I Robin
Hood
Come oggi anche allora venivano
fuori le mode e quello fu l'anno dell'arco e delle frecce. Cominciò
tutto con la frenetica ricerca da parte di noi ragazzi degli
ombrelli ormai in disuso. Veniva strappato il tessuto e poi,
con la parte più lunga dell'intelaiatura veniva fabbricato
l'arco. Il fabbro ci schiacciava l'estremità che poi veniva
forata con un punteruolo, a queste due parti si applicava uno
spago che tendeva l'arco. Le frecce si fabbricavano con i ferri
più corti, una parte si faceva a punta sfregandola ripetutamente
sulle pietre della strada con un po' di acqua e se non c'era
l'acqua con la saliva. L'altra parte, sempre battuta dal fabbro
veniva modellata a coda di rondine per poi essere inserita nello
spago che tendeva l'arco. A questo punto eravamo tutti dei piccoli
Robin Hood. Il brutto era che spesso queste armi ci venivano
confiscate dai genitori e di ombrelli se ne trovava sempre meno.
Questo accadeva perché in paese non si salvava più
nessuna porta di casa essendo quelli i nostri principali bersagli
per le gare di tiro a segno. I buchi che lasciavano le nostre
frecce erano innumerevoli; eravamo diventati talmente bravi da
fare un centro anche da 10-15 metri di distanza. A volte riuscivamo
perfino a colpire qualche povero uccellino in volo, oppure uscivamo
a caccia di topi che infilati dalle nostre frecce morivano all'istante.
Ad un'altezza di una decina di metri correvano per tutto il paese
i fili di corrente elettrica. Un bel giorno mi venne la brutta
idea di lanciare una mia freccia in aria che, guarda un po',
andò a toccare quei cavi di corrente. Ci fu un lampo e
uno schianto e per circa due o tre ore il paese rimase senza
corrente. Naturalmente non si è mai saputo chi avesse
causato il corto circuito. Come era venuta, la moda delle frecce
passò, forse anche per mancanza di materia prima. Con
l'aiuto dei nostri amici figli dei falegnami arrivò l'ora
dei:
Carretti
di legno e botti
Erano fatti in modo semplice
e si sfasciavano continuamente date le vertiginose discese rimbalzanti
che dovevano sopportare. La cosa più difficile da reperire
erano le ruote. Per il resto due manici di granata come assi,
uno spago ed il carretto era pronto. Con questi scorrazzavamo
per tutto il paese falciando a volte qualche persona e facendo
un baccano del diavolo. La discesa dalla casa di Mena era la
più frequentata. Naturalmente non mancavano gli incidenti
e spesso dovevo ricorrere alla mamma per medicare i ginocchi
sanguinanti. Si facevano tra di noi delle vere e proprie gare
di velocità con tanto di tempi e di classifiche.
Dopo esserci procurati due bulloni ed un dado eravamo pronti
con i nostri botti. Non rimaneva altro che trovare, ed era la
cosa più difficile, la pasticca di potassio che vendeva
solo il farmacista. Ma spesso era possibile scovarle anche in
casa perché venivano adoperate come disinfettante per
le gengive. La procedura era questa: si scapocchiavano una decina
di fiammiferi per procurarci il fosforo che faceva l'accensione,
poi li mescolavamo a una mezza pasticca di potassio tritata che
doveva fare il botto; si metteva la polvere tra due bulloni tenuti
da un dado, si lanciavano in alto e ricadendo per punta scoppiavano
con un rumore assordante.
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La
Chiesa
La domenica mattina il paese
si vestiva a festa, i più per andare a messa, gli altri
per girellare con i vestiti puliti e le scarpe lucide. Quando
dal campanile suonava "la lunga" la gente si affrettava
perché dopo che il prete aveva letto il vangelo la messa
non veniva considerata più valida. La chiesa era situata
in cima ad un castello e vi si accedeva da una scalinata che
saliva al portone principale. Ognuno aveva il proprio posto ben
preciso; gli uomini a sinistra e le donne a destra. Gli uomini
rimanevano quasi sempre in piedi mentre le donne avevano una
sedia o una panca personale con tanto di nome.
A destra dell'altare ce n'era un altro minore, dal quale attraverso
una piccola porta si accedeva al campanile. Dal soffitto della
piccola stanzetta quadrata cadevano quattro o cinque corde che
salivano poi verso le campane. Per noi chierichetti era un divertimento
appenderci alle corde per suonare le campane e per questo venivano
effettuati dei turni. Quando era il momento della predica noi
ragazzi ci mettevamo seduti sui gradini a lato dell'altare, le
donne si sedevano e una buona parte degli uomini usciva fuori
a fumarsi una sigaretta e a parlare della terra, dei raccolti
e del tempo. Sul retro dell'altare c'era il coro e in questo
semicerchio con sedili in legno stavano generalmente gli uomini
più anziani.
All'uscita della messa la piazza del castello si riempiva di
gente, che prima di andare a pranzo si tratteneva a parlare del
più e del meno. Noi ragazzi ci divertivamo a fare delle
discese sulla ringhiera di marmo a lato della scala. Uno scherzo
che veniva fatto era quello di sputare sul marmo prima che uno
si lasciasse scivolare e i pantaloni puliti andavano a farsi
benedire. Il primo pomeriggio della domenica era consuetudine
andare a visitare i morti e il tratto di strada tra il paese
e il cimitero era un viavai continuo di persone. Anche il cimitero
era per noi ragazzi fonte di svago: ci rincorrevamo e facevamo
"rimpiattarello" tra le tombe, poi riempivamo le nostre
tasche di bacche di cipresso e con quelle ci davamo battaglia.
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Pasqua
La settimana antecedente alla
Domenica delle Palme iniziavano le famose pulizie delle case.
Da Mena era una vera rivoluzione: una stanza al giorno veniva
letteralmente smontata e rimontata, qualche volta addirittura
con l'imbiancatura per essere poi pronta alla benedizione del
pievano. Quest'ultimo passava per tutte le abitazioni del paese
con due chierichetti che portavano la navicella e il turibolo
dell'incenso. Anch'io sono stato qualche volta a fare quest'esperienza
ed era usanza per i paesani dare un'offerta per la chiesa e qualche
spicciolo o dolci a noi chierichetti. Alla sera avevo le tasche
piene di caramelle, confetti e qualche pezzo da dieci lire.
Tutto il paese si mobilitava per la Pasqua e il venerdì
santo era il culmine. Fin dal mattino le donne riempivano i panieri
di petali di fiori, che nel tardo pomeriggio spargevano nelle
strade con scritte e disegni. Mentre ogni finestra veniva abbellita
con tappeti colorati e luci improvvisate. Tutto era pronto per
la processione. Scale, lance, galletti, corone di spine, elmi,
scudi, lampioni, tuniche, sandali e tanti altri oggetti erano
ciò che ognuno indossava o portava per partecipare con
impegno alla serata.
La processione si snodava tra le viuzze del paese in salite e
discese tra luci, canti liturgici e profumo di fiori, con vasi
di vecce e grano che adornavano gli scalini delle case, mentre
la banda suonava con tanto di tamburi e piatti metallici. Camminavamo
per più di tre ore, tanto da arrivare in tarda serata
stremati, sudati e con i piedi stanchissimi, pieni di polvere
per le stradine che erano ancora sterrate.
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La
grande festa della mietitura e della trebbiatura
Quando il grano diventa color
oro è il momento di tagliarlo ed allora tutti in Casciano,
dove Tonino aveva le terre. Dopo circa 45 minuti di camminata
tra viottoli e strade dove passavano solo barrocci si arrivava
alle terre. Per il giorno della mietitura e trebbiatura Tonino
chiamava altri lavoranti detti a opre e amici e parenti che poi
lui avrebbe ricambiato. Era appena l'alba che i lavoranti e gli
amici cominciavano con le falci a tagliare il grano nelle prode
che veniva poi raccolto nei covoni. Io stavo a guardare mangiando
qualche pesca o altri frutti di stagione. Verso l'una arrivava
Mena con pentoloni, piatti e posate. Ognuno si trovava un posto
su l'aia e il minestrone veniva distribuito abbondantemente.
Poi polli e conigli fritti riempivano i piatti ed i fiaschi di
vino venivano consumati molto velocemente. Poi veniva ripreso
il lavoro e al tramonto un improvvisata fisarmonica divertiva
le persone che accennavano a qualche balletto.
La trebbiatura si ripeteva più o meno con gli stessi rituali
con la differenza che veniva noleggiata una trebbiatrice. Gli
uomini lanciavano i fasci di grano sopra la macchina ed un uomo
o una donna lo prendeva e lo indirizzava nell'apposita fessura
dove veniva sballottato e sgranato. Il rumore della trebbiatrice
e del trattore copriva le grida delle persone e la polvere della
pula indorava l'aria. I chicchi di grano uscivano dalla parte
posteriore della trebbiatrice riempiendo i grandi sacchi di tela
bianca che poi venivano caricati sul barroccio trainato da due
grossi buoi bianchi. Dall'altra parte si innalzava il pagliaio
con vicino la montagnola di pula. Anche la trebbiatura finiva
con una grande abbuffata e vino a volontà.
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Il
campo di calcio
Il
campo era situato in località "Le case", un
po' lontano dal paese, e per arrivarci era necessaria una bella
camminata. Rimaneva su un'altura pianeggiante: da una parte il
fianco del monte, l'altro lato invece era aperto a valle e spesso
i palloni si perdevano giù nella discesa. La squadra era
per lo più composta da giovani, fratelli più grandi
dei miei amici. I migliori erano Alberto Mariotti e Alberto Fattorini,
poi c'era anche Cecchino, figlio di Mena e Tonino, che giocava
terzino e quando con le sue gambe storte toccava la palla, la
spazzava via alla "spera-in-Dio". Le tribune non esistevano,
ma erano stati fatti dei gradini sulla terra nella parte a monte,
dove gli spettatori si potevano sedere.
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La
carabina
Per una befana ebbi in dono
una carabina, era il più bel regalo che avessi mai ricevuto.
Com'era logico la divisi con Giuliano, anche perché il
suo giardino si adattava perfettamente per le nostre gare a bersaglio.
Eravamo diventati tutt'uno con l'arma, i nostri piumini mancavano
raramente il centro. Giuliano aveva una sorellina piuttosto antipatica
che veniva sempre tra i piedi. Si chiamava Lucia, aveva due fiocchi
nei capelli che noi chiamavamo eliche; il tiro dei capelli e
il disfacimento dei fiocchi era il nostro passatempo preferito
e lei, aprendo il rubinetto delle lacrime andava dalla mamma
che ci imponeva di far giocare anche lei. Naturalmente con bamboline
e tegamini. Noi non ci pensavamo nemmeno e appena era possibile
si mollava tornando alla nostra carabina o alle nostre carte.
Con il tempo la carabina perse un po' di compressione, ma calcolando
bene e con tiri un po' a obice, riuscivamo ugualmente a fare
centro. Un giorno in giardino c'era il nonno che era molto vecchio
e fumava il sigaro toscano. Se ne stava ad ore seduto a prendere
il sole sempre con quel sigaro puzzolente in bocca. A un certo
punto Giuliano prese ben bene la mira e da cinque o sei metri
portò via di netto il sigaro dalla bocca del nonno. Risultato:
carabina confiscata per molto tempo.
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Zemmira
Chi ha visto il film "Biancaneve
e i sette nani" si ricorderà certamente della famosa
strega con la mela, Ebbene, Zemmira era uguale. In testa un fazzoletto
nero copriva in parte gli scarruffati capelli bianchi che uscivano
in ciuffi ispidi, lei ingobbita quasi a squadra con il terreno,
camminava appoggiandosi con una mano a un bastone mentre con
l'altra portava un paniere gelosamente coperto da un canovaccio.
Con quel naso adunco e il vestito sempre nero che le arrivava
ai piedi si incontrava nei posti più disparati e noi ragazzi
scappavamo appena si vedeva da lontano.
Il suo lavoro consisteva nel camminare tutto il giorno peri campi
e raccogliere tutto quello che veniva abbandonato. Spighe di
grano, fave, ceci, olive e pigne d'uva finivano nel suo grande
paniere poi accuratamente ricoperto. Al grido: "Arriva la
strega" ce la davamo a gambe levate con i capelli ritti
dalla paura mentre lei con il bastone alzato ci inseguiva gridando.
Ci ritrovavamo dopo, ansanti e sudati al riparo nel nostro fortino
ai margini del canneto.
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