Un uomo d’arte: poeta, regista di teatro, pittore

Antonin Artaud


di Federica Turriziani Colonna

C’è un Artaud poeta, un Artaud regista di teatro, un Artaud pittore. Quanti Artuad, dunque? Solo uno. Semplicemente, un uomo d’arte. Egli non si occupò di ciascuna disciplina in momenti diversi della sua vita, ma di tutte contemporaneamente. Da giovanissimo, egli inviò alcuni suoi manoscritti in versi alla prestigiosa rivista “La nouvelle revue française”, che però non glieli pubblicò; di lì ebbe inizio una intensa corrispondenza con il direttore di quella rivista, Jacques Rivière: ma se le poesie non erano pubblicabili, le lettere in cui Artaud parlava dell’impossibilità di scrivere, giustificando i suoi versi come parole strappate al nulla in cui sprofondava di tanto in tanto il suo spirito, ebbene, la corrispondenza, che mostrava un Artaud estremamente lucido nella diagnosi della sua malattia dello spirito, fu invece pubblicata, su proposta dello stesso Rivière. Perché, allora, quelle poesie non erano pubblicabili? Perché mancavano di un preciso oggetto d’analisi, per cui Artaud, nella totale libertà di scrivere, scriveva…male, stando a Rivière, o almeno versi che non potevano essere pubblicati. Ma Artaud non riusciva ad accettare che una gravi - danza dello spirito non fosse pubblicabile, e nella corrispondenza è evidente che il problema non era tanto quello di comparire su una prestigiosa rivista, ma di sapere se fosse degno di continuare a pensare. Le lettere costituiscono dunque una notevole riflessione sulla teoria della scrittura, e al tempo stesso la testimonianza di un disagio psichico che lo portò, in seguito, a trascorrere nove anni della sua vita nei manicomi e a subire ben cinquantuno elettroshock. Intanto, Artaud si occupava (siamo negli anni Venti del Novecento) di teatro, inizialmente come critico, scrivendo anche sui “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello, poi lavorando presso l’Atelier Charles Dullin, come attore, come sceneggiatore, da vero factotum del teatro. In seguito, egli fondò una compagnia propria, il Teatro Alfred Jarry (il nome era un omaggio al fondatore del teatro dell’assurdo), pubblicando le sue tesi per un teatro nuovo, il teatro della crudeltà. L’ispirazione per un nuovo modello di teatro venne ad Artaud in seguito alla partecipazione ad uno spettacolo di teatro balinese. Dunque l’incontro con la cultura orientale agì come un catalizzatore sul suo pensiero: il teatro doveva rinnovarsi, tornando alle sue origini, recuperando un linguaggio autenticamente teatrale, un linguaggio che si rivolgesse ai sensi. Quello di cui parla Artaud è un teatro in cui gli attori sono gero g l i f i c i, immagini, corpi che si muovono nello spazio, la cui voce non sia veicolo di un linguaggio intellettuale, ma musica, respiro, suono che accompagni un gesto: il linguaggio autenticamente teatrale è dunque pura sinestesia. In cosa consiste, poi, la crudeltà? Non si intende spargimento di sangue, che sarebbe gratuito, ma con crudeltà Artaud designa il rigore, la lucidità, la vita stessa, così com’è: se il teatro è scaduto in un momento d’evasione, il manifesto del teatro della crudeltà propone un teatro in cui non vi sia più quel tacito accordo tra l’attore, che recita una finzione, e lo spettatore, cosciente di assistere ad una finzione, ad una rappresentazione soltanto verosimile; si andrà a teatro come si andasse dal dentista o dal chirurgo, consapevoli che lo spettacolo toccherà i punti nevralgici del proprio corpo, e se ne uscirà diversi, e scossi. Ecco la crudeltà, lo spettatore andrà via quasi gridando, gli attori reciteranno, crudelmente, cioè rinunciando a rappresentare, ma presenteranno la vita, in tutto il suo rigore. Ad una conferenza alla Sorbona dal titolo “Il teatro e la peste”, Artaud iniziò con il rintracciare l’origine del teatro proprio in uno scenario di epidemia provocata dalla peste, quando cioè la morte incombe: ecco che nasce il teatro, che non si distingue dalla vita, che è la vita stessa nell’espressione di un gesto, di un respiro. E proprio l’incombere della morte spinge l’uomo a cercare l’immortalità: nel teatro. La conferenza si chiuse con Artaud che recitava l’agonia da peste, fino ad accasciarsi a terra. Il pubblico non seppe fare altro che ridacchiare, e andar via. Artuad confidò la sua rabbia per quella reazione del pubblico ad una sua amica, Anais Nin, che pure aveva assistito alla conferenza-spettacolo: con quella recitazione,lui intendeva svegliarlo, il pubblico, crudelmente. Ma è evidente che i tempi non erano maturi per la crudeltà di Artaud. Nella concezione dell’attore- geroglifico, si intravede già un interesse per la pittura, come arte visiva che non sia solo rappresentativa, ma immagine capace di evoca teatro inteso come poesia nello spa - zio, si ravvisa ancora l’amore di Artaud per la creazione di versi che non siano solo versi, ma prosa, immagine, movimento, spasmo dell’anima. Ecco dunque in che modo egli si sia occupato di più discipline contemporaneamente, fondendole l’una nell’altra. Dopo l’esperienza del teatro, nel ’36 Artaud partì alla volta del Messico, che pure non era l’Oriente cui tanto era legato, ma si trattava comunque di un territorio colonizzato, in cui sopravviveva però un’antica cultura, tutta da scoprire; il suo viaggio fu quello di un Europeo che non voleva sottomettere un popolo antico, ma da esso voleva imparare quel linguaggio non di parole, ma visivo, il linguaggio dei sensi, e della magia. Le vicende che seguirono al viaggio in Messico e ad un altro fatto in Irlanda costituiscono anni di sofferenza per l’artista, trascorsi in numerosi ospedali psichiatrici. L’esperienza dell’internamento è il leitmotiv che serpeggia in tutta l’opera che Artaud dedica a Van Gogh, con il quale egli condivide l’arte, il genio e la follia. Ma la pittura non è solo trattata in riferimento a Van Gogh. Sono numerosissimi i disegni di Artaud, e peculiari: egli non dipingeva sulla tela, ma su quaderni di scuola, e i suoi disegni sono contornati da parole, frasi intere, pensieri, che sono parte integrante dell’opera stessa: non esiste la poesia separata dal disegno, ma tutto si mescola in quella che noi chiamiamo opera d’arte, anche se Artuad odiava il concetto di arte come fine a se stessa: basta con i capolavori!, egli riteneva che l’opera, che non è opera-d’-arte, avesse una sua utilità, come ad esempio scacciare gli spiriti malvagi (qui risiede appunto la psicosi: Artaud inviava i “Sortilegi” alle persone che gli erano a cuore, perché grazie a quelli fossero protette. I “Sortilegi” consistevano in fogli scritti, colorati e bruciati in alcuni punti; l’effetto pittorico era meraviglioso, e quel colorare la carta e poi bruciarla non è altro che imbrattamento del soggettile, come scrisse lui stesso, cioè del supporto dell’opera, perché l’arte deve cessare di essere capolavoro, deve poter diventare imbrattamento, e deve poter scacciare le forze maligne di cui è composta la realtà). La difesa di Van Gogh rappresenta la difesa della propria salute mentale, e al tempo stesso la diagnosi di una malattia: della società. Van Gogh godeva di buona salute, era una mente lucida superiore, in grado di comprendere lo stato pietoso in cui versava la società in cui viveva. Fu la società malata che, dopo essersi creata un apparato di psichiatri perversi, dopo aver inventato l’esistenza delle malattie mentali (che Artaud negava che esistessero), etichetta come malate le menti lucide come quella di Van Gogh. Perciò Van Gogh non si è suicidato, ma è stata la società malata ad entrare dentro di lui, ad impossessarsi del suo corpo, e a suicidar - lo. Artaud fa continui riferimenti al dipinto diVan Gogh “Campo di grano con corvi”, che, secondo la leggenda, risalirebbe ai due giorni che intercorsero tra la fucilata che l’artista si diede nel ventre, e la sua morte. Analogamente, Paule Thevénin, un’amica di Artaud, racconta che pochi giorni prima di morire, egli ripeteva di non aver più nulla da mettere su carta, ma fu sorpreso con una penna in mano: che faceva? Disegnava bastoni, che lentamente divennero altre parole…

Federica Turriziani Colonna