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Lorenzo Sottini

  

 

Pierina Bartoloni ci invia lo scritto "Razzolando nei miei ricordi" di Lorenzo Sottini che pubblichiamo con gioia:

 

Forse, nel mio scritto, si coglierà una strisciante turibolazione alle vecchie generazioni di santagatesi. Comunque non ho inteso proporle per un processo di canonizzazione: anche loro avevano le loro debolezze umane. Ho inteso solo prendere e dare atto che la comunanza di vita nel "Villaggio di Sant'Agata" era capace di esprimere rapporti umani che, talvolta, nulla avevano da invidiare a quelli espressi da vincoli di sangue.
Nell'ora del dolore e della prova un santagatese aveva sempre vicino al suo letto l'amico a fare nottata. Se una barca di grano bruciava, covoni scendevano da altre barche perché nel futuro inverno non ci fosse una madia senza pane. Ho il ricordo lontano del viatico portato processionalmente ai morenti che poi, la pietà degli amici, a spalla, accompagnava all'ombra dei nostri grandi cipressi.
Nessuna meraviglia allora che io, con una caratura di vecchiaia come la mia, che chiude l'orizzonte a speranze terrene, tenti, tuffandomi nei ricordi, di rivivere momenti lontani di amore e fraterna solidarietà ormai scomparsi per sempre.

Lorenzo Sottini

 

IL VILLAGGIO DI SANT'AGATA

Due miei parenti, il professor Giuseppe Sottini, zio di mio padre, docente alla Normale di Pisa e assessore in quella città, e Ranieri Aiazzi, suo cognato (aveva sposato una Sottini sorella di mio nonno), discreto poeta e letterato, proprietario a Sant'Agata della Fattoria Aiazzi, sul finire dell'ottocento in loro scritti definirono il paese dove erano nati e a cui si sentivano visceralmente legati, "Il Villaggio di Sant'Agata". Una definizione che evoca un insediamanto umano lontano dai centri cittadini in cui la forza lavoro è orientata verso la terra, sostenuta e potenziata da una attività artigianale.

[ Sant'Agata in una stampa dell'800 ]

Quella realtà portava il sigillo di una civiltà contadina, ricca di valori umani e cristiani, ancorata a tradizioni antiche che per tutti avevano il valore di norme non scritte. La ripartizione del reddito agrario era dominata, da secoli, dal patto di mezzadria che fissava al 50% la divisione dei beni tra la proprietà e il contadino.
Il borgo di Sant'Agata con la sua Pieve millenaria è al centro del villaggio. Intorno una terra fertile e generosa, frazionata in poderi, corsa da filari di viti lungo declivi erbosi accarezzati dal sole. Il tempo con le sue stagioni la domina e la feconda. A misurarlo sono i tocchi dell'orologio ancorato al secolare campanile. Capita che, a quei tocchi, qualche vecchio contadino, alzando gli occhi verso il sole, mormori: "Sarà bene dire al Pievano che rimetta l'orologio".
Nel borgo del villaggio di Sant'Agata, in località intitolata alla mia famiglia, nacqui nel lontano 1913. Lo so che a nessuno può interessare quando sono nato, anche perché a nessuno interessa che io sia nato. Perciò dirò subito, che questo mio andare a ritroso con la memoria e tuffarmi nei miei ricordi, che lascio poi liberamente cadere su questi fogli, lo faccio per me o forse anche per qualche amico se, frugando per Sant'Agata, riuscirò a trovarne ancora qualcuno in vita.
La mia famiglia, da sempre, era impegnata nella produzione del carbone fino alla consegna del prodotto ai centri di vendita. Di quella attività mi parlò con affettuoso rimpianto, Maremmino che per tanti anni fu in casa mia, fedele e valido collaboratore.
Ricordavo quegli anni lontani alla zia Emma nella lettera che le scrissi in occasione del suo centesimo compleanno: "Non è ancora l'alba. La grande cucina si anima. Si sente nella rimessa lo scalpiccio degli zoccoli dei muli ai quali il babbo e i garzoni montano i pesanti basti, cui fa eco la voce della gora che porta ai mulini le immacolate acque dei monti.".
Ogni volta che incontro la zia Emma, la sua mente ancora lucida e presente di ultra centenaria (104 anni) mi conduce lungo i sentieri dei suoi lontani ricordi fino al "Sottini" per rivivere con lei un'alba che non tramonterà mai nella sua anima.

L'artigianato nel Villaggio

Le attività artigianali del paese furono fondamentalmente strutturate per soddisfare la domanda del mondo contadino cui fornivano rudimentali ma efficaci strumenti di lavoro. Il paese forniva inoltre manodopera per la conservazione del patrimonio edilizio e per l'eventuale costruzione di nuovi insediamenti. Capitava spesso che provetti artigiani fissassero le loro sedi di lavoro presso note fattorie santagatesi.
Ora mi fermo. Metto la retromarcia e con la fantasia inverto il cammino del tempo. Sono bambino in un lontano giorno degli anni '20. Seduto sugli scalini del Romei, sento arrivare alle mie orecchie rumori (o suoni?). È la musica che accompagna la fatica degli uomini nelle botteghe artigiane di Sant'Agata. L'armonia è dominata dal suono argentino che si leva dalle incudini di Gigi del Berti e Gioacchino Modi quando i grossi martelli vi battono contro il ferro rovente ed è scroscio di faville.
L'armonia ad un tratto si appanna ferita da un rumore discontinuo e lacerante: è il legno pressato contro una sega nella bottega di falegname del Trebbiani. A intervalli, colpi stizzosi di martello che batte una tomaia contro una pietra lucida e dura, vengono dalla bottega di Geppino calzolaio detto "Il Gravido". Vicino a lui intrecciava punti di lesina Cecco di Maremma suo futuro genero.
In quella bottega, da bambino, andavo spesso a leggere brani del libro di Pinocchio. Talvolta vi vedevo al mio posto Angioluccio impegnato nella lettura del giornale "La Nazione". Ne iniziava la lettura così: "La Nazione, centesimi 20...".

Granchino

Anche un altro artigiano ha dato colore e calore al variegato mondo di Sant'Agata: Alfonso detto Granchino, che al suo lavoro di imbianchino (Spiaccicaragni) associava, nei fine settimana, quello di barbiere. Era piccolo di statura, con baffetti chiari sopra le labbra sempre tirate che si aprivano leggermente. Era sempre nervoso e reattivo.
Una brutta caduta dalla bicicletta gli aveva offeso seriamente e permanentemente una gamba. Quando fu chiamato alla visita di leva, il Colonnello che presiedeva la commissione, notò subito quella vistosa invalidità. Invitatolo a camminare, commentava con i suoi collaboratori la sua claudicanza: - Si vede! Si vede! - e Granchino: "Perdio! Anche un bischero lo vede!" Colonnello: "Abile, arruolato."
Ricordo poi una burla feroce che ha sempre lui per protagonista. C'ero anch'io. Un afoso pomeriggio di un agosto avanzato Granchino, alzando il mignolo, sta muovendo il rasoio su una barba insaponata. Improvvisamente, ansimando, arriva di corsa il Galla: " Dammi il fucile! Dammi il fucile! Nel granturco del Fredduccio c'è una lepre a covo!" Granchino posa il rasoio, lascia il cliente insaponato e con voce alterata dall'emozione: "Vengo io, vengo io!". Era proprio quello che cercavamo. Un piccolo sciame di curiosi con in testa il protagonista s'avvia verso il campo di granturco. Man mano che ci avviciniamo Granchino ogni poco si volta e fa ampi gesti al codazzo che lo segue, invitando tutti a rallentare e fermarsi. Col dito sul naso poi, chiede silenzio. Molti obbediscono prevedendo anche la reazione finale al velenoso scherzo che si sta consumando. Granchino e il Galla, ormai al campo di granturco, borbottano fra loro a voce sempre più bassa. È facile immaginare quello che si dicono: Attento. Fa piano. Non muovere le pannocchie di granturco. Abbassiamoci. Ora strisciamo contro vento. Non siamo lontani. Guarda là quel pedale di pioppo. La vedi? Si! Altri due o tre passi, poi l'è a tiro. Due passi ancora e parte la coppiola.
Granchino: "L'ho presa! L'ho presa!" Una gran risata: poi non si vede più nessuno. Il Galla, con quattro salti, va a schiacciarsi nel campo di granturco.
Gli altri di corsa si erano tutti allontanati. Granchino, con ai piedi una pelle di coniglio riempita di paglia, e gli occhi che sembravano uscire dalle orbite, mulinava in aria il fucile ormai scarico vomitando insulti, che a scriverli scapperebbero dal foglio, contro quei figli di puttana ai quali giurava di mangiare il core.
Pallido, scosso da un leggero tremito, tornò alla bottega dove il cliente l'aspettava. Rinsaponò la barba rimasta e alla fine dovette cicatrizzare tre taglietti che il rasoio, mosso da una mano non ferma, aveva provocato al malcapitato.
Granchino non mancava certo, anzi l'aveva quasi sempre, la risposta stizzosa impanata nel suo linguaggio colorito. Era nota quella che dava alla moglie, quando era afflitto dal mal di denti. In quei momenti, la buona e pia moglie Ernesta, lo scongiurava a rivolgersi in preghiera a Sant'Apollonia. E lui:"Va a pigliallo in c… te e lei".
Ho poi un personale ricordo legato a Granchino e alla sua bottega di parrucchiere. E' un ricordo lontano una ottantina di anni e coincide con la ricorrenza di una fredda Sant'Agatina. Ero in quel giorno nella sua bottega a farmi rapare la testa. Entra Veruca commentando: "e 33" .Tante erano le Sant'Agatine che aveva festeggiato. Da tanto tempo mi frulla nella testa il proposito di conoscere l'anno di quella Sant'Agatina.
Per conoscerlo mi manca solo una data: l'anno di nascita di Veruca. Me la diranno la figlia Gina o la nuora Luisina. Qualcuno forse leggendo questi fogli sorriderà, spero per compassione non per scherno, per quanta eco cose apparentemente tanto banali nel 2002, abbiano invece ancora tanto significato nell'animo e nel ricordo di un vecchio.

Conoscere quella data significa per me rivedere, come in una schermata nella mia Sant'Agata d'allora volti a cui mi legò comunanza di vita, amici con cui condivisi i giorni sereni dell'infanzia, anziani a cui detti rispetto e affetto.
Spesso, quando vado al nostro cimitero, percorro il muro perimetrale alla sinistra dell'ingresso. Davanti ai loculi che custodiscono i resti mortali di tanti cari vecchi amici rivivo idealmente con loro lontane emozioni. Mi pare che qualcuno, quando fisso le loro immagini stampate nell'ovale porcellanato, mi gridi: "Ti ricordi Lorenzo?" "Oh amici: mi ricordo! mi ricordo!".

Le ultime volte che rividi Granchino in questo mondo strascicava la sua gamba invalida muovendosi, per picco1i tratti,a destra e a sinistra dell'ingresso della sua casa, lungo un marciapiedi di Rifredi. Era un autunno avanzato. Mi parve che, gli mancasse la luce, l'orizzonte e l'ossigeno del paese lontano. Sentii una stretta al cuore. Lo ricordai per un attimo, nella piazza di Sant'Agata in cima a una scala, in una chiara mattinata d'estate, a raschiare l'intonaco sopra la bottega della Verdiana. Gli volava intorno, nella luce del sole improvvisando un carosello, uno sciame di rondini.

Il Mulino e i suoi artigiani

Lascio ora gli scalini del Romei e vado al muro del cimitero. Di qui domino il Mulino. Alle mie orecchie arriva la musica di prima. Sono cambiati gli orchestrali, ma non gli strumenti.
Al Mulino lavorano infatti due fabbri: Modi Alfredo e Modi Maggiore e una falegnameria dei fratelli Noferini. La prima cosa che si nota è che non si fa il fabbro a Sant'Agata se sulla carta d'identità non c'è un nome: Modi.
Anche il Mulino ha poi il suo bravo calzolaio: il Poggini che non si tira indietro quando è il momento di battere le tomaie.
Prima di tornare alla piazza voglio però ricordare due piccoli artigiani che aprivano la loro porta sulla salita del Mulino: Adriano Parrini e Donato Doni. Adriano Parrini credo fosse un transfuga della patriarcale famiglia Parrini, proprietaria del secolare mulino mosso ancora dalla forza dell'acqua che è lì da tanti secoli immutato nella sua struttura e sembra portare a noi la voce e le tradizioni dei secoli andati.
Adriano aveva la sua macina sotto la pescaia del Mulino. Era un uomo schivo, musone e solitario. Non l'ho mai visto fraternizzare con nessuno. Viveva come se gli fossero stati inflitti gli arresti domiciliari. A chi bussava alla sua porta talvolta rispondeva: "Non c'è nessuno!"
Quand'ero bambino lo vedevo ogni tanto passare dal Sottini con una pala in spalla diretto alla "Còrta" per stasare la gora che il Cornocchio in piena aveva tappato. Erano le occasioni per noi ragazzi di correre lungo il suo corso a prendere le vaschette che saltellavano nel suo alveo ormai secco mandando nell'aria riflessi d'argento.
Donato Doni si liquida alla svelta: era un artigiano stagionale. In un bugigattolo lavorava la canapa che era stata in acqua a macerare nei "purghi" per un lungo periodo. Ricordo la esile moglie di Donato a battere e strisciare su punte acuminate i gambi di canapa che la lunga macerazione in acqua aveva resi morbidi e flessibili.

I Parrini e il loro storico mulino

Invece di tornare alla piazza come programmato, ora riaccendo il motore della fantasia, scendo il Mulino e mi avvio lungo la strada che lambisce il corso del Romiccioli. Ai piedi del Campaccio, svolto a sinistra e percorro una stradina , sempre ben tenuta, con la sua macchia di bossolo e sbuco nella piazzetta del secolare mulino dei Parrini.
Il mulino, da tempo indefinito, era di proprietà e gestito da questa patriarcale famiglia. Chiunque arrivava nella piazzetta antistante era gratificato da cordialità, amicizia e accoglienza. Anche Adriano era nato qui. [...]
Il mulino sorge in un angolo delizioso, sereno, accogliente e distensivo. Le sue vetuste strutture murarie sono lineari e suggestive. I campi intorno erano popolati di polli e di processioni di pulcini e curati da chi aveva capacità e gusto.
Anche se verdi filari di viti intorno alla costruzione evocavano una ricca cantina, l'acqua era pur sempre la vera "Signora" del Parrini. Guai se scioperava. Si fermava la vita. Essa era non solo la bellezza delle sue pescaie, ma era soprattutto la forza, quando ingoiata dai retricini correva al possente urto contro le pale mettendo in movimento le pesanti macine.
Le granaglie polverizzate saturavano l'aria di polvere bianca e di profumi. Il rumore sordo e monotono delle macine si fondeva con quello fresco e musicale dell'acqua. Era una scala di tonalità legata ai tanti suoi passaggi nei meandri del mulino nella sua corsa verso il Moico.
Tonio mi ha detto che nei tempi andati le macine hanno girato anche di notte. Soprattutto al tempo della macinatura dei marronsecchi. File di carri attendevano nella piazzetta il loro turno. È facile immaginare gli argomenti della conversazione colorita fra gli uomini in attesa in una fredda notte autunnale di plenilunio. Un fuoco improvvisato li difenderà dai morsi del freddo.
Il primo racconterà che dovrà fermare una lazza regalata dai temporali degli ultimi giorni. Chi invece dovrà riportare alla monta al Martini una vacca, che la prima volta è andata a vuoto. Un altro dovrà spostare la concimaia, perché sembra dia fastidio al pozzo ecc. ecc. La lunga attesa al mulino è così riscaldata anche dalle confidenze e dalle aperture tra amici in una fredda notte di plenilunio.

L'acqua tersa e limpida delle due pescaie, dai colori evanescenti, dava un tocco di fresco e di grazia all'ambiente e accoglieva branchi di anatre euforiche che in uno stato di ebbrezza aprivano le grandi ali e piroettavano affondando i lunghi colli nell'acqua immacolata delle pescaie. Ora, caro e vecchio mulino, debbo lasciarti. Ma tu rimarrai nel mio ricordo perché sei legato alla stagione più felice e serena della mia vita: la mia infanzia a Sant'Agata.
Quante volte, ai crocicchi duri della vita, sono tornato idealmente alle tue pescaie come a un rifugio di serenità e di pace. Tutto e sempre intorno a te ha avuto il sapore pulito e il fresco profumo della natura. Ora invece vi è silenzio. Troppo silenzio! Le tue macine hanno fame di grano, ma ormai sono un ricordo le colorite distese di grano che allagavano gli spazi intorno agli insediamenti contadini. Sono rimaste le case: ma hanno cambiato volto.
Le stalle delle vacche sono diventate accoglienti salotti con tende alle finestre e tappeti a difendere incerati pavimenti. Com'erano più calde le volute di ragnatele alle finestre delle stalle e la lettiera di paglia destinata poi a fecondare biologicamente i campi. La terra è ormai orfana le manca il lavoro. Direi la carezza che i contadini sapevano darle.
Rassegnati. Ormai anche per te,caro mulino, non c'è che la panchina del pensionato. Quanti giri hanno fatto le tue macine! Nessun contatore li ha mai registrati. L'acqua ti è sempre stata donata dal Cornocchio e dal Romiccioli. Questi dopo un percorso convergente dal Giogo verso il piano coronato dalle loro nozze alla fornace e seguite da una breve luna di miele nella gora hanno sempre riempito le tue pescaie. Quelle per secoli sono state il serbatoio della tua forza e le gemme della tua bellezza.
Ora, caro, mulino, tutto quello che gira e si muove in questo mondo è registrato da contatori per la compilazione di bollette che, inesorabilmente verranno poi a bussare a cassa.
Per ora, ma forse ancora per poco, è esente da bolletta un solo "giramento". Quello che eufemisticamente chiamerò "giramento dello stemma dei Medici".

Beppino del Lepri, falegname

Faccio ora un volo. Torno a casa mia: al Sottini. Qui rivedo e ricordo la prima bottega artigiana della mia vita. Quella di Beppino Lepri falegname.
Beppino era una persona tranquilla, aperta, serena, con una velatura di timidezza. Lo ricordo con la sua capiente pipa in bocca guardare un bicchiere di vino con occhi che tradivano un appagante desiderio; con gesto lento e rituale lo avvicinava alla bocca dando la sensazione di assaporarne il contenuto ancor prima di averlo portato alle labbra. In quella bottega, quando l'ho conosciuto, si lavorava come in quella di un falegname del rinascimento. Ricordo i pochi, elementari, ma essenziali, attrezzi che la corredavano e che nelle mani di Beppino, guidati da intelligente intuito, davano vita a manu-fatti in cui era trasfuso gusto, genialità e passione.
Lo rivedo affilare, con gesti misurati e simmetrici, una lama su una pietra nera lucida di lubrificante che poi, inserita nella sede della pialla, veniva posizionata con mirati colpi di martello. Quando poi Beppino, curvo su una tavola di legno, muoveva la pialla con gesti ampi e sicuri, si vedeva uscire, in prossimità dell'impugnatura, una "nevicata" di sottilissimi riccioli. Sembravano più il frutto di una carezza che di una ferita inferta al legno. Ma quando il "progresso" portò anche lì la sega e la pialla a motore allora arrivò anche al Sottini il rumore sordo e lacerante del legno aggredito dalle macchine. Mancavano ormai, in alcune fasi di lavorazione, la mano leggera e il ritmo lento e misurato dell'artigiano.
Ho visto un solo apprendista nella bottega di Beppino: Argeo. Era il figlio del guardaboschi della Casa Bianca, il Guardione, com'era chiamato. Forse per la sua mole? Di Argeo ricordo anche la sua prima creatura: un armadio che rimase nella bottega per alcuni giorni e che la mia mamma spesso si fermava ad ammirare con palese compiacimento.

Ora un fatto lontano, tanto lontano che portò me e il mio carissimo amico Cecchino dello Sgai a giocare a guardia e ladri con il Guardione. Da tempo noi resistevamo alla tentazione di andare a fare un "manatello" di legna là dov'era una distesa di giovani carpini: sopra il Toro di Sasso. Ci frenava il timore che dalla vicina Casa Bianca sentissero i colpi dei pennati che abbattevano le giovani piante. Ci convinse a tentare l'impresa il "Cornocchio" in piena. Confidavamo che la piena del fiume, aumentando il "tonfo" dell'acqua della cascata del toro, avrebbe coperto il rumore dei nostri pennati.
Purtroppo non andò così: ad un tratto, dal viottolo, con passo sostenuto e faccia feroce, si vide avanzare verso di noi la grossa mole del Guardione. A quel punto l'unica via di fuga per noi era il fiume in piena. Non esitammo. Ruzzolando, più che camminando, arrivammo all'acqua. Di corsa facemmo il tratto di fiume tra il toro e la "Serra. Poi la "Còrta" e lungo il viottolo della gora di corsa a casa. In famiglia si parlò di una accidentale caduta in acqua.

Cecchino dello Sgai

A questo punto sento il prepotente bisogno di accostare ai ricordi il sentimento e alla mente il cuore. Da un pezzo non sentivo e non avevo notizie del mio amico Cecchino. Quando stavo per buttare giù questi ricordi ho sentito il bisogno di rivivere con lui quella lontana avventura. Impugnai il telefono, composi il numero telefonico dell'amico e dall'altra parte mi risposero solo prolungati squilli. Telefonai allora a Sant'Agata, alla sua cognata Silvana, e da lei seppi che Cecchino aveva raggiunta l'adorata moglie e ora riposa vicino a lei nel nostro cimitero.
Cecchino è stato il mio amico fraterno fin dalla mia infanzia. Era un ragazzo sensibile, disponibile, aperto all'amicizia e alla solidarietà. Insieme frequentammo la quinta elementare a Scarperia.
Ricordi Cecchino l'inverno di quell'anno quando in Pian della Donna la fredda e violenta tormenta, che il Giogo ci scagliava in faccia, rendeva lento e faticoso il nostro cammino verso casa? Rinvoltati nel nostro primo rudimentale pastrano, camminavamo vicini per scambiarci quel poco di difesa che la situazione ci consentiva. Ricorderai anche, però, che ogni tanto anche noi avevamo la nostra "scuolabus". Era l'attacco del Chiappalupi: una ciuca e un calesse. Con quanta disponibilità lui ci allungava la mano quando ci raggiungeva lungo la strada per farci salire sull'angusto calesse!
Grazie, Cecchino, per l'affetto, l'amicizia e il calore umano che hai saputo darmi. Tu sapessi quante volte nella vita ho pensato a te e con te, idealmente, sono tornato a camminare nei nostri boschi. Il bosco era come un amico che non ci ha mai delusi. Noi lo frugavamo in ogni sua parte in cerca di funghi, fragole o legna. Qualche volta lo ferivamo anche. Eri tu che "ingattavi" su una quercia per tagliare un ramo o per buttare giù dei "secchioni". Io non ero capace. Riposa in pace Cecchino. Le colline boscose che dominano il nostro cimitero sono come una immensa immarcescibile corona sempre verde a vegliare su di te.

La bottega di Rocco, sarto e parrucchiere

Ora torno davvero agli scalini del Romei gratificato dal tuffo che ho fatto in lontani ricordi.
I miei occhi guardano ora, con tanta simpatia,la bottega di Rocco sarto e parrucchiere. L'ampia superficie a vetri della struttura spalanca l'ambiente alla luce che illumina la bottega e ne fa un osservatorio privilegiato, un palcoscenico sulla piazza di Sant'Agata. Da qui non escono né fumo né rumori. Semmai, quando la porta è aperta, si sentono talvolta audaci tentativi di misurarsi con il meglio della musica classica.
L'ambiente luminoso e pulito aveva nell'aria il profumo sobrio degli ingredienti che accompagnavano il lavoro dei parrucchieri di allora. Ricordo vicino ad una parete un grande tavolo sul quale Rocco, con gesti rapidi e sicuri segnava col gesso la stoffa che poi, impugnando grosse forbici, tagliava passando i "componenti" alla moglie Elena che velocemente, a punti di ago, assemblerà. Per anni la bottega è stata ingentilita dalla grazia di bambine, succedutesi nel tempo, che formicolavano nella stanza. Ne sono arrivate quattro!
La bottega di Rocco è stata anche il riferimento "sanitario" del paese e del contado. Era lì che si prenotava la chiamata per il medico. Ricordo lontani pomeriggi estivi quando il Dr. Bartalini arrivava a Sant'Agata e subito, basculando la testa, s'avviava alla sartoria per sapere dove l'aspettavano i suoi pazienti. A volte per raggiungerli doveva impegnarsi in faticose sgambate verso Montepoli o le cascine del Giogo.
Era nota una sua spiritosa battuta. A Montepoli il signor "Paciocca" era sempre generosamente disponibile all'assistenza agli infermi (spesso si trattava di polmoniti). Il Dr. Bartalini apprezzava questa sua disponibilità e dichiarava spiritosamente che i suoi pazienti, in sua assenza, erano affidati alle cure del "Professor Paciocca".
Intanto il tempo ha fatto il suo mestiere. Infatti in bottega non si vedono più ora quattro frugolette, ma quattro belle ragazze. Sedute ai loro posti sono ormai delle valide collaboratrici. Le ricordo nelle serene e luminose giornate d'estate quando il sole dava luce e calore alla stanza, nei loro vestitini leggeri mulinare nell'aria le loro bianche braccia che tendevano le gugliate incorniciando le loro teste e i sogni rosa che vi frullavano dentro. Quel "salotto" sulla piazza di Sant'Agata si chiuse per sempre nei primi anni cinquanta.

I fratelli Aldo e Giuliano Modi

Voglio ora ricordare chi, per intelligenza e passione, ha saputo, senza attingere a nessuna cattedra, raggiungere traguardi prestigiosi gratificando se stesso e onorando il proprio paese. Penso subito ai fratelli Aldo e Giuliano Modi.
I primi suoni-rumori che hanno sentito sono stati quelli, marcati e ripetitivi che venivano dalla bottega di fabbro di nonno Alfredo, che si fondevano a quello fresco e armonioso della gora che lambiva la loro casa.
I balocchi che subito conobbero furono forse gli elementari, ma fondamentali, attrezzi di lavoro della bottega. Precocemente però ne intuirono la funzione e ancora giovinetti divennero validi collaboratori. Ben presto nelle calde estati Santagatesi, piene di luce e di sole, li vedemmo nelle aie dei contadini vicino alle sbuffanti caldaie che davano movimento alle loro trebbiatrici chiamate a consumare, in una atmosfera festosa il rito, quasi sacro, della battitura.
Ma questi ragazzi accarezzavano un sogno: spiccare il volo dal Mulino. Non c'era da attendere che crescessero le ali. E le ali crebbero alla svelta. Affinarono presto le loro conoscenze ed esperienze su macchine utensili entrate nella bottega del nonno. Ora lì vi erano le rudimentali attrezzature che avevano fornito "beni" a un mondo agricolo immobile da secoli, e moderni macchinari ad avanzata tecnologia: simboli di due civiltà che idealmente si passavano il "testimone".
Nel 1956 il gran salto. Un'ampia accogliente luminosa costruzione in Borgo San Lorenzo accoglie macchine e attrezzature dei fratelli Modi. Ma accoglie soprattutto l'ansia di affermazione di due giovani che avevano affinato le loro innate capacità con un forte impegno arricchito da un'autodidattica capace di fornire loro un patrimonio di conoscenze che forse nessuna cattedra avrebbe potuto offrire.
Nell'officina entrano le imponenti macchine agricole che ormai, quasi ovunque, hanno soppiantato il lavoro tradizionale dei buoi, per secoli gli indiscussi e indispensabili protagonisti del lavoro dei campi. Si affiancano ai trattori anche le moderne macchine per i movimenti della terra.
Non vi è in Mugello un centro più qualificato per la loro riparazione di quello dei fratelli Modi. Per decenni macchine grosse o piccole, indigene o straniere, entrate invalide in quella officina, ne sono sempre uscite di corsa. Neppure l'impossibilità di reperire sul mercato pezzi di ricambio ha bloccato il loro lavoro. Se li sono costruiti. Questo potevano farlo solo "cavalli di razza".
Alcuni fra i tanti allievi di Aldo e Giuliano acquisirono un patrimonio di conoscenze tecniche tali da orientarli verso un lavoro autonomo. Ma un sogno che pian piano diventa proposito fino a sfociare in decisione, si fa strada in loro: dedicare il futuro alla riparazione e manutenzione degli aeroplani.
Una villa da loro acquistata in una area luminosa e pianeggiante, dominata a nord dalla catena del Giogo, avrà presto una pista dalla quale decollerà l'aeroplano dei fratelli Modi. Ma è in agguato una tragedia: Giuliano parte per un volo che va oltre i traguardi raggiunti dagli aeroplani. Aldo rimane fedele alla scelta fatta.
Ora in quella luminosa distesa, oltre all'officina, vi sono tettoie in cui gli apparecchi, come in una sala d'attesa di uno studio medico, attendono il loro turno per passare al "tavolo operatorio" dove le mani magiche di Aldo consentiranno loro di spiccare in sicurezza nuovamente il volo. In quell'officina piena di luce e di silenzio si muovono ora un nonno e un nipote: il maestro e l'allievo. Tante volte ho colto questo tenero quadro al centro di volo di Aldo. In quelle occasioni sono tornate alla mia memoria pagine Deamicisiane che sono un inno ai legami di sangue della famiglia e l'esaltazione dei più nobili e generosi sentimenti dell'animo umano.

Tramonta la civiltà contadina - Leprino

Il progresso tecnico che inesorabilmente avanzava, chiudeva pian piano un secolare periodo storico. Nella nostra campagna sempre meno si videro buoi legati dal "giogo" che faticosamente trainavano l'aratro. Dalle loro narici, nere e umidicce, usciva il sibilo dell'affannoso respiro. Con i loro grandi occhi cercavano l'uomo coinvolto nella loro fatica e con cui mescolavano il sudore, quasi a supplicarlo a una pausa di riposo.

Queste scene hanno catturato l'interesse di insigni pittori toscani che le hanno immortalate nelle loro tele (Fattori). Man mano che le macchine invadevano i campi e sostituivano il lavoro dei buoi, le case dei contadini si vuotavano e sempre più fiochi si facevano i rumori che uscivano dalle botteghe artigiane di Sant'Agata. Poi fu il silenzio. Finiva un'epoca.
Insieme al modo di produrre cambiava lo stile di vita degli individui e delle famiglie. Nasceva una nuova società. Conquiste prima insperate divennero traguardi possibili per una fascia sempre più larga di popolazione. Furono gradatamente alla portata di molti la cultura, un maggior benessere, l'automobile. Un orizzonte ricco di promesse si apriva soprattutto per i giovani.
Giovani santagatesi, ch'io non conosco anche se certamente fui legato da amicizia e affetto ai vostri nonni, dico a voi: correte preparati incontro al futuro che è vostro. Cogliete le opportunità che vi offre. Comprendete e rispettate però chi, vissuto in un contesto sociale tanto diverso dal vostro, in esso conobbe l'appagamento di valori e rapporti umani cui la nuova società è manifestamente allergica.
Fortunatamente Sant'Agata ha il privilegio di avere un quadro fedele di quel mio mondo. L'attenta sensibilità di Leprino un santagatese, forse melanconico testimone di una società ormai avviata a un decisivo tramonto, ha voluto e saputo tramandare la testimonianza storica della Civiltà Contadina e delle botteghe artigiane che la supportavano. Il "Crocicchio" conserva in misura "Bonsai" quel mondo nelle sue fondamentali varietà e articolazioni. Lì vi è la memoria storica della Sant'Agata che fu.
Quel capolavoro, forte richiamo a gente vicina e lontana, è l'opera che ha reso il nostro geniale Leprino il santagatese oggi più conosciuto e forse l'unico che sarà ricordato in un lontano domani.


Le illustrazioni sono tratte da immagini del
MUSEO DI VITA ARTIGIANA E CONTADINA
di Faliero Lepri (Leprino)