proprio davanti alla tela, ma seduti per terra. All'intervallo ci scatenavamo correndo e rinchiappandoci, cercando poi le mamme per farci dare soldi per comprare caramelle e castagne secche che sgranocchiavamo per tutta la durata del film. Finito lo spettacolo ognuno tornava a casa propria riportandosi dietro la sedia ed i più piccini che nel frattempo si erano addormentati venivano portati in collo dalla mamma. Le pellicole erano molto vecchie e spesso si bruciavano. Ecco perché i film duravano così tanto.


 

Alfonsino di Mezzanotte

Il suono del martello che batteva sull'incudine era la sveglia del mattino, infatti sotto casa lavorava il fabbro. Io mi fermavo spesso ad osservarlo e rimanevo affascinato quando prendeva dalla tramoggia un pezzo di ferro incandescente e cominciava a batterlo sull'incudine. Man mano che picchiava con il martello, il pezzo prendeva forma e dopo un po' ne usciva un ferro di cavallo pronto per essere applicato allo zoccolo dell'animale. Anche la messa a posto del ferro richiedeva un lavoro ben preciso; il padrone teneva la zampa piegata all'asino mentre Alfonsino applicava il ferro inchiodandole con dei lunghi chiodi. Quando metteva il ferro ancora caldo lo zoccolo strideva fumando e nell'aria si diffondeva una forte puzza di bruciato.
Interessante era anche quando applicava un cerchi di ferro alle ruote del barroccio. Era infatti un lavoro di équipe: il falegname faceva la ruota di legno che poi portava al fabbro e questi, sempre con fuoco, martello ed incudine faceva un grosso cerchio. Quando questo era quasi a misura, dopo essere stato scaldato ben bene, veniva applicato alla ruota, poi freddato immediatamente con acqua e in questo modo il ferro si restringeva e rimaneva ben stretto sul legno. Nel ferro erano stati fatti in precedenza dei fori dove poi venivano infilati dei lunghi chiodi per non far più muovere la ruota. Non mi sono mai chiesto perché lo chiamassero di Mezzanotte, ma in paese i soprannomi li avevano un po' tutti.