La
pineta di Rivalto
Una piccola cappella in cima
ad una collina circondata da un'ampia pineta: era questa la chiesetta
che veniva aperta una volta l'anno in occasione della ricorrenza.
Il posto era sempre ventilato con gli alti pini e i cipressi
che ondeggiavano al vento. Nella piazzetta antistante la cappella
si installavano le bancarelle con cicalini, mente e croccanti;
durante la funzione si riempiva di gente perché la chiesa
poteva contenere poche persone.
Terminata la messa con benedizione del piccolo sacrato, le famiglie
e i vari gruppi di amici che si erano portati da mangiare, si
sparpagliavano nella pineta. Il sottobosco era tenuto molto pulito
e il soffice tappeto di aghi permetteva di stendere tovaglie
e plaid. Poi c'erano gli spazi dove potevamo giocare a calcio
oppure distendere una fune tra due pini per giocare a pallavolo.
Altri attaccavano l'amaca e noi ragazzi oltre a giocare e rincorrerci
rimpiattandoci tra i cespugli, ci divertivamo a fabbricare cappelli
e cinturoni con le foglie di castagno. Passavamo là tutto
il giorno e quando alla sera tornavamo in paese eravamo stanchi
morti.
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La
fiera
Fin dalle prime ore del mattino,
quando la maggior parte delle persone era ancora a letto, gli
ambulanti cominciavano ad arrivare in paese piazzandosi nei posti
loro assegnati. Tutti gli spazi possibili venivano occupati da
bancarelle multicolori e anche i pochi negozi rimanevano aperti
per l'occasione. Affacciandosi alla finestra di camera appena
alzato, sentivo già in fondo alla discesa i primi suoni
di trombetta, fischi e di megafoni che reclamizzavano i prodotti.
Ognuno di noi ragazzi aveva sempre un piccolo risparmio da poter
spendere durante la fiera. Il giocattolo più in uso era
la pistola ad acqua e per tutto il giorno non facevamo che riempirle
alla fonte e scaricarcele addosso il più possibile: meno
male che la fiera avveniva in estate, perché con il caldo
i vestiti si asciugavano abbastanza velocemente.
Le strade erano stracolme di gente che veniva anche dai paesi
vicini e tra urla, suoni e fischi, nella piazzetta dove di solito
arrivava la corriera c'era anche la banda del paese a suonare
pezzi come Va pensiero e l'Inno di Mameli. Ogni tanto arrivava
anche un piccolo circo che restava in paese per tre o quattro
giorni. Anch'io aiutavo insieme ai miei amici a mettere le panche
e a tirare su il tendone perché qualche volta ci poteva
scappare un ingresso gratuito. Quando il circo ripartiva eravamo
diventati tutti un po' acrobati e imitavamo gli artisti facendo
capriole e alzandoci a testa in giù sulle mani. Una volta,
mentre io tenevo le mani a terra, un altro ragazzo scendeva con
i piedi e con le scarpe chiodate come usavano allora, mi piombò
su una mano sbraciolandomi un pezzo di dito. Sentii un gran dolore
e stringendomi la mano e piangendo feci di corsa tutta la salita
che portava a casa. Meno male che mia mamma invece dello spirito
usò l'acqua ossigenata che faceva molta schiuma ma dava
poco bruciore. Poi per precauzione fui portato dal dottore che
toglieva anche i denti, per una puntura antitetanica. Anche un'altra
volta, mentre giocavo a pallone fui morso da un cane e dovetti
prendere un'antirabbica.
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La
vendemmia
A settembre l'uva era matura e tutta la famiglia:
Tonino, Mena, Cecchino, Dino più mia mamma, mio babbo
se poteva, io e mio fratello partivamo la mattina all'alba per
andare in Casciano. All'inizio della proprietà c'era un
piccolo casolare dove il terreno era adibito a stalla e nella
parte superiore c'era una cucina con un focolare. La stalla serviva
per riposare i buoi e la cucina serviva da riparo durante la
pioggia e per pranzare se si rimaneva a lavorare tutto il giorno.
Sul carro con i buoi era stato posto un grosso tino di legno
che veniva man mano riempito d'uva. Le persone che vendemmiavano
andavano su e giù per le prode con i tinelli che poi scaricavano
sul carro. Su di esso, alcune volte l'ho fatto anch'io, stava
una persona in piedi e con un pigio, batteva l'uva tanto da farne
entrare il più possibile. L'odore e il sapore del mosto
era eccezionale. Mentre noi continuavamo a tagliare dalla vite
i raspolli d'uva, il carro faceva la spola tra Casciano e Chianni,
dove veniva rovesciato tutto il contenuto del carro in botti
separate.
L'uva migliore, la colombana, veniva preservata appesa nel granaio
per mangiarla nei mesi invernali. A sera eravamo molto stanchi
e anche un po' brilli per aver bevuto troppo mosto, ma erano
molto stanchi e sudati anche i buoi che si sdraiavano sulla paglia
della stalla ruminando e roteando la coda per distogliere le
mosche che ronzavano attorno.
Mio fratello e Cecchino erano grandi e non mi portavano mai con
loro, ma una volta, me la ricordo bene, fu quella quando Tonino
decise di fare lo "scasso" per piantare alcuni olivi.
Mio fratello, Cecchino e Vinicio si davano il cambio con piccone
e venga mentre io giocavo vicino ad un piccolo ruscello fabbricando
le mie barche fatte con foglie di canna. Poi venne l'ora di colazione
e, mangiate le fette di pane con prosciutto e pomodoro, ci buttammo
sulle pesche che pendevano sulle nostre teste. Mentre io riprendevo
a giocare mio fratello e Vinicio decisero di scommettere a chi
mangiava più pesche: credo vinse Vinicio 25 a 30. Li per
lì non successe niente, ma l'indomani furono presi da
forti mal di pancia con veloci corse in bagno.
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La
prima Comunione
Il pievano mi faceva catechismo
dietro l'altare maggiore per prepararmi insieme ad altri ragazzi
alla prima Comunione. Mamma e Mena facevano i preparativi per
il rinfresco e il sarto del paese il vestito. Il giorno prima
della Comunione mamma mi portò
tutto vestito a vesta dal fotografo che aveva lo studio vicino
casa: io in grigio, giacchettina e pantaloni corti, mi misi in
posa e attesi. Era un tipo allampanato che si rimpiattava dietro
la macchina fotografica, coperta da un grande pezza nera. "Fermo
così", una strizzatina alla pompetta ed il lampo
del magnesio mi fulminò. Erano gli anni '50 e le foto
venivano ritoccate a mano colorando il bianco e nero con un rosina
pallido. La domenica mattina all'alba ero già sveglio,
non dovevo né bere né mangiare e io avevo un gran
sete ed una gran fame, anche perché Mena stava già
preparando il rinfresco.
La cerimonia si svolgeva in un piccolo santuario alla Madonna
distante tre o quattro chilometri dal paese. Questa chiesetta
veniva aperta soltanto una volta all'anno e ci si arrivava attraverso
una strada sterrata in mezzo alla campagna. Era tutta bianca
all'esterno mentre all'interno le pareti erano azzurrine. Il
quadro della Madonna era coperto da una specie di sipario che
veniva tirato su solamente in occasioni particolari. Oltre alla
Comunione facevo la Cresima e per l'occasione era venuto il vescovo
di Volterra. Tonino era il mio padrino e scherzando mi diceva
che il Vescovo mi avrebbe piantato un chiodo nella testa, infatti
a tutti i cresimandi usava fasciare la testa con una striscia
bianca con filamenti dorati. Sapevo che scherzava, ma un po'
di tremarella l'avevo. Un po' perché ero digiuno e un
po' per il pensiero di non dover masticare l'ostia ma deglutirla.
Tutto si svolse nel migliore dei modi e quando un po' impolverati
facemmo ritorno a casa, mi aspettava una grande tavola imbandita
con brioche, pasticcini e torte fatte a salame. Era invitato
anche il pievano e, tra una cioccolata calda e spumini appena
sfornati, terminò il giorno della mia prima Comunione.
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La
Sterza
Qualche volta siamo partiti
all'alba alla volta del fiume, portandoci dietro panini e frutta
per trascorrere una giornata d'agosto rinfrescandoci nelle pozze
dove ancora scorreva l'acqua. A parte il "mangiare"
portavano (non io) ma mio fratello e Cecchino, una mazza di ferro.
La prima volta che mi portarono con loro non riuscivo a capire
a cosa potesse servire questa mazza di ferro.
Arrivammo al fiume verso le dieci, da riva a riva saranno stati
una cinquantina di metri, ma al centro d'acqua ce n'era ben poca.
Cominciammo a percorrere il letto tra sassi bianchi, piccoli
cespugli e pozzanghere di quattro o cinque metri di larghezza.
Dopo esserci rinfrescati in queste piccole pozze, Cecchino e
mio fratello iniziarono a pescare. Non c'erano né lenze
né reti, ma soltanto le mani e la mazza di ferro. Ecco
come si svolgeva la pesca: nelle pozze l'acqua andava dai trenta
centimetri al metro, ed era piena di sassi più o meno
grossi. Picchiando la mazza con forza su di un sasso si provocava
un grande spruzzo e un intorbidamento dell'acqua. Alzando poi
il sasso venivano a galla dei piccoli pesciolini tramortiti dai
colpi che noi potevamo prendere senza alcuno sforzo.
Era uno spettacolo, non avevo mai visto una pesca di questo genere.
Verso le due del pomeriggio cominciammo a mangiare i nostri panini,
poi ci sdraiammo al sole finché non giunse l'ora di ripartire
dopo aver fatto almeno un altro bagno. Arrivammo a casa distrutti
sia per la lunga camminata sia per tutte le mazzate date sui
sassi, ma eravamo ricompensati da un bel bottino di pesce.
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Lucia
Durante le vacanze estive
spesso Giuliano partiva con il pullman per Bagni di Casciana,
per andare a ripetizione e io mi ritrovavo un po' solo. Ciabattavo
per il paese cercando qualcuno, ma avendo ormai sui dodici-tredici
anni, gli altri amici erano quasi tutti ad aiutare i genitori
nei campi o in altri lavori. Quando passavo sotto la casa di
Giuliano vedevo spesso sua sorella che restava molto tempo seduta
a leggere sotto un glicine e qualche volta mi fermavo a parlare,
io dal di fuori arrampicato su un muretto e lei affacciata. Non
era più antipatica come quando eravamo più piccoli
e stavo volentieri a parlare con lei, anche se ogni tanto la
prendevo in giro per le famose eliche nei capelli.
Quando Giuliano non andava a ripetizione continuavamo a stare
insieme come due fratelli. Quando suo babbo aveva da recapitare
delle lettere o dei telegrammi fuori paese ci incaricava di fare
da postini. Per noi era un diversivo che ci occupava per diverse
ore perché i recapiti erano lontani anche quattro o cinque
chilometri. Quando arrivavamo ai piccoli agglomerati di case
o fattorie ci invitavano spesso a fare merenda e Giuliano mi
faceva sempre passare per suo fratello che era stato in collegio.
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La
più bella
Mio fratello aveva terminato
il servizio militare e insieme a Cecchino cominciò a organizzare
delle feste da ballo in casa. La sala era abbastanza grande da
poter ospitare almeno una decina di coppie. Io ero addetto a
mettere e togliere i dischi e le coppie si stringevano a tempo
di "Begin the begin", con la voce di Frank Sinatra,
la tromba di Luis Amstrong, Benny Goodman e gli italiani Natalino
Otto e Luciano Taioli. I dischi erano a settantotto giri e ogni
tanto dovevo cambiare la puntina al giradischi che era a manovella
cioè a carica. Qualche volta mettevo un disco di Boogie
boogie, ma Mena brontolava perché tremava tutta la casa
a causa dei salti dei ballerini.
La ragazza che cominciò a flirtare con mio fratello era
la più bella del paese e una volta fu fatta anche miss
Chianni. Molto espansiva e con un gran sorriso, faceva anche
a me un sacco di complimenti e mi sbaciucchiava e io ne ero innamorato
quasi a pari di mio fratello. Cecchino invece se la diceva con
la sorella. Tutte e due avevano iniziato a fare le magliaie,
lavoravano cioè con delle macchine a telaio che producevano
maglie e maglioni per terzi. In paese si sentiva qua e là
il rumore di queste macchine che venivano manovrate a forza di
braccia. Una ragazza faceva le maniche, una i dorsi, altre i
colletti, poi tutto veniva unito da una ditta esterna che passava
ogni settimana a ritirare il manufatto.
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Franco
Giuliano aveva anche un fratello
più grande di tre o quattro anni che si chiamava Franco.
Anche lui lavorava all'ufficio postale, spediva i telegrammi
e sapeva perfettamente l'alfabeto morse. In paese dicevano che
era un po' lunatico perché si interessava e parlava di
astri e pianeti come se anche lui ci dovesse andare. Faceva anche
esperimenti di chimica con tante polverine che facevano starnutire.
Una volta si mise in testa di costruire un missile: in giardino
montò una piccola rampa di lancio ed un bel giorno ci
chiamò per assistere alla partenza. Il missile che aveva
fabbricato era alto più di un metro, ma penso che al giorno
d'oggi non potesse essere più di un semplice fuoco d'artificio.
Il momento era solenne, c'erano un paio di suoi amici, io, Giuliano,
Lucia e la mamma. Accensione della miccia e il missile partì
con un sibilo assordante. Si alzò da terra per un centinaio
di metri, poi per mancanza di polvere ricadde al suolo disintegrandosi.
Stavo diventando grande, Giuliano stava con una ragazzina ed
io mi sentivo sempre più solo. Lucia mi teneva un po'
compagnia e spesso rimanevamo ore insieme a parlare e a leggere.
Lei mi parlava di un ragazzo che non la vedeva nemmeno e io di
una ragazzina di Livorno che però preferiva un altro a
me, compatendoci a vicenda.
Giuliano cominciò anche a fumare e dopo un po' lo imitai.
Le sigarette che si potevano comprare sciolte ce le facevamo
comprare dai ragazzi più grandi, naturalmente dietro compensi.
I nostri ormoni cominciavano a funzionare e anche un semplice
calendario che offrivano i parrucchieri faceva il suo effetto.
Una sera decidemmo di tornare in soffitta per ricercare quelle
cartoline e fotografie di donnine che avevamo scoperto quando
eravamo più piccoli; poi ci venne in mente di salire sul
tetto. Ci avevano detto che si potevano osservare delle ragazzine
che si spogliavano prima di andare a letto. Al buio completo,
solo con una piccola torcia passammo da un tetto all'altro per
arrivare nel punto che ci interessava. Cercavamo di fare meno
rumore possibile ma le tegole si muovevano sotto i nostri piedi
e sul più bello vedemmo la luce di una torcia che si spostava
su di noi e una voce che iniziò a urlare. Cominciammo
a correre per tornare da dove eravamo venuti, l'adrenalina era
al massimo, a un certo punto inciampammo su uno strano cavo che
non avevamo visto prima e per poco non cademmo in qualche cortile.
Riuscimmo poi a tornare in casa con le gambe che ci tremavano
dallo spavento.
Più tardi scoprimmo che quei cavi erano stati messi da
Franco, che comunicava con un suo amico con una specie di telefono
che lui aveva inventato. Quando al mattino scesi in paese trovai,
cosa strana, Giuliano che si era già alzato e mi veniva
incontro. Andammo al bar dove ci ritrovavamo spesso e ascoltammo
le persone che parlavano della sera prima, dicendo che dei ladri
erano stati visti camminare in piena notte sui tetti, ma per
nostra fortuna nessuno sapeva chi fossero. Da allora decidemmo
che era meglio restare con i piedi ben piantati per terra.
Nelle serate estive andavamo sempre in giro in gruppi di sei
o sette ragazzi, le nostre escursioni arrivavano a volte nelle
campagne vicine a fare imbuzzate di pesche e altri frutti che
prendevamo "in prestito" dai padroni degli alberi.
Spesso arrivavamo fino al monumento ai caduti, dove giocavamo
a rimpiattino o saltavamo sotto il monumento dove c'era un mucchio
di paglia. Altre volte ci sdraiavamo in un prato vicino ad un
pagliaio a fantasticare sulle stelle cadenti.
Una sera, pur avendo una paura matta, decidemmo di entrare nel
cimitero. Si raccontava di persone che avevano visto un uomo
legato al cancello con delle catene, oppure di un becchino che
si era spaventato per una cassa da morto che si era mossa da
sola. Tutte queste cose, col condimento di macabre barzellette,
ci avevano condizionato molto, ma il desiderio di avventura era
più forte. In sei o sette trabarcammo l'alto e nero cancello
circondato da cipressi, mentre la luna rischiarava di quel tanto
da far sembrare ogni ombra un'eventuale nemico. Stringendosi
vicini passammo tra le tombe biancastre e arrivammo fino all'ossario.
Accesa una candela aprimmo una botola ed una montagna d'ossa
si aprì dinanzi ai nostri occhi, mentre una leggera brezza
muoveva i cipressi e ci faceva venire la pelle d'oca. Il ritorno
lo facemmo tutto di corsa con i capelli ritti e trabarcando il
cancello rimasi per un attimo attaccato su un puntale, facendomi
un grosso "sette" sui pantaloni. Invece un'altra volta
che eravamo in un campo a rimpinzarci d'uva, vedemmo da lontano
un contadino che tra le urla ci raggiunse con una raffica di
pallini partiti da un fucile da caccia.
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I bar
Nessun privato aveva la televisione
e i quattro bar del paese se ne contesero l'egemonia. Le sere,
specialmente il giovedì di "Lascia e raddoppia",
le persone si riversavano nelle salette dei bar adibite alla
tv, riempiendole all'inverosimile tra fumo di sigarette, odore
di vino e caffè. Assistevamo allo spettacolo rumoreggiando
e applaudendo all'indirizzo dei concorrenti del più famoso
dei quiz televisivi. Il bar dell'Acli fu quello che ebbe maggior
affluenza perché aveva una saletta separata abbastanza
grande da ospitare un centinaio di persone. Il bar di piazza,
"Licurgo", aveva una grande sala dove una decina di
tavoli con sedie erano a disposizione dei giocatori di carte.
La domenica pomeriggio e la sera i tavoli erano tutti occupati,
mentre intorno c'erano ovunque persone in piedi che assistevano
alle varie partite. Generalmente giocavano al "fiasco":
scopa, briscola e tresette erano i giochi, mentre il fiasco di
vino era quello che pagavano i due perdenti e che si scolavano
i quattro giocatori. Salendo un paio di scalini in fondo a sinistra
si entrava nella stanzetta della tv e da questa con una scala
di ferro a chiocciola si saliva al biliardo, dove essendoci un
solo tavolo, i giocatori si prenotavano su una lavagnetta.
Quello di Adolfino era il bar che noi ragazzi frequentavamo di
più, perché il figlio del padrone, Luciano, aveva
più o meno la nostra età. Era situato in borgo,
alla fine della discesa: era una lunga sala con a sinistra il
bancone e altre due salette una dietro l'altra che poi terminavano
in una grande chiostra ombreggiata da un pergolato. Noi non giocavamo
al fiasco, ma alla spuma che bevevamo in grande quantità
perché costava poco. Adolfino era un uomo molto magro
e con una bocca quasi sdentata, quando rideva gli uscivano fuori
un paio di zeppe ingiallite che facevano veramente schifo. Il
bar aveva anche un banco per il gelato e in estate l'odore della
macchina che lo amalgamava era pungente. Si dice che un bel giorno,
mentre mangiava il suo cono gelato, un ragazzo abbia trovato
uno dei famosi denti di Adolfino e almeno per quella stagione
il gelato non lo prese più nessuno. Anche Adolfino era
uno sfollato livornese e aveva l'animo dell'imprenditore, tanto
che in estate trasformò la chiostra in una pista da ballo
dotandola di orchestrina. Era l'unica del paese ed i ragazzi
alla domenica la frequentavano.
Ormai le inimicizie tra le varie bande erano finite e tutti eravamo
amici. Tra di noi c'era un ragazzo che probabilmente da piccolo
aveva avuto la poliomielite perché aveva una gamba che
mandava di traverso e un braccio che teneva sempre piegato, ma
era bravissimo a ping-pong e guidava una scassatissima lambretta
in modo spericolato. Poi c'era Luciano di Castello, Rosindo del
lattaiolo, Tullio, Alberto ed altri di cui non ricordo i nomi.
Un altro luogo di ritrovo per noi ragazzi era il barbiere: mentre
faceva i capelli noi leggevamo riviste e fumetti e dalla bocca
di Renato sapevamo tutto quello che succedeva in paese. Renato,
il barbiere era stato un corridore ciclista dilettante e il fratello
Alberto aveva la nostra età. Nel periodo natalizio a tutti
i clienti veniva regalato un piccolo calendario profumatissimo
con tante donnine seminude che portavamo sempre con noi.
Le bimbe e le ragazzine erano rimaste fino ad ora al di fuori
delle nostre attenzioni, ma ultimamente quasi senza rendercene
conto c'eravamo avvicinati a loro e nelle brevi passeggiate domenicali
ci scambiavamo scherzi e pensieri. Ci fermavamo alle panchine
del monumento oppure ci sdraiavamo vicino a un pagliaio lungo
la strada, ma arrivavamo difficilmente oltre la curva del cimitero,
perché i genitori delle ragazze non glielo permettevano.
Giuliano curava già una ragazzina mentre io cullavo solo
sogni. L'unica ragazzina che io frequentavo era Lucia sotto l'albero
di biancospino, ma tra noi c'erano solo parole perché
sia io che lei avevamo i nostri amori segreti. Era solo un'amica
anche se molto intima.
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cco, in cima alla salita vedo
il casottino della Madonnina, mio babbo la saliva in bicicletta
quando veniva a trovarci da Livorno. Io sono in auto. Ancora
pochi metri, l'ultima curva, ed ecco il paese. Chianni, arroccato
su una collina con la chiesa (la vaporiera), il castello e tutte
le case che seguono attaccate (i vagoni). Sembra sempre lo stesso
di cinquant'anni fa. La strada continua, curva dopo curva, ora
siamo al ponte della Fine che era stato distrutto durante la
guerra, altre curve ed eccomi al cimitero, con i suoi cipressi
lanciati verso il cielo e ancora avanti il mulino, il monumento
ai caduti, la strada per Rivalto, i lavatoi, il macello e la
fontana incastonata nel muro che anticipa la piazza.
Vedo il bar, lo spaccio, l'Acli, il rivellino che porta alla
chiesa, sembra proprio che il tempo si sia fermato. C'è
anche Giulietto, lui c'è sempre. Scendo di macchina, qualche
vecchietto se ne sta seduto a prendere il primo sole di primavera
sugli scalini del comune. Alcune donne con la borsa della spesa,
auto e moto in sosta, un paese tranquillo, le strade sono ormai
tutte asfaltate, ma manca qualcosa: i rumori? Solo quelli di
auto che passano. Mancano i carretti trainati da asini o buoi,
mancano i bambini che si rincorrono e gridano, mancano le rondini
e il loro cinguettio. Non vedo nessuna faccia riconoscibile,
solo Giulietto.
Qualcuno mi guarda con curiosità. Altre volte che ero
venuto ero sempre "Giancarlo il livornese", ora sono
solo un "forestiero" che gira per il paese. Vado verso
la fonte con i grossi alberi di castagne selvatiche di cui avevo
sempre le tasche piene. Sulla destra la villa Signorini
quale villa? Non c'è più.
Non esiste più il muro, il giardino, il biancospino, non
c'è più l'amaca, il salice, la pergola, non c'è
più Giuliano, e neanche Lucia. Una facciata tutta rifatta
in tono moderno, finestre ad arcata, scale in cotto che partono
dal basso da ambedue i lati per riunirsi poi al centro in un
portale a vetri antiriflesso, ringhiere in ferro battuto, è
la banca.
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