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fotografo in Livorno

 


Calzoni corti e scarpe con i chiodidi Giancarlo Barsotti
I parte
Prologo
La Befana
Le serate nella festa di Natale intorno al fuoco
L'orto
Il forno
Polli, conigli e piccioni
Il primo amore
Cirimpolla, Quadrello, Tappini e Palline
Le bande
III parte
I Robin Hood
Carretti di legno e botti
La Chiesa
Pasqua
La grande festa della mietitura e della trebbiatura
Il campo di calcio
La carabina
Zemmira
II parte
Colazioni e merende
La palla di cencio
La conca
I lavatoi
Casa Ferrini
La corriera e i fumetti
Giuliano
Il botro
Il cinema
Alfonsino di Mezzanotte
IV parte
La pineta di Rivalto
La fiera
La vendemmia
La prima Comunione
La Sterza
Lucia
La più bella
Franco
I bar
Epilogo
   

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I Robin Hood

Come oggi anche allora venivano fuori le mode e quello fu l'anno dell'arco e delle frecce. Cominciò tutto con la frenetica ricerca da parte di noi ragazzi degli ombrelli ormai in disuso. Veniva strappato il tessuto e poi, con la parte più lunga dell'intelaiatura veniva fabbricato l'arco. Il fabbro ci schiacciava l'estremità che poi veniva forata con un punteruolo, a queste due parti si applicava uno spago che tendeva l'arco. Le frecce si fabbricavano con i ferri più corti, una parte si faceva a punta sfregandola ripetutamente sulle pietre della strada con un po' di acqua e se non c'era l'acqua con la saliva. L'altra parte, sempre battuta dal fabbro veniva modellata a coda di rondine per poi essere inserita nello spago che tendeva l'arco. A questo punto eravamo tutti dei piccoli Robin Hood. Il brutto era che spesso queste armi ci venivano confiscate dai genitori e di ombrelli se ne trovava sempre meno. Questo accadeva perché in paese non si salvava più nessuna porta di casa essendo quelli i nostri principali bersagli per le gare di tiro a segno. I buchi che lasciavano le nostre frecce erano innumerevoli; eravamo diventati talmente bravi da fare un centro anche da 10-15 metri di distanza. A volte riuscivamo perfino a colpire qualche povero uccellino in volo, oppure uscivamo a caccia di topi che infilati dalle nostre frecce morivano all'istante.
Ad un'altezza di una decina di metri correvano per tutto il paese i fili di corrente elettrica. Un bel giorno mi venne la brutta idea di lanciare una mia freccia in aria che, guarda un po', andò a toccare quei cavi di corrente. Ci fu un lampo e uno schianto e per circa due o tre ore il paese rimase senza corrente. Naturalmente non si è mai saputo chi avesse causato il corto circuito. Come era venuta, la moda delle frecce passò, forse anche per mancanza di materia prima. Con l'aiuto dei nostri amici figli dei falegnami arrivò l'ora dei:

Carretti di legno e botti

Erano fatti in modo semplice e si sfasciavano continuamente date le vertiginose discese rimbalzanti che dovevano sopportare. La cosa più difficile da reperire erano le ruote. Per il resto due manici di granata come assi, uno spago ed il carretto era pronto. Con questi scorrazzavamo per tutto il paese falciando a volte qualche persona e facendo un baccano del diavolo. La discesa dalla casa di Mena era la più frequentata. Naturalmente non mancavano gli incidenti e spesso dovevo ricorrere alla mamma per medicare i ginocchi sanguinanti. Si facevano tra di noi delle vere e proprie gare di velocità con tanto di tempi e di classifiche.
Dopo esserci procurati due bulloni ed un dado eravamo pronti con i nostri botti. Non rimaneva altro che trovare, ed era la cosa più difficile, la pasticca di potassio che vendeva solo il farmacista. Ma spesso era possibile scovarle anche in casa perché venivano adoperate come disinfettante per le gengive. La procedura era questa: si scapocchiavano una decina di fiammiferi per procurarci il fosforo che faceva l'accensione, poi li mescolavamo a una mezza pasticca di potassio tritata che doveva fare il botto; si metteva la polvere tra due bulloni tenuti da un dado, si lanciavano in alto e ricadendo per punta scoppiavano con un rumore assordante.


 

La Chiesa

La domenica mattina il paese si vestiva a festa, i più per andare a messa, gli altri per girellare con i vestiti puliti e le scarpe lucide. Quando dal campanile suonava "la lunga" la gente si affrettava perché dopo che il prete aveva letto il vangelo la messa non veniva considerata più valida. La chiesa era situata in cima ad un castello e vi si accedeva da una scalinata che saliva al portone principale. Ognuno aveva il proprio posto ben preciso; gli uomini a sinistra e le donne a destra. Gli uomini rimanevano quasi sempre in piedi mentre le donne avevano una sedia o una panca personale con tanto di nome.
A destra dell'altare ce n'era un altro minore, dal quale attraverso una piccola porta si accedeva al campanile. Dal soffitto della piccola stanzetta quadrata cadevano quattro o cinque corde che salivano poi verso le campane. Per noi chierichetti era un divertimento appenderci alle corde per suonare le campane e per questo venivano effettuati dei turni. Quando era il momento della predica noi ragazzi ci mettevamo seduti sui gradini a lato dell'altare, le donne si sedevano e una buona parte degli uomini usciva fuori a fumarsi una sigaretta e a parlare della terra, dei raccolti e del tempo. Sul retro dell'altare c'era il coro e in questo semicerchio con sedili in legno stavano generalmente gli uomini più anziani.
All'uscita della messa la piazza del castello si riempiva di gente, che prima di andare a pranzo si tratteneva a parlare del più e del meno. Noi ragazzi ci divertivamo a fare delle discese sulla ringhiera di marmo a lato della scala. Uno scherzo che veniva fatto era quello di sputare sul marmo prima che uno si lasciasse scivolare e i pantaloni puliti andavano a farsi benedire. Il primo pomeriggio della domenica era consuetudine andare a visitare i morti e il tratto di strada tra il paese e il cimitero era un viavai continuo di persone. Anche il cimitero era per noi ragazzi fonte di svago: ci rincorrevamo e facevamo "rimpiattarello" tra le tombe, poi riempivamo le nostre tasche di bacche di cipresso e con quelle ci davamo battaglia.


 

Pasqua

La settimana antecedente alla Domenica delle Palme iniziavano le famose pulizie delle case. Da Mena era una vera rivoluzione: una stanza al giorno veniva letteralmente smontata e rimontata, qualche volta addirittura con l'imbiancatura per essere poi pronta alla benedizione del pievano. Quest'ultimo passava per tutte le abitazioni del paese con due chierichetti che portavano la navicella e il turibolo dell'incenso. Anch'io sono stato qualche volta a fare quest'esperienza ed era usanza per i paesani dare un'offerta per la chiesa e qualche spicciolo o dolci a noi chierichetti. Alla sera avevo le tasche piene di caramelle, confetti e qualche pezzo da dieci lire.
Tutto il paese si mobilitava per la Pasqua e il venerdì santo era il culmine. Fin dal mattino le donne riempivano i panieri di petali di fiori, che nel tardo pomeriggio spargevano nelle strade con scritte e disegni. Mentre ogni finestra veniva abbellita con tappeti colorati e luci improvvisate. Tutto era pronto per la processione. Scale, lance, galletti, corone di spine, elmi, scudi, lampioni, tuniche, sandali e tanti altri oggetti erano ciò che ognuno indossava o portava per partecipare con impegno alla serata.
La processione si snodava tra le viuzze del paese in salite e discese tra luci, canti liturgici e profumo di fiori, con vasi di vecce e grano che adornavano gli scalini delle case, mentre la banda suonava con tanto di tamburi e piatti metallici. Camminavamo per più di tre ore, tanto da arrivare in tarda serata stremati, sudati e con i piedi stanchissimi, pieni di polvere per le stradine che erano ancora sterrate.


 

La grande festa della mietitura e della trebbiatura

Quando il grano diventa color oro è il momento di tagliarlo ed allora tutti in Casciano, dove Tonino aveva le terre. Dopo circa 45 minuti di camminata tra viottoli e strade dove passavano solo barrocci si arrivava alle terre. Per il giorno della mietitura e trebbiatura Tonino chiamava altri lavoranti detti a opre e amici e parenti che poi lui avrebbe ricambiato. Era appena l'alba che i lavoranti e gli amici cominciavano con le falci a tagliare il grano nelle prode che veniva poi raccolto nei covoni. Io stavo a guardare mangiando qualche pesca o altri frutti di stagione. Verso l'una arrivava Mena con pentoloni, piatti e posate. Ognuno si trovava un posto su l'aia e il minestrone veniva distribuito abbondantemente. Poi polli e conigli fritti riempivano i piatti ed i fiaschi di vino venivano consumati molto velocemente. Poi veniva ripreso il lavoro e al tramonto un improvvisata fisarmonica divertiva le persone che accennavano a qualche balletto.
La trebbiatura si ripeteva più o meno con gli stessi rituali con la differenza che veniva noleggiata una trebbiatrice. Gli uomini lanciavano i fasci di grano sopra la macchina ed un uomo o una donna lo prendeva e lo indirizzava nell'apposita fessura dove veniva sballottato e sgranato. Il rumore della trebbiatrice e del trattore copriva le grida delle persone e la polvere della pula indorava l'aria. I chicchi di grano uscivano dalla parte posteriore della trebbiatrice riempiendo i grandi sacchi di tela bianca che poi venivano caricati sul barroccio trainato da due grossi buoi bianchi. Dall'altra parte si innalzava il pagliaio con vicino la montagnola di pula. Anche la trebbiatura finiva con una grande abbuffata e vino a volontà.


 

Il campo di calcio

Il campo era situato in località "Le case", un po' lontano dal paese, e per arrivarci era necessaria una bella camminata. Rimaneva su un'altura pianeggiante: da una parte il fianco del monte, l'altro lato invece era aperto a valle e spesso i palloni si perdevano giù nella discesa. La squadra era per lo più composta da giovani, fratelli più grandi dei miei amici. I migliori erano Alberto Mariotti e Alberto Fattorini, poi c'era anche Cecchino, figlio di Mena e Tonino, che giocava terzino e quando con le sue gambe storte toccava la palla, la spazzava via alla "spera-in-Dio". Le tribune non esistevano, ma erano stati fatti dei gradini sulla terra nella parte a monte, dove gli spettatori si potevano sedere.


 

La carabina

Per una befana ebbi in dono una carabina, era il più bel regalo che avessi mai ricevuto. Com'era logico la divisi con Giuliano, anche perché il suo giardino si adattava perfettamente per le nostre gare a bersaglio. Eravamo diventati tutt'uno con l'arma, i nostri piumini mancavano raramente il centro. Giuliano aveva una sorellina piuttosto antipatica che veniva sempre tra i piedi. Si chiamava Lucia, aveva due fiocchi nei capelli che noi chiamavamo eliche; il tiro dei capelli e il disfacimento dei fiocchi era il nostro passatempo preferito e lei, aprendo il rubinetto delle lacrime andava dalla mamma che ci imponeva di far giocare anche lei. Naturalmente con bamboline e tegamini. Noi non ci pensavamo nemmeno e appena era possibile si mollava tornando alla nostra carabina o alle nostre carte. Con il tempo la carabina perse un po' di compressione, ma calcolando bene e con tiri un po' a obice, riuscivamo ugualmente a fare centro. Un giorno in giardino c'era il nonno che era molto vecchio e fumava il sigaro toscano. Se ne stava ad ore seduto a prendere il sole sempre con quel sigaro puzzolente in bocca. A un certo punto Giuliano prese ben bene la mira e da cinque o sei metri portò via di netto il sigaro dalla bocca del nonno. Risultato: carabina confiscata per molto tempo.


 

Zemmira

Chi ha visto il film "Biancaneve e i sette nani" si ricorderà certamente della famosa strega con la mela, Ebbene, Zemmira era uguale. In testa un fazzoletto nero copriva in parte gli scarruffati capelli bianchi che uscivano in ciuffi ispidi, lei ingobbita quasi a squadra con il terreno, camminava appoggiandosi con una mano a un bastone mentre con l'altra portava un paniere gelosamente coperto da un canovaccio. Con quel naso adunco e il vestito sempre nero che le arrivava ai piedi si incontrava nei posti più disparati e noi ragazzi scappavamo appena si vedeva da lontano.
Il suo lavoro consisteva nel camminare tutto il giorno peri campi e raccogliere tutto quello che veniva abbandonato. Spighe di grano, fave, ceci, olive e pigne d'uva finivano nel suo grande paniere poi accuratamente ricoperto. Al grido: "Arriva la strega" ce la davamo a gambe levate con i capelli ritti dalla paura mentre lei con il bastone alzato ci inseguiva gridando. Ci ritrovavamo dopo, ansanti e sudati al riparo nel nostro fortino ai margini del canneto.