in questo sito   la storia di questa notte   le altre notti   ospiti   artisti   Sant'Agata   Livorno   Firenze   rilancio   realized   home
 
fotografo in Livorno

 


Calzoni corti e scarpe con i chiodidi Giancarlo Barsotti
I parte
Prologo
La Befana
Le serate nella festa di Natale intorno al fuoco
L'orto
Il forno
Polli, conigli e piccioni
Il primo amore
Cirimpolla, Quadrello, Tappini e Palline
Le bande
III parte
I Robin Hood
Carretti di legno e botti
La Chiesa
Pasqua
La grande festa della mietitura e della trebbiatura
Il campo di calcio
La carabina
Zemmira
II parte
Colazioni e merende
La palla di cencio
La conca
I lavatoi
Casa Ferrini
La corriera e i fumetti
Giuliano
Il botro
Il cinema
Alfonsino di Mezzanotte
IV parte
La pineta di Rivalto
La fiera
La vendemmia
La prima Comunione
La Sterza
Lucia
La più bella
Franco
I bar
Epilogo
   

ritorno all'indice


 

La pineta di Rivalto

Una piccola cappella in cima ad una collina circondata da un'ampia pineta: era questa la chiesetta che veniva aperta una volta l'anno in occasione della ricorrenza. Il posto era sempre ventilato con gli alti pini e i cipressi che ondeggiavano al vento. Nella piazzetta antistante la cappella si installavano le bancarelle con cicalini, mente e croccanti; durante la funzione si riempiva di gente perché la chiesa poteva contenere poche persone.
Terminata la messa con benedizione del piccolo sacrato, le famiglie e i vari gruppi di amici che si erano portati da mangiare, si sparpagliavano nella pineta. Il sottobosco era tenuto molto pulito e il soffice tappeto di aghi permetteva di stendere tovaglie e plaid. Poi c'erano gli spazi dove potevamo giocare a calcio oppure distendere una fune tra due pini per giocare a pallavolo. Altri attaccavano l'amaca e noi ragazzi oltre a giocare e rincorrerci rimpiattandoci tra i cespugli, ci divertivamo a fabbricare cappelli e cinturoni con le foglie di castagno. Passavamo là tutto il giorno e quando alla sera tornavamo in paese eravamo stanchi morti.


 

La fiera

Fin dalle prime ore del mattino, quando la maggior parte delle persone era ancora a letto, gli ambulanti cominciavano ad arrivare in paese piazzandosi nei posti loro assegnati. Tutti gli spazi possibili venivano occupati da bancarelle multicolori e anche i pochi negozi rimanevano aperti per l'occasione. Affacciandosi alla finestra di camera appena alzato, sentivo già in fondo alla discesa i primi suoni di trombetta, fischi e di megafoni che reclamizzavano i prodotti. Ognuno di noi ragazzi aveva sempre un piccolo risparmio da poter spendere durante la fiera. Il giocattolo più in uso era la pistola ad acqua e per tutto il giorno non facevamo che riempirle alla fonte e scaricarcele addosso il più possibile: meno male che la fiera avveniva in estate, perché con il caldo i vestiti si asciugavano abbastanza velocemente.
Le strade erano stracolme di gente che veniva anche dai paesi vicini e tra urla, suoni e fischi, nella piazzetta dove di solito arrivava la corriera c'era anche la banda del paese a suonare pezzi come Va pensiero e l'Inno di Mameli. Ogni tanto arrivava anche un piccolo circo che restava in paese per tre o quattro giorni. Anch'io aiutavo insieme ai miei amici a mettere le panche e a tirare su il tendone perché qualche volta ci poteva scappare un ingresso gratuito. Quando il circo ripartiva eravamo diventati tutti un po' acrobati e imitavamo gli artisti facendo capriole e alzandoci a testa in giù sulle mani. Una volta, mentre io tenevo le mani a terra, un altro ragazzo scendeva con i piedi e con le scarpe chiodate come usavano allora, mi piombò su una mano sbraciolandomi un pezzo di dito. Sentii un gran dolore e stringendomi la mano e piangendo feci di corsa tutta la salita che portava a casa. Meno male che mia mamma invece dello spirito usò l'acqua ossigenata che faceva molta schiuma ma dava poco bruciore. Poi per precauzione fui portato dal dottore che toglieva anche i denti, per una puntura antitetanica. Anche un'altra volta, mentre giocavo a pallone fui morso da un cane e dovetti prendere un'antirabbica.


 

La vendemmia

A settembre l'uva era matura e tutta la famiglia: Tonino, Mena, Cecchino, Dino più mia mamma, mio babbo se poteva, io e mio fratello partivamo la mattina all'alba per andare in Casciano. All'inizio della proprietà c'era un piccolo casolare dove il terreno era adibito a stalla e nella parte superiore c'era una cucina con un focolare. La stalla serviva per riposare i buoi e la cucina serviva da riparo durante la pioggia e per pranzare se si rimaneva a lavorare tutto il giorno. Sul carro con i buoi era stato posto un grosso tino di legno che veniva man mano riempito d'uva. Le persone che vendemmiavano andavano su e giù per le prode con i tinelli che poi scaricavano sul carro. Su di esso, alcune volte l'ho fatto anch'io, stava una persona in piedi e con un pigio, batteva l'uva tanto da farne entrare il più possibile. L'odore e il sapore del mosto era eccezionale. Mentre noi continuavamo a tagliare dalla vite i raspolli d'uva, il carro faceva la spola tra Casciano e Chianni, dove veniva rovesciato tutto il contenuto del carro in botti separate.
L'uva migliore, la colombana, veniva preservata appesa nel granaio per mangiarla nei mesi invernali. A sera eravamo molto stanchi e anche un po' brilli per aver bevuto troppo mosto, ma erano molto stanchi e sudati anche i buoi che si sdraiavano sulla paglia della stalla ruminando e roteando la coda per distogliere le mosche che ronzavano attorno.


Mio fratello e Cecchino erano grandi e non mi portavano mai con loro, ma una volta, me la ricordo bene, fu quella quando Tonino decise di fare lo "scasso" per piantare alcuni olivi. Mio fratello, Cecchino e Vinicio si davano il cambio con piccone e venga mentre io giocavo vicino ad un piccolo ruscello fabbricando le mie barche fatte con foglie di canna. Poi venne l'ora di colazione e, mangiate le fette di pane con prosciutto e pomodoro, ci buttammo sulle pesche che pendevano sulle nostre teste. Mentre io riprendevo a giocare mio fratello e Vinicio decisero di scommettere a chi mangiava più pesche: credo vinse Vinicio 25 a 30. Li per lì non successe niente, ma l'indomani furono presi da forti mal di pancia con veloci corse in bagno.


 

La prima Comunione

Il pievano mi faceva catechismo dietro l'altare maggiore per prepararmi insieme ad altri ragazzi alla prima Comunione. Mamma e Mena facevano i preparativi per il rinfresco e il sarto del paese il vestito. Il giorno prima della Comunione mamma mi [ Giancarlo il giorno della prima Comunione ]portò tutto vestito a vesta dal fotografo che aveva lo studio vicino casa: io in grigio, giacchettina e pantaloni corti, mi misi in posa e attesi. Era un tipo allampanato che si rimpiattava dietro la macchina fotografica, coperta da un grande pezza nera. "Fermo così", una strizzatina alla pompetta ed il lampo del magnesio mi fulminò. Erano gli anni '50 e le foto venivano ritoccate a mano colorando il bianco e nero con un rosina pallido. La domenica mattina all'alba ero già sveglio, non dovevo né bere né mangiare e io avevo un gran sete ed una gran fame, anche perché Mena stava già preparando il rinfresco.
La cerimonia si svolgeva in un piccolo santuario alla Madonna distante tre o quattro chilometri dal paese. Questa chiesetta veniva aperta soltanto una volta all'anno e ci si arrivava attraverso una strada sterrata in mezzo alla campagna. Era tutta bianca all'esterno mentre all'interno le pareti erano azzurrine. Il quadro della Madonna era coperto da una specie di sipario che veniva tirato su solamente in occasioni particolari. Oltre alla Comunione facevo la Cresima e per l'occasione era venuto il vescovo di Volterra. Tonino era il mio padrino e scherzando mi diceva che il Vescovo mi avrebbe piantato un chiodo nella testa, infatti a tutti i cresimandi usava fasciare la testa con una striscia bianca con filamenti dorati. Sapevo che scherzava, ma un po' di tremarella l'avevo. Un po' perché ero digiuno e un po' per il pensiero di non dover masticare l'ostia ma deglutirla. Tutto si svolse nel migliore dei modi e quando un po' impolverati facemmo ritorno a casa, mi aspettava una grande tavola imbandita con brioche, pasticcini e torte fatte a salame. Era invitato anche il pievano e, tra una cioccolata calda e spumini appena sfornati, terminò il giorno della mia prima Comunione.


 

La Sterza

Qualche volta siamo partiti all'alba alla volta del fiume, portandoci dietro panini e frutta per trascorrere una giornata d'agosto rinfrescandoci nelle pozze dove ancora scorreva l'acqua. A parte il "mangiare" portavano (non io) ma mio fratello e Cecchino, una mazza di ferro. La prima volta che mi portarono con loro non riuscivo a capire a cosa potesse servire questa mazza di ferro.
Arrivammo al fiume verso le dieci, da riva a riva saranno stati una cinquantina di metri, ma al centro d'acqua ce n'era ben poca. Cominciammo a percorrere il letto tra sassi bianchi, piccoli cespugli e pozzanghere di quattro o cinque metri di larghezza. Dopo esserci rinfrescati in queste piccole pozze, Cecchino e mio fratello iniziarono a pescare. Non c'erano né lenze né reti, ma soltanto le mani e la mazza di ferro. Ecco come si svolgeva la pesca: nelle pozze l'acqua andava dai trenta centimetri al metro, ed era piena di sassi più o meno grossi. Picchiando la mazza con forza su di un sasso si provocava un grande spruzzo e un intorbidamento dell'acqua. Alzando poi il sasso venivano a galla dei piccoli pesciolini tramortiti dai colpi che noi potevamo prendere senza alcuno sforzo.
Era uno spettacolo, non avevo mai visto una pesca di questo genere. Verso le due del pomeriggio cominciammo a mangiare i nostri panini, poi ci sdraiammo al sole finché non giunse l'ora di ripartire dopo aver fatto almeno un altro bagno. Arrivammo a casa distrutti sia per la lunga camminata sia per tutte le mazzate date sui sassi, ma eravamo ricompensati da un bel bottino di pesce.


 

Lucia

Durante le vacanze estive spesso Giuliano partiva con il pullman per Bagni di Casciana, per andare a ripetizione e io mi ritrovavo un po' solo. Ciabattavo per il paese cercando qualcuno, ma avendo ormai sui dodici-tredici anni, gli altri amici erano quasi tutti ad aiutare i genitori nei campi o in altri lavori. Quando passavo sotto la casa di Giuliano vedevo spesso sua sorella che restava molto tempo seduta a leggere sotto un glicine e qualche volta mi fermavo a parlare, io dal di fuori arrampicato su un muretto e lei affacciata. Non era più antipatica come quando eravamo più piccoli e stavo volentieri a parlare con lei, anche se ogni tanto la prendevo in giro per le famose eliche nei capelli.
Quando Giuliano non andava a ripetizione continuavamo a stare insieme come due fratelli. Quando suo babbo aveva da recapitare delle lettere o dei telegrammi fuori paese ci incaricava di fare da postini. Per noi era un diversivo che ci occupava per diverse ore perché i recapiti erano lontani anche quattro o cinque chilometri. Quando arrivavamo ai piccoli agglomerati di case o fattorie ci invitavano spesso a fare merenda e Giuliano mi faceva sempre passare per suo fratello che era stato in collegio.


 

La più bella

Mio fratello aveva terminato il servizio militare e insieme a Cecchino cominciò a organizzare delle feste da ballo in casa. La sala era abbastanza grande da poter ospitare almeno una decina di coppie. Io ero addetto a mettere e togliere i dischi e le coppie si stringevano a tempo di "Begin the begin", con la voce di Frank Sinatra, la tromba di Luis Amstrong, Benny Goodman e gli italiani Natalino Otto e Luciano Taioli. I dischi erano a settantotto giri e ogni tanto dovevo cambiare la puntina al giradischi che era a manovella cioè a carica. Qualche volta mettevo un disco di Boogie boogie, ma Mena brontolava perché tremava tutta la casa a causa dei salti dei ballerini.
La ragazza che cominciò a flirtare con mio fratello era la più bella del paese e una volta fu fatta anche miss Chianni. Molto espansiva e con un gran sorriso, faceva anche a me un sacco di complimenti e mi sbaciucchiava e io ne ero innamorato quasi a pari di mio fratello. Cecchino invece se la diceva con la sorella. Tutte e due avevano iniziato a fare le magliaie, lavoravano cioè con delle macchine a telaio che producevano maglie e maglioni per terzi. In paese si sentiva qua e là il rumore di queste macchine che venivano manovrate a forza di braccia. Una ragazza faceva le maniche, una i dorsi, altre i colletti, poi tutto veniva unito da una ditta esterna che passava ogni settimana a ritirare il manufatto
.


 

Franco

Giuliano aveva anche un fratello più grande di tre o quattro anni che si chiamava Franco. Anche lui lavorava all'ufficio postale, spediva i telegrammi e sapeva perfettamente l'alfabeto morse. In paese dicevano che era un po' lunatico perché si interessava e parlava di astri e pianeti come se anche lui ci dovesse andare. Faceva anche esperimenti di chimica con tante polverine che facevano starnutire. Una volta si mise in testa di costruire un missile: in giardino montò una piccola rampa di lancio ed un bel giorno ci chiamò per assistere alla partenza. Il missile che aveva fabbricato era alto più di un metro, ma penso che al giorno d'oggi non potesse essere più di un semplice fuoco d'artificio. Il momento era solenne, c'erano un paio di suoi amici, io, Giuliano, Lucia e la mamma. Accensione della miccia e il missile partì con un sibilo assordante. Si alzò da terra per un centinaio di metri, poi per mancanza di polvere ricadde al suolo disintegrandosi.
Stavo diventando grande, Giuliano stava con una ragazzina ed io mi sentivo sempre più solo. Lucia mi teneva un po' compagnia e spesso rimanevamo ore insieme a parlare e a leggere. Lei mi parlava di un ragazzo che non la vedeva nemmeno e io di una ragazzina di Livorno che però preferiva un altro a me, compatendoci a vicenda.
Giuliano cominciò anche a fumare e dopo un po' lo imitai. Le sigarette che si potevano comprare sciolte ce le facevamo comprare dai ragazzi più grandi, naturalmente dietro compensi. I nostri ormoni cominciavano a funzionare e anche un semplice calendario che offrivano i parrucchieri faceva il suo effetto. Una sera decidemmo di tornare in soffitta per ricercare quelle cartoline e fotografie di donnine che avevamo scoperto quando eravamo più piccoli; poi ci venne in mente di salire sul tetto. Ci avevano detto che si potevano osservare delle ragazzine che si spogliavano prima di andare a letto. Al buio completo, solo con una piccola torcia passammo da un tetto all'altro per arrivare nel punto che ci interessava. Cercavamo di fare meno rumore possibile ma le tegole si muovevano sotto i nostri piedi e sul più bello vedemmo la luce di una torcia che si spostava su di noi e una voce che iniziò a urlare. Cominciammo a correre per tornare da dove eravamo venuti, l'adrenalina era al massimo, a un certo punto inciampammo su uno strano cavo che non avevamo visto prima e per poco non cademmo in qualche cortile. Riuscimmo poi a tornare in casa con le gambe che ci tremavano dallo spavento.
Più tardi scoprimmo che quei cavi erano stati messi da Franco, che comunicava con un suo amico con una specie di telefono che lui aveva inventato. Quando al mattino scesi in paese trovai, cosa strana, Giuliano che si era già alzato e mi veniva incontro. Andammo al bar dove ci ritrovavamo spesso e ascoltammo le persone che parlavano della sera prima, dicendo che dei ladri erano stati visti camminare in piena notte sui tetti, ma per nostra fortuna nessuno sapeva chi fossero. Da allora decidemmo che era meglio restare con i piedi ben piantati per terra.
Nelle serate estive andavamo sempre in giro in gruppi di sei o sette ragazzi, le nostre escursioni arrivavano a volte nelle campagne vicine a fare imbuzzate di pesche e altri frutti che prendevamo "in prestito" dai padroni degli alberi. Spesso arrivavamo fino al monumento ai caduti, dove giocavamo a rimpiattino o saltavamo sotto il monumento dove c'era un mucchio di paglia. Altre volte ci sdraiavamo in un prato vicino ad un pagliaio a fantasticare sulle stelle cadenti.
Una sera, pur avendo una paura matta, decidemmo di entrare nel cimitero. Si raccontava di persone che avevano visto un uomo legato al cancello con delle catene, oppure di un becchino che si era spaventato per una cassa da morto che si era mossa da sola. Tutte queste cose, col condimento di macabre barzellette, ci avevano condizionato molto, ma il desiderio di avventura era più forte. In sei o sette trabarcammo l'alto e nero cancello circondato da cipressi, mentre la luna rischiarava di quel tanto da far sembrare ogni ombra un'eventuale nemico. Stringendosi vicini passammo tra le tombe biancastre e arrivammo fino all'ossario. Accesa una candela aprimmo una botola ed una montagna d'ossa si aprì dinanzi ai nostri occhi, mentre una leggera brezza muoveva i cipressi e ci faceva venire la pelle d'oca. Il ritorno lo facemmo tutto di corsa con i capelli ritti e trabarcando il cancello rimasi per un attimo attaccato su un puntale, facendomi un grosso "sette" sui pantaloni. Invece un'altra volta che eravamo in un campo a rimpinzarci d'uva, vedemmo da lontano un contadino che tra le urla ci raggiunse con una raffica di pallini partiti da un fucile da caccia.


 

I bar

Nessun privato aveva la televisione e i quattro bar del paese se ne contesero l'egemonia. Le sere, specialmente il giovedì di "Lascia e raddoppia", le persone si riversavano nelle salette dei bar adibite alla tv, riempiendole all'inverosimile tra fumo di sigarette, odore di vino e caffè. Assistevamo allo spettacolo rumoreggiando e applaudendo all'indirizzo dei concorrenti del più famoso dei quiz televisivi. Il bar dell'Acli fu quello che ebbe maggior affluenza perché aveva una saletta separata abbastanza grande da ospitare un centinaio di persone. Il bar di piazza, "Licurgo", aveva una grande sala dove una decina di tavoli con sedie erano a disposizione dei giocatori di carte. La domenica pomeriggio e la sera i tavoli erano tutti occupati, mentre intorno c'erano ovunque persone in piedi che assistevano alle varie partite. Generalmente giocavano al "fiasco": scopa, briscola e tresette erano i giochi, mentre il fiasco di vino era quello che pagavano i due perdenti e che si scolavano i quattro giocatori. Salendo un paio di scalini in fondo a sinistra si entrava nella stanzetta della tv e da questa con una scala di ferro a chiocciola si saliva al biliardo, dove essendoci un solo tavolo, i giocatori si prenotavano su una lavagnetta.
Quello di Adolfino era il bar che noi ragazzi frequentavamo di più, perché il figlio del padrone, Luciano, aveva più o meno la nostra età. Era situato in borgo, alla fine della discesa: era una lunga sala con a sinistra il bancone e altre due salette una dietro l'altra che poi terminavano in una grande chiostra ombreggiata da un pergolato. Noi non giocavamo al fiasco, ma alla spuma che bevevamo in grande quantità perché costava poco. Adolfino era un uomo molto magro e con una bocca quasi sdentata, quando rideva gli uscivano fuori un paio di zeppe ingiallite che facevano veramente schifo. Il bar aveva anche un banco per il gelato e in estate l'odore della macchina che lo amalgamava era pungente. Si dice che un bel giorno, mentre mangiava il suo cono gelato, un ragazzo abbia trovato uno dei famosi denti di Adolfino e almeno per quella stagione il gelato non lo prese più nessuno. Anche Adolfino era uno sfollato livornese e aveva l'animo dell'imprenditore, tanto che in estate trasformò la chiostra in una pista da ballo dotandola di orchestrina. Era l'unica del paese ed i ragazzi alla domenica la frequentavano.
Ormai le inimicizie tra le varie bande erano finite e tutti eravamo amici. Tra di noi c'era un ragazzo che probabilmente da piccolo aveva avuto la poliomielite perché aveva una gamba che mandava di traverso e un braccio che teneva sempre piegato, ma era bravissimo a ping-pong e guidava una scassatissima lambretta in modo spericolato. Poi c'era Luciano di Castello, Rosindo del lattaiolo, Tullio, Alberto ed altri di cui non ricordo i nomi.
Un altro luogo di ritrovo per noi ragazzi era il barbiere: mentre faceva i capelli noi leggevamo riviste e fumetti e dalla bocca di Renato sapevamo tutto quello che succedeva in paese. Renato, il barbiere era stato un corridore ciclista dilettante e il fratello Alberto aveva la nostra età. Nel periodo natalizio a tutti i clienti veniva regalato un piccolo calendario profumatissimo con tante donnine seminude che portavamo sempre con noi.
Le bimbe e le ragazzine erano rimaste fino ad ora al di fuori delle nostre attenzioni, ma ultimamente quasi senza rendercene conto c'eravamo avvicinati a loro e nelle brevi passeggiate domenicali ci scambiavamo scherzi e pensieri. Ci fermavamo alle panchine del monumento oppure ci sdraiavamo vicino a un pagliaio lungo la strada, ma arrivavamo difficilmente oltre la curva del cimitero, perché i genitori delle ragazze non glielo permettevano. Giuliano curava già una ragazzina mentre io cullavo solo sogni. L'unica ragazzina che io frequentavo era Lucia sotto l'albero di biancospino, ma tra noi c'erano solo parole perché sia io che lei avevamo i nostri amori segreti. Era solo un'amica anche se molto intima.


 


cco, in cima alla salita vedo il casottino della Madonnina, mio babbo la saliva in bicicletta quando veniva a trovarci da Livorno. Io sono in auto. Ancora pochi metri, l'ultima curva, ed ecco il paese. Chianni, arroccato su una collina con la chiesa (la vaporiera), il castello e tutte le case che seguono attaccate (i vagoni). Sembra sempre lo stesso di cinquant'anni fa. La strada continua, curva dopo curva, ora siamo al ponte della Fine che era stato distrutto durante la guerra, altre curve ed eccomi al cimitero, con i suoi cipressi lanciati verso il cielo e ancora avanti il mulino, il monumento ai caduti, la strada per Rivalto, i lavatoi, il macello e la fontana incastonata nel muro che anticipa la piazza.
Vedo il bar, lo spaccio, l'Acli, il rivellino che porta alla chiesa, sembra proprio che il tempo si sia fermato. C'è anche Giulietto, lui c'è sempre. Scendo di macchina, qualche vecchietto se ne sta seduto a prendere il primo sole di primavera sugli scalini del comune. Alcune donne con la borsa della spesa, auto e moto in sosta, un paese tranquillo, le strade sono ormai tutte asfaltate, ma manca qualcosa: i rumori? Solo quelli di auto che passano. Mancano i carretti trainati da asini o buoi, mancano i bambini che si rincorrono e gridano, mancano le rondini e il loro cinguettio. Non vedo nessuna faccia riconoscibile, solo Giulietto.
Qualcuno mi guarda con curiosità. Altre volte che ero venuto ero sempre "Giancarlo il livornese", ora sono solo un "forestiero" che gira per il paese. Vado verso la fonte con i grossi alberi di castagne selvatiche di cui avevo sempre le tasche piene. Sulla destra la villa Signorini… quale villa? Non c'è più.
Non esiste più il muro, il giardino, il biancospino, non c'è più l'amaca, il salice, la pergola, non c'è più Giuliano, e neanche Lucia. Una facciata tutta rifatta in tono moderno, finestre ad arcata, scale in cotto che partono dal basso da ambedue i lati per riunirsi poi al centro in un portale a vetri antiriflesso, ringhiere in ferro battuto, è la banca.