Due miei parenti, il professor Giuseppe Sottini,
zio di mio padre, docente alla Normale di Pisa e assessore in
quella città, e Ranieri Aiazzi, suo cognato (aveva sposato
una Sottini sorella di mio nonno), discreto poeta e letterato,
proprietario a Sant'Agata della Fattoria Aiazzi, sul finire dell'ottocento
in loro scritti definirono il paese dove erano nati e a cui si
sentivano visceralmente legati, "Il Villaggio di Sant'Agata".
Una definizione che evoca un insediamanto umano lontano dai centri
cittadini in cui la forza lavoro è orientata verso la
terra, sostenuta e potenziata da una attività artigianale.
Quella realtà portava il sigillo di una
civiltà contadina, ricca di valori umani e cristiani,
ancorata a tradizioni antiche che per tutti avevano il valore
di norme non scritte. La ripartizione del reddito agrario era
dominata, da secoli, dal patto di mezzadria che fissava al 50%
la divisione dei beni tra la proprietà e il contadino.
Il borgo di Sant'Agata con la sua Pieve millenaria è al
centro del villaggio. Intorno una terra fertile e generosa, frazionata
in poderi, corsa da filari di viti lungo declivi erbosi accarezzati
dal sole. Il tempo con le sue stagioni la domina e la feconda.
A misurarlo sono i tocchi dell'orologio ancorato al secolare
campanile. Capita che, a quei tocchi, qualche vecchio contadino,
alzando gli occhi verso il sole, mormori: "Sarà bene
dire al Pievano che rimetta l'orologio".
Nel borgo del villaggio di Sant'Agata, in località intitolata
alla mia famiglia, nacqui nel lontano 1913. Lo so che a nessuno
può interessare quando sono nato, anche perché
a nessuno interessa che io sia nato. Perciò dirò
subito, che questo mio andare a ritroso con la memoria e tuffarmi
nei miei ricordi, che lascio poi liberamente cadere su questi
fogli, lo faccio per me o forse anche per qualche amico se, frugando
per Sant'Agata, riuscirò a trovarne ancora qualcuno in
vita.
La mia famiglia, da sempre, era impegnata nella produzione del
carbone fino alla consegna del prodotto ai centri di vendita.
Di quella attività mi parlò con affettuoso rimpianto,
Maremmino che per tanti anni fu in casa mia, fedele e valido
collaboratore.
Ricordavo quegli anni lontani alla zia Emma nella lettera che
le scrissi in occasione del suo centesimo compleanno: "Non
è ancora l'alba. La grande cucina si anima. Si sente nella
rimessa lo scalpiccio degli zoccoli dei muli ai quali il babbo
e i garzoni montano i pesanti basti, cui fa eco la voce della
gora che porta ai mulini le immacolate acque dei monti.".
Ogni volta che incontro la zia Emma, la sua mente ancora lucida
e presente di ultra centenaria (104 anni) mi conduce lungo i
sentieri dei suoi lontani ricordi fino al "Sottini"
per rivivere con lei un'alba che non tramonterà mai nella
sua anima.
L'artigianato
nel Villaggio
Le attività artigianali del paese furono
fondamentalmente strutturate per soddisfare la domanda del mondo
contadino cui fornivano rudimentali ma efficaci strumenti di
lavoro. Il paese forniva inoltre manodopera per la conservazione
del patrimonio edilizio e per l'eventuale costruzione di nuovi
insediamenti. Capitava spesso che provetti artigiani fissassero
le loro sedi di lavoro presso note fattorie santagatesi.
Ora mi fermo. Metto la retromarcia e con la fantasia inverto
il cammino del tempo. Sono bambino in un lontano giorno degli
anni '20. Seduto sugli scalini del Romei, sento arrivare alle
mie orecchie rumori (o suoni?). È la musica che accompagna
la fatica degli uomini nelle botteghe artigiane di Sant'Agata.
L'armonia è dominata dal suono argentino che si leva dalle
incudini di Gigi del Berti e Gioacchino Modi quando i grossi
martelli vi battono contro il ferro rovente ed è scroscio
di faville.
L'armonia
ad un tratto si appanna ferita da un rumore discontinuo e lacerante:
è il legno pressato contro una sega nella bottega di falegname
del Trebbiani. A intervalli, colpi stizzosi di martello che batte
una tomaia contro una pietra lucida e dura, vengono dalla bottega
di Geppino calzolaio detto "Il Gravido". Vicino a lui
intrecciava punti di lesina Cecco di Maremma suo futuro genero.
In quella bottega, da bambino, andavo spesso a leggere brani
del libro di Pinocchio. Talvolta vi vedevo al mio posto Angioluccio
impegnato nella lettura del giornale "La Nazione".
Ne iniziava la lettura così: "La Nazione, centesimi
20...".
Granchino
Anche un altro artigiano ha dato colore e calore
al variegato mondo di Sant'Agata: Alfonso detto Granchino, che
al suo lavoro di imbianchino (Spiaccicaragni) associava, nei
fine settimana, quello di barbiere. Era piccolo di statura, con
baffetti chiari sopra le labbra sempre tirate che si aprivano
leggermente. Era sempre nervoso e reattivo.
Una brutta caduta dalla bicicletta gli aveva offeso seriamente
e permanentemente una gamba. Quando fu chiamato alla visita di
leva, il Colonnello che presiedeva la commissione, notò
subito quella vistosa invalidità. Invitatolo a camminare,
commentava con i suoi collaboratori la sua claudicanza: - Si
vede! Si vede! - e Granchino: "Perdio! Anche un bischero
lo vede!" Colonnello: "Abile, arruolato."
Ricordo poi una burla feroce che ha sempre lui per protagonista.
C'ero anch'io. Un afoso pomeriggio di un agosto avanzato Granchino,
alzando il mignolo, sta muovendo il rasoio su una barba insaponata.
Improvvisamente, ansimando, arriva di corsa il Galla: "
Dammi il fucile! Dammi il fucile! Nel granturco del Fredduccio
c'è una lepre a covo!" Granchino posa il rasoio,
lascia il cliente insaponato e con voce alterata dall'emozione:
"Vengo io, vengo io!". Era proprio quello che cercavamo.
Un piccolo sciame di curiosi con in testa il protagonista s'avvia
verso il campo di granturco. Man mano che ci avviciniamo Granchino
ogni poco si volta e fa ampi gesti al codazzo che lo segue, invitando
tutti a rallentare e fermarsi. Col dito sul naso poi, chiede
silenzio. Molti obbediscono prevedendo anche la reazione finale
al velenoso scherzo che si sta consumando. Granchino e il Galla,
ormai al campo di granturco, borbottano fra loro a voce sempre
più bassa. È facile immaginare quello che si dicono:
Attento. Fa piano. Non muovere le pannocchie di granturco. Abbassiamoci.
Ora strisciamo contro vento. Non siamo lontani. Guarda là
quel pedale di pioppo. La vedi? Si! Altri due o tre passi, poi
l'è a tiro. Due passi ancora e parte la coppiola.
Granchino: "L'ho presa! L'ho presa!" Una gran risata:
poi non si vede più nessuno. Il Galla, con quattro salti,
va a schiacciarsi nel campo di granturco.
Gli altri di corsa si erano tutti allontanati. Granchino, con
ai piedi una pelle di coniglio riempita di paglia, e gli occhi
che sembravano uscire dalle orbite, mulinava in aria il fucile
ormai scarico vomitando insulti, che a scriverli scapperebbero
dal foglio, contro quei figli di puttana ai quali giurava di
mangiare il core.
Pallido, scosso da un leggero tremito, tornò alla bottega
dove il cliente l'aspettava. Rinsaponò la barba rimasta
e alla fine dovette cicatrizzare tre taglietti che il rasoio,
mosso da una mano non ferma, aveva provocato al malcapitato.
Granchino non mancava certo, anzi l'aveva quasi sempre, la risposta
stizzosa impanata nel suo linguaggio colorito. Era nota quella
che dava alla moglie, quando era afflitto dal mal di denti. In
quei momenti, la buona e pia moglie Ernesta, lo scongiurava a
rivolgersi in preghiera a Sant'Apollonia. E lui:"Va a pigliallo
in c
te e lei".
Ho poi un personale ricordo legato a Granchino e alla sua bottega
di parrucchiere. E' un ricordo lontano una ottantina di anni
e coincide con la ricorrenza di una fredda Sant'Agatina. Ero
in quel giorno nella sua bottega a farmi rapare la testa. Entra
Veruca commentando: "e 33" .Tante erano le Sant'Agatine
che aveva festeggiato. Da tanto tempo mi frulla nella testa il
proposito di conoscere l'anno di quella Sant'Agatina.
Per conoscerlo mi manca solo una data: l'anno di nascita di Veruca.
Me la diranno la figlia Gina o la nuora Luisina. Qualcuno forse
leggendo questi fogli sorriderà, spero per compassione
non per scherno, per quanta eco cose apparentemente tanto banali
nel 2002, abbiano invece ancora tanto significato nell'animo
e nel ricordo di un vecchio.
Conoscere quella data significa per me rivedere,
come in una schermata nella mia Sant'Agata d'allora volti a cui
mi legò comunanza di vita, amici con cui condivisi i giorni
sereni dell'infanzia, anziani a cui detti rispetto e affetto.
Spesso, quando vado al nostro cimitero, percorro il muro perimetrale
alla sinistra dell'ingresso. Davanti ai loculi che custodiscono
i resti mortali di tanti cari vecchi amici rivivo idealmente
con loro lontane emozioni. Mi pare che qualcuno, quando fisso
le loro immagini stampate nell'ovale porcellanato, mi gridi:
"Ti ricordi Lorenzo?" "Oh amici: mi ricordo! mi
ricordo!".
Le ultime volte che rividi Granchino in questo
mondo strascicava la sua gamba invalida muovendosi, per picco1i
tratti,a destra e a sinistra dell'ingresso della sua casa, lungo
un marciapiedi di Rifredi. Era un autunno avanzato. Mi parve
che, gli mancasse la luce, l'orizzonte e l'ossigeno del paese
lontano. Sentii una stretta al cuore. Lo ricordai per un attimo,
nella piazza di Sant'Agata in cima a una scala, in una chiara
mattinata d'estate, a raschiare l'intonaco sopra la bottega della
Verdiana. Gli volava intorno, nella luce del sole improvvisando
un carosello, uno sciame di rondini.
Il
Mulino e i suoi artigiani
Lascio ora gli scalini del Romei e vado al muro
del cimitero. Di qui domino il Mulino. Alle mie orecchie arriva
la musica di prima. Sono cambiati gli orchestrali, ma non gli
strumenti.
Al
Mulino lavorano infatti due fabbri: Modi Alfredo e Modi Maggiore
e una falegnameria dei fratelli Noferini. La prima cosa che si
nota è che non si fa il fabbro a Sant'Agata se sulla carta
d'identità non c'è un nome: Modi.
Anche il Mulino ha poi il suo bravo calzolaio: il Poggini che
non si tira indietro quando è il momento di battere le
tomaie.
Prima di tornare alla piazza voglio però ricordare due
piccoli artigiani che aprivano la loro porta sulla salita del
Mulino: Adriano Parrini e Donato Doni. Adriano Parrini credo
fosse un transfuga della patriarcale famiglia Parrini, proprietaria
del secolare mulino mosso ancora dalla forza dell'acqua che è
lì da tanti secoli immutato nella sua struttura e sembra
portare a noi la voce e le tradizioni dei secoli andati.
Adriano aveva la sua macina sotto la pescaia del Mulino. Era
un uomo schivo, musone e solitario. Non l'ho mai visto fraternizzare
con nessuno. Viveva come se gli fossero stati inflitti gli arresti
domiciliari. A chi bussava alla sua porta talvolta rispondeva:
"Non c'è nessuno!"
Quand'ero bambino lo vedevo ogni tanto passare dal Sottini con
una pala in spalla diretto alla "Còrta" per
stasare la gora che il Cornocchio in piena aveva tappato. Erano
le occasioni per noi ragazzi di correre lungo il suo corso a
prendere le vaschette che saltellavano nel suo alveo ormai secco
mandando nell'aria riflessi d'argento.
Donato Doni si liquida alla svelta: era un artigiano stagionale.
In un bugigattolo lavorava la canapa che era stata in acqua a
macerare nei "purghi" per un lungo periodo. Ricordo
la esile moglie di Donato a battere e strisciare su punte acuminate
i gambi di canapa che la lunga macerazione in acqua aveva resi
morbidi e flessibili.
I
Parrini e il loro storico mulino
Invece di tornare alla piazza come programmato,
ora riaccendo il motore della fantasia, scendo il Mulino e mi
avvio lungo la strada che lambisce il corso del Romiccioli. Ai
piedi del Campaccio, svolto a sinistra e percorro una stradina
, sempre ben tenuta, con la sua macchia di bossolo e sbuco nella
piazzetta del secolare mulino dei Parrini.
Il mulino, da tempo indefinito, era di proprietà e gestito
da questa patriarcale famiglia. Chiunque arrivava nella piazzetta
antistante era gratificato da cordialità, amicizia e accoglienza.
Anche Adriano era nato qui. [...]
Il mulino sorge in un angolo delizioso, sereno, accogliente e
distensivo. Le sue vetuste strutture murarie sono lineari e suggestive.
I campi intorno erano popolati di polli e di processioni di pulcini
e curati da chi aveva capacità e gusto.
Anche se verdi filari di viti intorno alla costruzione evocavano
una ricca cantina, l'acqua era pur sempre la vera "Signora"
del Parrini. Guai se scioperava. Si fermava la vita. Essa era
non solo la bellezza delle sue pescaie, ma era soprattutto la
forza, quando ingoiata dai retricini correva al possente urto
contro le pale mettendo in movimento le pesanti macine.
Le granaglie polverizzate saturavano l'aria di polvere bianca
e di profumi. Il rumore sordo e monotono delle macine si fondeva
con quello fresco e musicale dell'acqua. Era una scala di tonalità
legata ai tanti suoi passaggi nei meandri del mulino nella sua
corsa verso il Moico.
Tonio mi ha detto che nei tempi andati le macine hanno girato
anche di notte. Soprattutto al tempo della macinatura dei marronsecchi.
File di carri attendevano nella piazzetta il loro turno. È
facile immaginare gli argomenti della conversazione colorita
fra gli uomini in attesa in una fredda notte autunnale di plenilunio.
Un fuoco improvvisato li difenderà dai morsi del freddo.
Il primo racconterà che dovrà fermare una lazza
regalata dai temporali degli ultimi giorni. Chi invece dovrà
riportare alla monta al Martini una vacca, che la prima volta
è andata a vuoto. Un altro dovrà spostare la concimaia,
perché sembra dia fastidio al pozzo ecc. ecc. La lunga
attesa al mulino è così riscaldata anche dalle
confidenze e dalle aperture tra amici in una fredda notte di
plenilunio.
L'acqua tersa e limpida delle due pescaie, dai
colori evanescenti, dava un tocco di fresco e di grazia all'ambiente
e accoglieva branchi di anatre euforiche che in uno stato di
ebbrezza aprivano le grandi ali e piroettavano affondando i lunghi
colli nell'acqua immacolata delle pescaie. Ora, caro e vecchio
mulino, debbo lasciarti. Ma tu rimarrai nel mio ricordo perché
sei legato alla stagione più felice e serena della mia
vita: la mia infanzia a Sant'Agata.
Quante volte, ai crocicchi duri della vita, sono tornato idealmente
alle tue pescaie come a un rifugio di serenità e di pace.
Tutto e sempre intorno a te ha avuto il sapore pulito e il fresco
profumo della natura. Ora invece vi è silenzio. Troppo
silenzio! Le tue macine hanno fame di grano, ma ormai sono un
ricordo le colorite distese di grano che allagavano gli spazi
intorno agli insediamenti contadini. Sono rimaste le case: ma
hanno cambiato volto.
Le stalle delle vacche sono diventate accoglienti salotti con
tende alle finestre e tappeti a difendere incerati pavimenti.
Com'erano più calde le volute di ragnatele alle finestre
delle stalle e la lettiera di paglia destinata poi a fecondare
biologicamente i campi. La terra è ormai orfana le manca
il lavoro. Direi la carezza che i contadini sapevano darle.
Rassegnati. Ormai anche per te,caro mulino, non c'è che
la panchina del pensionato. Quanti giri hanno fatto le tue macine!
Nessun contatore li ha mai registrati. L'acqua ti è sempre
stata donata dal Cornocchio e dal Romiccioli. Questi dopo un
percorso convergente dal Giogo verso il piano coronato dalle
loro nozze alla fornace e seguite da una breve luna di miele
nella gora hanno sempre riempito le tue pescaie. Quelle per secoli
sono state il serbatoio della tua forza e le gemme della tua
bellezza.
Ora, caro, mulino, tutto quello che gira e si muove in questo
mondo è registrato da contatori per la compilazione di
bollette che, inesorabilmente verranno poi a bussare a cassa.
Per ora, ma forse ancora per poco, è esente da bolletta
un solo "giramento". Quello che eufemisticamente chiamerò
"giramento dello stemma dei Medici".
Beppino
del Lepri, falegname
Faccio ora un volo. Torno a casa mia: al Sottini.
Qui rivedo e ricordo la prima bottega artigiana della mia vita.
Quella di Beppino Lepri falegname.
Beppino era una persona tranquilla, aperta, serena, con una velatura
di timidezza. Lo ricordo con la sua capiente pipa in bocca guardare
un bicchiere di vino con occhi che tradivano un appagante desiderio;
con gesto lento e rituale lo avvicinava alla bocca dando la sensazione
di assaporarne il contenuto ancor prima di averlo portato alle
labbra. In quella bottega, quando l'ho conosciuto, si lavorava
come in quella di un falegname del rinascimento. Ricordo i pochi,
elementari, ma essenziali, attrezzi che la corredavano e che
nelle mani di Beppino, guidati da intelligente intuito, davano
vita a manu-fatti in cui era trasfuso gusto, genialità
e passione.
Lo
rivedo affilare, con gesti misurati e simmetrici, una lama su
una pietra nera lucida di lubrificante che poi, inserita nella
sede della pialla, veniva posizionata con mirati colpi di martello.
Quando poi Beppino, curvo su una tavola di legno, muoveva la
pialla con gesti ampi e sicuri, si vedeva uscire, in prossimità
dell'impugnatura, una "nevicata" di sottilissimi riccioli.
Sembravano più il frutto di una carezza che di una ferita
inferta al legno. Ma quando il "progresso" portò
anche lì la sega e la pialla a motore allora arrivò
anche al Sottini il rumore sordo e lacerante del legno aggredito
dalle macchine. Mancavano ormai, in alcune fasi di lavorazione,
la mano leggera e il ritmo lento e misurato dell'artigiano.
Ho visto un solo apprendista nella bottega di Beppino: Argeo.
Era il figlio del guardaboschi della Casa Bianca, il Guardione,
com'era chiamato. Forse per la sua mole? Di Argeo ricordo anche
la sua prima creatura: un armadio che rimase nella bottega per
alcuni giorni e che la mia mamma spesso si fermava ad ammirare
con palese compiacimento.
Ora un fatto lontano, tanto lontano che portò
me e il mio carissimo amico Cecchino dello Sgai a giocare a guardia
e ladri con il Guardione. Da tempo noi resistevamo alla tentazione
di andare a fare un "manatello" di legna là
dov'era una distesa di giovani carpini: sopra il Toro di Sasso.
Ci frenava il timore che dalla vicina Casa Bianca sentissero
i colpi dei pennati che abbattevano le giovani piante. Ci convinse
a tentare l'impresa il "Cornocchio" in piena. Confidavamo
che la piena del fiume, aumentando il "tonfo" dell'acqua
della cascata del toro, avrebbe coperto il rumore dei nostri
pennati.
Purtroppo non andò così: ad un tratto, dal viottolo,
con passo sostenuto e faccia feroce, si vide avanzare verso di
noi la grossa mole del Guardione. A quel punto l'unica via di
fuga per noi era il fiume in piena. Non esitammo. Ruzzolando,
più che camminando, arrivammo all'acqua. Di corsa facemmo
il tratto di fiume tra il toro e la "Serra. Poi la "Còrta"
e lungo il viottolo della gora di corsa a casa. In famiglia si
parlò di una accidentale caduta in acqua.
Cecchino
dello Sgai
A questo punto sento il prepotente bisogno di accostare
ai ricordi il sentimento e alla mente il cuore. Da un pezzo non
sentivo e non avevo notizie del mio amico Cecchino. Quando stavo
per buttare giù questi ricordi ho sentito il bisogno di
rivivere con lui quella lontana avventura. Impugnai il telefono,
composi il numero telefonico dell'amico e dall'altra parte mi
risposero solo prolungati squilli. Telefonai allora a Sant'Agata,
alla sua cognata Silvana, e da lei seppi che Cecchino aveva raggiunta
l'adorata moglie e ora riposa vicino a lei nel nostro cimitero.
Cecchino è stato il mio amico fraterno fin dalla mia infanzia.
Era un ragazzo sensibile, disponibile, aperto all'amicizia e
alla solidarietà. Insieme frequentammo la quinta elementare
a Scarperia.
Ricordi Cecchino l'inverno di quell'anno quando in Pian della
Donna la fredda e violenta tormenta, che il Giogo ci scagliava
in faccia, rendeva lento e faticoso il nostro cammino verso casa?
Rinvoltati nel nostro primo rudimentale pastrano, camminavamo
vicini per scambiarci quel poco di difesa che la situazione ci
consentiva. Ricorderai anche, però, che ogni tanto anche
noi avevamo la nostra "scuolabus". Era l'attacco del
Chiappalupi: una ciuca e un calesse. Con quanta disponibilità
lui ci allungava la mano quando ci raggiungeva lungo la strada
per farci salire sull'angusto calesse!
Grazie, Cecchino, per l'affetto, l'amicizia e il calore umano
che hai saputo darmi. Tu sapessi quante volte nella vita ho pensato
a te e con te, idealmente, sono tornato a camminare nei nostri
boschi. Il bosco era come un amico che non ci ha mai delusi.
Noi lo frugavamo in ogni sua parte in cerca di funghi, fragole
o legna. Qualche volta lo ferivamo anche. Eri tu che "ingattavi"
su una quercia per tagliare un ramo o per buttare giù
dei "secchioni". Io non ero capace. Riposa in pace
Cecchino. Le colline boscose che dominano il nostro cimitero
sono come una immensa immarcescibile corona sempre verde a vegliare
su di te.
La
bottega di Rocco, sarto e parrucchiere
Ora torno davvero agli scalini del Romei gratificato
dal tuffo che ho fatto in lontani ricordi.
I
miei occhi guardano ora, con tanta simpatia,la bottega di Rocco
sarto e parrucchiere. L'ampia superficie a vetri della struttura
spalanca l'ambiente alla luce che illumina la bottega e ne fa
un osservatorio privilegiato, un palcoscenico sulla piazza di
Sant'Agata. Da qui non escono né fumo né rumori.
Semmai, quando la porta è aperta, si sentono talvolta
audaci tentativi di misurarsi con il meglio della musica classica.
L'ambiente luminoso e pulito aveva nell'aria il profumo sobrio
degli ingredienti che accompagnavano il lavoro dei parrucchieri
di allora. Ricordo vicino ad una parete un grande tavolo sul
quale Rocco, con gesti rapidi e sicuri segnava col gesso la stoffa
che poi, impugnando grosse forbici, tagliava passando i "componenti"
alla moglie Elena che velocemente, a punti di ago, assemblerà.
Per anni la bottega è stata ingentilita dalla grazia di
bambine, succedutesi nel tempo, che formicolavano nella stanza.
Ne sono arrivate quattro!
La bottega di Rocco è stata anche il riferimento "sanitario"
del paese e del contado. Era lì che si prenotava la chiamata
per il medico. Ricordo lontani pomeriggi estivi quando il Dr.
Bartalini arrivava a Sant'Agata e subito, basculando la testa,
s'avviava alla sartoria per sapere dove l'aspettavano i suoi
pazienti. A volte per raggiungerli doveva impegnarsi in faticose
sgambate verso Montepoli o le cascine del Giogo.
Era nota una sua spiritosa battuta. A Montepoli il signor "Paciocca"
era sempre generosamente disponibile all'assistenza agli infermi
(spesso si trattava di polmoniti). Il Dr. Bartalini apprezzava
questa sua disponibilità e dichiarava spiritosamente che
i suoi pazienti, in sua assenza, erano affidati alle cure del
"Professor Paciocca".
Intanto il tempo ha fatto il suo mestiere. Infatti in bottega
non si vedono più ora quattro frugolette, ma quattro belle
ragazze. Sedute ai loro posti sono ormai delle valide collaboratrici.
Le ricordo nelle serene e luminose giornate d'estate quando il
sole dava luce e calore alla stanza, nei loro vestitini leggeri
mulinare nell'aria le loro bianche braccia che tendevano le gugliate
incorniciando le loro teste e i sogni rosa che vi frullavano
dentro. Quel "salotto" sulla piazza di Sant'Agata si
chiuse per sempre nei primi anni cinquanta.
I
fratelli Aldo e Giuliano Modi
Voglio ora ricordare chi, per intelligenza e passione,
ha saputo, senza attingere a nessuna cattedra, raggiungere traguardi
prestigiosi gratificando se stesso e onorando il proprio paese.
Penso subito ai fratelli Aldo e Giuliano Modi.
I primi suoni-rumori che hanno sentito sono stati quelli, marcati
e ripetitivi che venivano dalla bottega di fabbro di nonno Alfredo,
che si fondevano a quello fresco e armonioso della gora che lambiva
la loro casa.
I
balocchi che subito conobbero furono forse gli elementari, ma
fondamentali, attrezzi di lavoro della bottega. Precocemente
però ne intuirono la funzione e ancora giovinetti divennero
validi collaboratori. Ben presto nelle calde estati Santagatesi,
piene di luce e di sole, li vedemmo nelle aie dei contadini vicino
alle sbuffanti caldaie che davano movimento alle loro trebbiatrici
chiamate a consumare, in una atmosfera festosa il rito, quasi
sacro, della battitura.
Ma questi ragazzi accarezzavano un sogno: spiccare il volo dal
Mulino. Non c'era da attendere che crescessero le ali. E le ali
crebbero alla svelta. Affinarono presto le loro conoscenze ed
esperienze su macchine utensili entrate nella bottega del nonno.
Ora lì vi erano le rudimentali attrezzature che avevano
fornito "beni" a un mondo agricolo immobile da secoli,
e moderni macchinari ad avanzata tecnologia: simboli di due civiltà
che idealmente si passavano il "testimone".
Nel 1956 il gran salto. Un'ampia accogliente luminosa costruzione
in Borgo San Lorenzo accoglie macchine e attrezzature dei fratelli
Modi. Ma accoglie soprattutto l'ansia di affermazione di due
giovani che avevano affinato le loro innate capacità con
un forte impegno arricchito da un'autodidattica capace di fornire
loro un patrimonio di conoscenze che forse nessuna cattedra avrebbe
potuto offrire.
Nell'officina entrano le imponenti macchine agricole che ormai,
quasi ovunque, hanno soppiantato il lavoro tradizionale dei buoi,
per secoli gli indiscussi e indispensabili protagonisti del lavoro
dei campi. Si affiancano ai trattori anche le moderne macchine
per i movimenti della terra.
Non vi è in Mugello un centro più qualificato per
la loro riparazione di quello dei fratelli Modi. Per decenni
macchine grosse o piccole, indigene o straniere, entrate invalide
in quella officina, ne sono sempre uscite di corsa. Neppure l'impossibilità
di reperire sul mercato pezzi di ricambio ha bloccato il loro
lavoro. Se li sono costruiti. Questo potevano farlo solo "cavalli
di razza".
Alcuni fra i tanti allievi di Aldo e Giuliano acquisirono un
patrimonio di conoscenze tecniche tali da orientarli verso un
lavoro autonomo. Ma un sogno che pian piano diventa proposito
fino a sfociare in decisione, si fa strada in loro: dedicare
il futuro alla riparazione e manutenzione degli aeroplani.
Una villa da loro acquistata in una area luminosa e pianeggiante,
dominata a nord dalla catena del Giogo, avrà presto una
pista dalla quale decollerà l'aeroplano dei fratelli Modi.
Ma è in agguato una tragedia: Giuliano parte per un volo
che va oltre i traguardi raggiunti dagli aeroplani. Aldo rimane
fedele alla scelta fatta.
Ora in quella luminosa distesa, oltre all'officina, vi sono tettoie
in cui gli apparecchi, come in una sala d'attesa di uno studio
medico, attendono il loro turno per passare al "tavolo operatorio"
dove le mani magiche di Aldo consentiranno loro di spiccare in
sicurezza nuovamente il volo. In quell'officina piena di luce
e di silenzio si muovono ora un nonno e un nipote: il maestro
e l'allievo. Tante volte ho colto questo tenero quadro al centro
di volo di Aldo. In quelle occasioni sono tornate alla mia memoria
pagine Deamicisiane che sono un inno ai legami di sangue della
famiglia e l'esaltazione dei più nobili e generosi sentimenti
dell'animo umano.
Tramonta
la civiltà contadina - Leprino
Il progresso tecnico che inesorabilmente avanzava,
chiudeva pian piano un secolare periodo storico. Nella nostra
campagna sempre meno si videro buoi legati dal "giogo"
che faticosamente trainavano l'aratro. Dalle loro narici, nere
e umidicce, usciva il sibilo dell'affannoso respiro. Con i loro
grandi occhi cercavano l'uomo coinvolto nella loro fatica e con
cui mescolavano il sudore, quasi a supplicarlo a una pausa di
riposo.
Queste scene hanno catturato l'interesse di insigni
pittori toscani che le hanno immortalate nelle loro tele (Fattori). Man mano che le macchine invadevano i campi
e sostituivano il lavoro dei buoi, le case dei contadini si vuotavano
e sempre più fiochi si facevano i rumori che uscivano
dalle botteghe artigiane di Sant'Agata. Poi fu il silenzio. Finiva
un'epoca.
Insieme al modo di produrre cambiava lo stile di vita degli individui
e delle famiglie. Nasceva una nuova società. Conquiste
prima insperate divennero traguardi possibili per una fascia
sempre più larga di popolazione. Furono gradatamente alla
portata di molti la cultura, un maggior benessere, l'automobile.
Un orizzonte ricco di promesse si apriva soprattutto per i giovani.
Giovani santagatesi, ch'io non conosco anche se certamente fui
legato da amicizia e affetto ai vostri nonni, dico a voi: correte
preparati incontro al futuro che è vostro. Cogliete le
opportunità che vi offre. Comprendete e rispettate però
chi, vissuto in un contesto sociale tanto diverso dal vostro,
in esso conobbe l'appagamento di valori e rapporti umani cui
la nuova società è manifestamente allergica.
Fortunatamente Sant'Agata ha il privilegio di avere un quadro
fedele di quel mio mondo. L'attenta sensibilità di Leprino
un santagatese, forse melanconico testimone di una società
ormai avviata a un decisivo tramonto, ha voluto e saputo tramandare
la testimonianza storica della Civiltà Contadina e delle
botteghe artigiane che la supportavano. Il "Crocicchio"
conserva in misura "Bonsai" quel mondo nelle sue fondamentali
varietà e articolazioni. Lì vi è la memoria
storica della Sant'Agata che fu.
Quel capolavoro, forte richiamo a gente vicina e lontana, è
l'opera che ha reso il nostro geniale Leprino il santagatese
oggi più conosciuto e forse l'unico che sarà ricordato
in un lontano domani. |