Chiesa docente e discente
La Chiesa romana ha sempre avuto grande cura di definire le
funzioni dei propri fedeli nei vari ruoli della vita ecclesiastica. In
particolare, una netta distinzione ha caratterizzato l'orizzonte dottrinale del
Cattolicesimo romano: quella tra Chiesa "docente" (coloro che sono preposti al
compito dell'insegnamento e della trasmissione del deposito della fede,
storicamente il Papa e i vescovi, o prelati equiparati ai vescovi, in comunione
con il Papa) e Chiesa "discente" (coloro che apprendono la dottrina, ovvero
tutti gli altri cristiani, inclusi i preti, che pure hanno il mandato della
predicazione). Questa suddivisione è stata causa di profonde fratture
psicologiche tra i fedeli, incoraggiando un tipo di gerarchizzazione collegato
al ruolo didattico.
L'Ortodossia, d'altro canto, ha sempre rifiutato la distinzione
tra Chiesa docente e discente: il compito di apprendere, insegnare e vigilare
sulla fede appartiene a tutti i fedeli, e il rispetto per singole figure di
monaci e chierici di particolare cultura e profondità non va in alcun modo
confuso con il rispetto per i membri del clero in quanto celebranti dei Misteri
di Cristo, o per i membri dell'ordine monastico in quanto cristiani impegnati in
una vita radicale dei principi evangelici.
Chiese sorelle
Una vasta polemica è stata sollevata in anni recenti dall'uso
sconsiderato del termine "Chiese sorelle", per indicare le realtà ecclesiali
cattolica romana e ortodossa alla ricerca di unità.
Per la mentalità ortodossa, la fratellanza significa anche
comunione nella stessa fede, e non solo condivisione di un cammino di dialogo e
di ricerca di unità. Le uniche chiese che un ortodosso può in piena coscienza
chiamare "sorelle" sono le diverse Chiese autocefale dell'ecumene ortodosso, e
anche queste, comunque, nella coscienza che si tratta di realtà locali dell'unica
Chiesa. Chiamare "sorella" una comunione ecclesiale separata dalla Chiesa
Ortodossa equivale a un cedimento rispetto alla confessione della Chiesa Una, e
a un tradimento del Simbolo di fede.
Allo stesso modo, gli ortodossi avvertono improprietà nell'uso
del termine "Chiesa indivisa" per indicare l'ecumene cristiano del primo
millennio (il termine dovrebbe presupporre l'esistenza di una "Chiesa divisa"
nei secoli successivi, affermazione che è in contraddizione con la fede
proclamata nel Credo).
Una terminologia ben più appropriata sarebbe quella relativa ai
"cristiani divisi", o alla fratellanza tra i medesimi, nella ricerca dell'unità
di fede.
Clero sposato
Fin dai tempi apostolici, la Chiesa ha chiamato al servizio
ministeriale, oltre ai celibi, anche gli uomini sposati. Quando la disciplina
del matrimonio fu fissata nei Concili di Ancira (314), Nicea (325), Gangra (c.
350) e nel Concilio Trullano del 692, fu rispettata questa tradizione, con la
riserva di scegliere i vescovi tra gli uomini che avessero pronunciato i voti
monastici (in questi casi, se l'eletto all'episcopato era sposato, il matrimonio
veniva sospeso, ed entrambi i coniugi entravano nella vita monastica). Non era
invece ammesso un matrimonio dopo l'ordinazione, e se un membro del clero
rimasto vedovo desiderava risposarsi, doveva accettare la riduzione allo stato
laicale.
La Chiesa ortodossa segue tuttora questa tradizione, senza
alcuna modifica. Riteniamo opportuno correggere il luogo comune che parla di
"preti che si sposano" nelle Chiese ortodosse: esistono preti sposati, ma non
preti che si sposano (a meno di venire ridotti allo stato laicale).
Inoltre, è bene ricordare che nella Chiesa ortodossa i preti e
diaconi sposati sono tenuti a offrire nella loro vita matrimoniale una immagine
rigorosa e ideale del sacramento nuziale. Pertanto, non può essere ordinato agli
Ordini maggiori un uomo che abbia sposato una divorziata o una vedova, o che
abbia contratto un secondo matrimonio.
In Occidente, il Concilio di Elvira, in Spagna (306), proibì a
preti e diaconi di vivere con le proprie mogli dopo l'ordinazione. Nonostante
questa innovazione fosse stata condannata dal Concilio Trullano, ebbe inizio una
serie di iniziative, mai del tutto riuscite, per imporre il celibato sacerdotale
(l'imposizione lasciava purtroppo mano libera al concubinato), finché i primi
due Concili Lateranensi (1123 e 1139) lo imposero con validità universale. Papa
Alessandro III, nel 1180, impose il celibato anche ai diaconi, ma in anni
recenti ai diaconi permanenti della Chiesa cattolica romana è stato restituito
il diritto di essere ordinati nello stato coniugale.
Per le Chiese orientali unite a Roma, la tendenza generale è
quella di rispettare le tradizioni di provenienza, ma talvolta queste sono state
drasticamente ignorate (un esempio è la forzatura del celibato sui sacerdoti
cattolici orientali al di fuori dei loro territori storici d'origine: una prassi
che causò il ritorno di molti di loro all'Ortodossia, tra cui intere diocesi in
America).
La disciplina cattolico-romana sul celibato sacerdotale, per
quanto venga giustificata con ottime ragioni, soprattutto pastorali, presenta
troppi "strappi" e cambiamenti perché gli ortodossi la possano ritenere conforme
alla tradizione della Chiesa.
Comunione chiusa
Anche se un cristiano non ortodosso interamente tagliato fuori
dai ministri della propria Chiesa può, in casi particolari (persecuzioni,
pericolo di morte, isolamento geografico...) essere ammesso con permesso
speciale a ricevere la Santa Comunione nella Chiesa ortodossa, non si
applica in alcun modo il contrario: agli ortodossi è proibito essere ammessi
alla comunione eucaristica per mano di sacerdoti non ortodossi. Nella sua
apparente durezza (per la quale gli ortodossi vengono facilmente criticati),
questa norma è profondamente in linea con la fede della Chiesa. Comunicare al
Corpo e al Sangue di Cristo significa anche confessare che nella Chiesa in cui
ci si comunica esiste la pienezza della fede apostolica. Significa inoltre,
di fatto, diventare membri di detta Chiesa a pieno titolo,
abbracciandone l'etica, i regolamenti e la disciplina. Alla luce di queste
considerazioni si può capire non solo l'assoluto divieto di comunicarsi presso
ministri non ortodossi, ma anche la reticenza dei sacerdoti ortodossi a
comunicare cristiani di altre comunioni (è un gesto di rispetto della loro
libertà religiosa, un rifiuto di cooptarli in modo poco pulito nel numero dei
propri fedeli).
L'atteggiamento della Chiesa cattolica romana, che permette con
maggiore larghezza ai propri fedeli di ricevere certi sacramenti in altre
Chiese, nelle quali essa non riconosce esplicitamente la pienezza della fede
cristiana (canone 844 del Codice di Diritto Canonico del 1983), è visto dagli
ortodossi come un cedimento a un relativismo ecclesiologico non diverso da
quello della maggior parte delle Chiese protestanti.
Comunione sotto le due specie
Mentre la tradizione liturgica latina ha sottratto il calice ai
laici dall'Alto Medioevo fino al periodo seguente al Vaticano II, la Chiesa
ortodossa ha sempre mantenuto, in conformità alle istruzioni di Cristo (Mt
26,27: "Bevetene tutti"), la comunione sotto le due specie. Il Corpo e il Sangue
di Cristo, mescolati nel calice, vengono solitamente amministrati ai fedeli
mediante un cucchiaio. Anche le particole che sono conservate per la comunione
dei malati vengono intinte nel vino consacrato prima di essere custodite nei
tabernacoli.
Solo nella Liturgia di San Giacomo, il più antico rito
eucaristico tuttora celebrato dagli ortodossi, gli elementi eucaristici vengono
distribuiti separatamente, ma in ogni caso i fedeli partecipano sia dell'uno che
dell'altro.
La quantità degli elementi non è importante (ai bambini
non ancora svezzati può essere amministrato, in un cucchiaino, un frammento
estremamente piccolo del pane eucaristico), ma rimane importante la
partecipazione a entrambi.
Un paragone simbolico può servire a riportare l'attenzione
all'importanza di questo dettame della Chiesa ortodossa: un corpo senza sangue
è, per definizione, un corpo privo di vita.
Concili di riunione
Le aspirazioni ecumeniche cattolico-romane ripropongono
regolarmente le soluzioni di unione con l'Oriente che furono tentate con i
Concili di Lione (1274) e di Ferrara-Firenze (1438-39). Le formule di questi
ultimi (ritenuti Concili Ecumenici dal Cattolicesimo romano) furono
vigorosamente respinte dall'ecumene ortodosso, e la loro rivisitazione in chiave
contemporanea sembra portare a scontati risultati negativi.
Il problema con le formule di unione di Lione e Firenze è che
queste costituiscono una non-soluzione, dal punto di vista dell'unità di fede.
Le loro conclusioni - che entrambe le parti possono mantenere le rispettive
differenze dottrinali e rituali in una reciproca legittimazione - sono per
l'Ortodossia una rinuncia alla professione di una fede unica.
Una proposta più interessante per gli ortodossi sembra quella di
lavorare per un'unione sulla base del Concilio di Costantinopoli dell'879-880,
tenuto sotto il Papa Giovanni VIII e il Patriarca Fozio. Questo concilio, che
rovesciò le decisioni del concilio "ignaziano" o "anti-foziano" dell'869
(ritenuto oggi dai cattolici romani l'Ottavo Concilio Ecumenico), resta l'ultimo
concilio in cui si testimoniò la comune fede ortodossa dell'Occidente e
dell'Oriente. Esso riconobbe Roma e Costantinopoli come supreme nella propria
sfera, senza alcuna "giurisdizione romana" su Costantinopoli. Ripudiò
unanimemente il filioque (q.v.), e portò alla completa reintegrazione di
San Fozio nel suo ruolo patriarcale.
Questo concilio presenta dei problemi agli occhi degli apologeti
romani. L'Occidente considerò questo concilio, se non come ecumenico, per lo
meno come un sinodo autorevole approvato da Roma. L'Oriente lo vide come
ecumenico, poiché vi concorsero tutti i criteri presenti nei concili precedenti:
convocazione imperiale e presenza di tutti e cinque i patriarcati maggiori. Gli
atti di questo concilio seguono sempre gli atti degli altri Sette nelle
collezioni ortodosse di diritto canonico. Per due secoli, il concilio
dell'869-870 espresse la fede comune di Roma e dell'Oriente.
Non fu che con la Riforma gregoriana che le cose cambiarono di
nuovo in Occidente. Il concilio "ignaziano" fu riconosciuto come il vero Ottavo
Concilio Ecumenico. Nessuna giustificazione fu mai addotta da Roma per spiegare
questa soluzione di continuità. Ovviamente, anche le tavole d'argento con il
Credo comune (senza filioque), appese a Roma in San Pietro, caddero dalla
loro sede, e con loro cadde simbolicamente la fede comune dell'Oriente e
dell'Occidente cristiano.
Purtroppo, l'esito finale del concilio dell'869-870, con il
mutamento di riconoscimento dopo due secoli di accettazione, non rassicura
troppo l'Oriente sulle pretese romane di stabilità dottrinale.
Concilio ecumenico: quali requisiti?
Perché si possa parlare di Concilio ecumenico, la Chiesa
ortodossa richiede la presenza di una minaccia attuale alla fede della Chiesa,
che viene difesa attraverso una definizione conciliare. Numerosi concili che la
Chiesa cattolica romana considera ecumenici (Costantinopoli IV, Laterano II,
Lione I, Costanza, e lo stesso Vaticano II) presentano difficoltà in questo
campo, per la loro enfasi politico-amministrativa o pastorale. La coscienza
ortodossa tenderebbe piuttosto a iscrivere questi concili nella linea della
tendenza latina allo sviluppo dogmatico (q.v.). Una chiara valutazione del
valore dei concili ritenuti ecumenici da Roma (due terzi non sono condivisi
dall'Ortodossia) è indispensabile sulla via della ricerca di un'unità di fede.
Confessione
Il sacramento della penitenza, le cui modalità non sono state
codificate in modo immutabile (dalle forme antiche di confessione pubblica si è
passati gradualmente alla confessione auricolare privata), ha seguito un
percorso diverso nel mondo ortodosso e cattolico romano.
Nella prassi ortodossa, la presenza invisibile di Cristo (vero
fulcro di un legame triangolare di cui il prete e il penitente non sono il
vertice principale) è manifestata dalla presenza di un'icona di Cristo; ciò
viene ulteriormente sottolineato dalla posizione del prete e del penitente,
entrambi seduti (usanza greca) o entrambi in piedi (usanza russa) di fronte
all'icona del Salvatore.
Il mondo cattolico romano ha sviluppato il confessionale a
grata, nella ricerca di una via di discrezione e di raccoglimento nella
confessione; pur riuscendo a raggiungere tali scopi, ha tuttavia reso difficile
vedere la presenza simbolica di Cristo, e ha fatto uscire di proporzione il
ruolo del prete rispetto a quello del penitente.
Parallelamente a queste innovazioni, principi di uno spiccato
giuridismo (q.v.) hanno teso a trasformare il confessore in un "direttore delle
coscienze", piuttosto che un testimone di fronte a Cristo della confessione di
un altro peccatore.
Decanonizzazioni
La Chiesa ortodossa, non avendo una procedura "centralizzata" e
inappellabile per la canonizzazione dei santi, ammette in linea di principio che
il giudizio di canonizzazione non sia infallibile. Può capitare pertanto che la
Chiesa tolga dall'albo dei santi certi nomi, e che eventualmente ve li rimetta,
senza che questo crei scandalo tra i fedeli. (È una prassi di fatto accaduta
all'imperatore Costantino, sospettato di arianesimo, e alla principessa russa
Anna di Kashin, sospettata di aver appartenuto allo scisma dei Vecchi Credenti,
entrambi tolti dall'albo dei santi e in seguito ricanonizzati).
La Chiesa cattolica romana, al contrario, sostiene che la
canonizzazione sia un atto irreformabile, in quanto giudizio solenne che impegna
la Chiesa. Gli ortodossi non sanno se essere più sconcertati per questo
rigorismo inappellabile, o per certe flagranti contraddizioni in cui lo stesso
Cattolicesimo romano è caduto, ammettendo di fatto numerose decanonizzazioni.
Tra i santi decanonizzati dalla Chiesa romana per ragioni di
ortodossia teologica, citiamo due casi: San Clemente Alessandrino, festeggiato
il 4 Dicembre, fu radiato nel 1586 dal Martirologio Romano da Papa Sisto
V, su istanza del Cardinale Baronio, per sospetti di origenismo; Papa Urbano V
(1362-1370) fa ancora riferimento in una delle sue bolle a San Giovanni
Cassiano, in seguito radiato dall'albo dei santi sotto accusa di
semipelagianesimo.
Una decanonizzazione che è parsa particolarmente offensiva agli
ortodossi (per i quali equivale a uno sfregio alla tradizione), è la recente
esclusione dall'albo cattolico romano dei santi di figure sulla cui storicità
sono stati espressi dubbi (a cominciare da San Giorgio e Santa Barbara, due
delle figure più venerate del cristianesimo).
Devozione al Sacro Cuore
In profonda armonia con lo spirito del Concilio di Calcedonia
(culto unico di Cristo nella sua divinità e umanità), l'Ortodossia ha sempre
mantenuto un senso globale nell'adorazione di Cristo, e anche oggi gli ortodossi
si sentono estranei alle forme di culto di qualche parte distinta del suo
essere, o di una delle sue nature separata dall'altra.
L'esempio più clamoroso di tali forme di culto è la devozione
cattolico-romana al Sacro Cuore di Gesù (una pratica sviluppatasi alla fine del
XVII secolo dalle rivelazioni della mistica francese Margherita Maria Alacoque).
Anche se per "cuore" intendiamo l'ardente amore del Salvatore
per gli uomini, pure non esiste, nell'Antico e nel Nuovo Testamento e nella
tradizione dei Padri, l'usanza di adorare separatamente l'amore di Dio (o la sua
sapienza, provvidenza, santità, o altri aspetti separati), tanto meno usandone
come simbolo una parte del corpo.
L'Ortodossia vede qualcosa di innaturale nella separazione del
cuore dalla natura corporea generale del Signore a scopo di preghiera e
contrizione di fronte a Lui. Anche nell'amore più spontaneo e immediato, come
quello materno, non ci si riferisce mai al cuore della persona amata, ma sempre
alla persona stessa, in modo globale.
Gli stessi commenti possono valere riguardo a forme simili di
devozione (per esempio, quella al Cuore Immacolato di Maria), profondamente
sentite nel mondo cattolico romano.
Devozioni medioevali
Le usanze e le pratiche devozionali del mondo ortodosso attuale
hanno mantenuto una notevole continuità con quelle del primo millennio. Non così
si può dire del mondo della pietà cattolica romana, che subì una vera e propria
rivoluzione intorno al dodicesimo secolo. Con lo spostamento dell'attenzione
dalla nostra redenzione per mezzo della Risurrezione del Signore a un'enfasi
sulla Passione del Signore, fu introdotto nel culto e nella devozione privata un
elemento simbolico di amore carnale. Si giunse a considerare il Signore come
compagno, amico o perfino marito/amante, come si vede nelle immagini
matrimoniali introdotte nella professione monastica (q.v.) delle donne in
Occidente. Tra le manifestazioni di questo nuovo approccio a Cristo vi sono la
festa del Santo Nome, devozioni speciali alle Cinque Piaghe di Cristo, le
stazioni della Via Crucis, le meditazioni assegnate alle decadi del rosario, il
presepio di Natale e la devozione al "Bambino Gesù" in generale, nonché la
devozione al Sacro Cuore di Gesù (q.v.). L'Ortodossia ha mantenuto un approccio
devozionale al Signore molto più sobrio e obiettivo, cercando di evitare la
sensualità, la sentimentalità e l'emotività.
Diaconato permanente
Rimanendo fedele alla tripartizione del ministero sacerdotale
(diaconi, presbiteri e vescovi), la Chiesa ortodossa ha sempre giudicato
opportuno che i diaconi possano restare nel loro stato, se tale è il loro
desiderio, anche per tutta la vita; ciò si giustifica con la ricchezza e la
complessità del ruolo del diacono nelle funzioni sacre ortodosse (nella Divina
Liturgia, per esempio, le parti riservate ai diaconi sono preponderanti, e
costituiscono un legame ideale tra fedeli, coro e sacerdote).
Nel mondo cattolico romano, con l'assottigliarsi delle funzioni
del diacono nei riti, il diaconato è gradualmente divenuto, fino ai tempi del
Concilio Vaticano Secondo, un periodo di "apprendistato" al sacerdozio,
solitamente della durata di un anno.
La recente riaffermazione di un diaconato permanente nella
Chiesa cattolica romana manifesta un lodevole desiderio di ridare al diaconato
un ruolo di dignità e di importanza nella Chiesa. Gli Ortodossi vedono anche con
favore la reintroduzione, nel diaconato permanente romano, della prassi del
clero sposato. Visto che tali regole permettono l'ordinazione di uomini sposati
al diaconato, ma non al sacerdozio, resta tuttavia l'interrogativo su quanti
degli attuali "diaconi permanenti" rimarrebbero tali se si aprissero loro le
porte dell'ordinazione presbiterale.
Diaconesse
La diaconessa, figura presente nelle comunità cristiane del
Nuovo Testamento, è un tipo di ministero femminile che ebbe una certa importanza
nei primi secoli della cristianità, finché le sue funzioni (che non
corrispondevano a quelle liturgiche e ministeriali del diacono) furono
gradualmente assorbite dagli ordini monastici femminili. Per la verità, le
tracce storiche di presenza di diaconesse sono enormemente più frequenti nelle
chiese dell'Oriente cristiano che in quelle occidentali.
Nella Chiesa cattolica romana, a grandi linee, si può escludere
la presenza di diaconesse per tutto il secondo millennio, e anche se si è
parlato di una possibile rivalutazione di questo ministero, non si è ancora
deciso nulla a proposito.
Nelle Chiese ortodosse, invece, si sono avuti ancora fino ai
nostri giorni casi di ammissioni di diaconesse, benché troppo rari per poter
parlare di un costume fisso. Ricordiamo i casi di Madre Maria Tuchkova in Russia
nel diciannovesimo secolo, e le monache greche ordinate da San Nettario di Egina
alcuni decenni dopo: tuttora si ha sentore di ordinazioni sporadiche di
diaconesse, ma per lo più monache, e il loro ministero è confinato nei propri
monasteri.
Una ulteriore rivalutazione ed estensione del ruolo della
diaconessa, nell'Ortodossia, non avrebbe in linea di massima alcun ostacolo
canonico, e sarebbe soggetta unicamente all'approvazione dei fedeli.
Digiuno e astinenza
Già nell'anno 867 San Fozio, patriarca di Costantinopoli,
lamentava l'introduzione di deviazioni della prassi del digiuno operate dalla
Chiesa romana, e imposte dai missionari latini: l'usanza di digiunare anche il
sabato, e la concessione di cibarsi di latticini nella prima settimana di
quaresima. (Provvedimenti, quindi, talvolta più rigorosi e talvolta più
permissivi, ma in ogni caso deviazioni dalla prassi della Chiesa antica). Ma le
deviazioni sarebbero aumentate ancora di più dopo lo scisma.
Gli odierni residui delle antiche astinenze alimentari tuttora
rimasti nella chiesa cattolica romana si limitano al divieto della carne in
alcuni giorni particolari della quaresima. Nei periodi di digiuno degli
ortodossi (che corrispondono a più della metà dei giorni dell'anno), è rimasto
invece l'antico divieto di cibarsi, oltre che della carne, anche di pesce, uova,
latte e latticini, vino e olio.
Per gli ortodossi, a differenza dei cattolici romani, rimane in
vigore il divieto di consumare sangue, in conformità con il dettame del Concilio
apostolico di Gerusalemme, citato in At 15,20.
In alcuni casi (che variano a seconda di usi nazionali e locali)
l'astinenza viene lievemente mitigata in ricorrenze speciali, ma si tratta
comunque, anche da un punto di vista meramente quantitativo, di una attitudine
verso il digiuno molto più rigorosa di quella cattolico-romana.
Inoltre, nell'Ortodossia digiunano tutti, non solo i
monaci, con un fervore e una disciplina che provocano spesso stupore nei
cattolici romani, abituati a vedere lo stesso rigore solo nei più severi ordini
religiosi.
In generale, si può dire che questo enorme divario di prassi
ascetica rifletta due tendenze del tutto differenti di considerare il mondo e il
cammino di santificazione: il Cattolicesimo romano si è gradualmente diretto
verso un progressivo adattamento a questo mondo e alla sua mentalità
(ritenendolo, indubbiamente, una misura di generosità della Chiesa nei confronti
dei propri figli); l'Ortodossia, invece, pur consapevole della difficoltà di
mantenere severe prescrizioni ascetiche nel presente oceano di mondanità, non si
sente autorizzata a sminuire i suoi modelli etici. Questi sono infatti modelli
di santità, ai quali i fedeli ortodossi sanno di essere sempre e
immancabilmente chiamati.
Digiuno eucaristico
Come per i periodi di digiuno quaresimale, si è visto nella
Chiesa cattolica romana un progressivo indebolimento del senso del digiuno prima
di ricevere la santa Comunione. Con le recenti riforme il digiuno eucaristico si
è ridotto a una singola ora di astinenza dai cibi e bevande, eccettuata l'acqua.
Nella Chiesa ortodossa, dove l'antica pratica è invece rimasta
immutata, per chi desidera comunicarsi nulla può essere mangiato o bevuto dal
momento del risveglio al mattino. Nel caso di Liturgie vespertine (permesse
dalle rubriche ortodosse solo quando la Liturgia si fonde con il Vespro, in 4
occasioni di vigilie di grandi feste, e nelle Liturgie dei Presantificati in
alcuni giorni della Grande Quaresima), il periodo di digiuno totale prima di
comunicarsi è lo stesso, ma in certi casi viene tollerato un digiuno di
sei ore.
Non sono infrequenti, nel mondo ortodosso, casi di fedeli
particolarmente devoti, che prima di comunicarsi osservano anche uno o più
giorni di digiuno totale.
Diritto canonico
Comprendendo nel suo seno popoli con tradizioni giuridiche molto
diversificate, la Chiesa ortodossa non ha, a differenza di quella cattolica
romana, un testo di diritto canonico unificato. Eppure, come per i libri
liturgici (q.v.), esiste una ricca serie di collezioni di canoni, tra le quali
emerge il Pedalion (timone) di San Nicodemo l'Agiorita, pubblicato nel
1800.
Si considerano normative per l'Ortodossia le collezioni
canoniche dell'epoca dei sette Concili Ecumenici del primo millennio, nonché
l'ampia raccolta del Concilio Quinisesto o Trullano, che è la più antica
codificazione estesa del diritto canonico ortodosso.
L'ignoranza del diritto canonico ortodosso ha fatto spesso
pensare, in Occidente, a un'Ortodossia "priva di regole". In realtà, le regole
sono abbondanti e spesso di grande strettezza e rigore, anche se modellate su
situazioni e necessità locali.
La recente promulgazione (1990) di un testo unico di diritto
canonico per le chiese cattoliche di rito orientale è vista quanto meno con
perplessità dagli ortodossi, che si chiedono come un'unica normativa uniforme
possa adattarsi alle diverse usanze e situazioni storiche dei popoli cristiani
dell'Oriente (una situazione aggravata dal fatto che il mondo cattolico
orientale comprende Chiese di diversa origine, come quelle uscite dal mondo non
calcedoniano).
Divorzio e secondo matrimonio
Si dice talvolta, in ambienti cattolici romani, che la Chiesa
ortodossa tollera il divorzio: l'affermazione è alquanto gratuita, soprattutto
in un'epoca in cui, parlando di divorzio, si pensa subito all'istituzione
giuridica moderna. In realtà l'Ortodossia non è affatto "divorzista": essa fa
proprie le parole di Gesù sul ripudio (in quanto atto unilaterale e umano di
scioglimento di un legame divino). Tuttavia, come misura di economia (dispensazione)
e filantropia (amorevolezza), basandosi sul fatto che Cristo stesso
permise un'eccezione (Mt. 19,9) al suo rifiuto del ripudio, la Chiesa ortodossa
è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale
sia stato sciolto dalla Chiesa (non dallo Stato!), in base al potere dato
alla Chiesa di sciogliere e legare, e concedendo una seconda opportunità in
alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per
estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una
finzione). È prevista (per quanto scoraggiata) anche la possibilità di un terzo
matrimonio, mentre è in ogni caso proibito un quarto (gli antichi canoni che
proibivano in ogni caso un quarto matrimonio non sono più rispettati nel
cattolicesimo romano). Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze in
casi di scioglimento del matrimonio viene concessa solo al coniuge innocente.
Le seconde (e terze) nozze, a differenza del primo matrimonio,
sono celebrate con un rito speciale, di carattere penitenziale (il cui principio
è il riconoscimento di una situazione di fallimento), che contiene una preghiera
di assoluzione (la prassi cattolica romana non prevede una identificazione
liturgica delle seconde nozze). Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in
antico il momento dell'incoronazione degli sposi (che la teologia ortodossa
ritiene il momento essenziale del matrimonio), esiste una giustificazione
teologica nel dire che le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma tutt'al
più, per usare la terminologia latina, un sacramentale, che consente ai nuovi
sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità
ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi
rimasti vedovi, e questo consente di dire che l'Ortodossia, in linea di
principio (e a differenza del Cattolicesimo romano) permette un solo vero
matrimonio sacramentale in tutta la vita.
"Due polmoni"
Il paragone che vede nell'Occidente e nell'Oriente i due polmoni
del mondo cristiano, che pur nella loro distinzione respirano la stessa aria
dello Spirito, proviene dalla stessa Sede romana, ed è frequentemente usato come
paradigma di apertura ecumenica.
Forse la scelta della metafora biologica sarebbe stata fatta in
modo diverso, se si fosse avuto sott'occhio lo stesso paragone fatto nel
contesto ortodosso da San Teofane il Recluso nella sua omelia di Pentecoste del
1860. Ne riproduciamo il passo in questione, lasciando ai lettori ogni eventuale
commento.
"Ciò avviene perché in una parte dell'umanità gli organi della
respirazione sono danneggiati, e un'altra pare, una parte ampia, non è neppure
esposta all'influenza di questo soffio salutare. Perché la respirazione abbia il
suo pieno effetto sul corpo, infatti, è necessario che tutti i condotti dei
polmoni siano integri e privi di ostruzioni. Allo stesso modo, perché lo Spirito
Divino manifesti il suo pieno effetto, è necessario che siano integri gli organi
che Egli stesso ha stabilito per la propria acquisizione; vale a dire, i Divini
Misteri e i riti religiosi dovrebbero essere preservati esattamente così come
vennero stabiliti dai Santi Apostoli, guidati dallo Spirito di Dio. Laddove
questi riti sono danneggiati, il soffio dello Spirito Divino non è pieno; di
conseguenza, manca del pieno effetto. In questo modo tutti i misteri papisti [papistov
nel testo originale] sono danneggiati, e molti riti religiosi salvifici sono
pervertiti. Il Papato ha polmoni incrostati e infetti."
Durata della Liturgia
Una delle caratteristiche che qualificano la Liturgia bizantina
(e, in generale, tutto l'insieme dei riti sacri ortodossi) rispetto alla Messa
romana è la sua maggiore lunghezza. In particolare, coloro che non vi sono
abituati restano colpiti dalla frequente reiterazione delle preghiere pubbliche
in forma di litania.
Anche se la maggiore lunghezza non è esagerata (a livello
parrocchiale, una Liturgia domenicale non dura di solito oltre un'ora e mezza),
essa contribuisce a dare un carattere di "atemporalità" alle funzioni, più
consona allo spirito della celebrazione festiva.
Epiclesi eucaristica
Nel rito eucaristico della Chiesa ortodossa, un momento
fondamentale è costituito dall'epiclesi, ovvero dall'invocazione dello
Spirito Santo sui Santi doni, perché li trasformi nel Corpo e nel Sangue di
Cristo. Questo momento dell'epiclesi è presente anche in molti altri momenti del
culto ortodosso, tipicamente quando la Chiesa vuole sottolineare che certi
effetti misteriosi non avvengono per volontà umana, ma per intervento di Dio.
Anche se la epiclesi non viene considerata l'unico fattore che
determina la consacrazione eucaristica, nondimeno la teologia ortodossa
riterrebbe priva di validità un'Eucaristia celebrata senza l'invocazione, almeno
implicita, dello Spirito.
Inoltre, per la Chiesa ortodossa è la preghiera dell'epiclesi
(recitata dopo le parole di istituzione) a perfezionare la trasformazione
eucaristica: La Liturgia di San Giovanni Crisostomo, a questo proposito, è
inequivocabile: "...e fa' di questo PANE il prezioso Corpo del tuo Cristo".
Per la teologia cattolico-romana, il momento della consacrazione
è costituito dalle parole di istituzione ("questo è il mio corpo" e "questo è il
mio sangue"), e la formula di epiclesi viene di solito considerata secondaria.
Prima del Concilio Vaticano II, il Canone eucaristico romano non
conteneva una epiclesi esplicita; molti liturgisti ortodossi, tra cui il celebre
Nicola Cabasilas, indicarono tuttavia nel paragrafo Supplices Te rogamus...
una forma implicita di invocazione dello Spirito.
È significativo, inoltre, che negli antichi canoni eucaristici,
l'epiclesi fosse sempre posta dopo le parole di istituzione, per indicare
il culmine del processo di consacrazione. Così è tuttora nella liturgia
bizantina, e così era nel rito latino per quanto riguarda il Supplices Te
rogamus. Un fatto curioso del rito eucaristico romano post-conciliare è che
l'antica Anafora di Ippolito (divenuta la Preghiera Eucaristica II) abbia subito
una traslazione dell'epiclesi da dopo le parole di istituzione a prima,
in una posizione più "neutrale".
L'insistenza cattolico-romana sulle parole di istituzione non
sembra peraltro giustificata in tutto l'ecumene cristiano: una delle antiche
liturgie siriache, l'Anafora di Addai e Mari (tuttora in uso presso le chiese
sire), è addirittura priva delle parole di istituzione.
Espiazione vicaria
Dalla scuola di Anselmo di Aosta (e, in origine, dalla
concezione agostiniana del peccato originale ereditario) è pervenuta al
Cattolicesimo romano una comprensione della Crocifissione come pagamento di una
punizione, un "riscatto" che Cristo soffrì al posto del genere umano, costretto
alla schiavitù al male per virtù del peccato originale.
L'Ortodossia ha una visione assai differente della sofferenza di
Cristo e della sua morte sulla Croce: queste ebbero come fine la sconfitta del
diavolo e la distruzione del suo potere, la morte (in questo caso, l'unico
"riscatto" è quello pagato alla tomba). L'umanità partecipa al riscatto dal
diavolo e dalla morte attraverso la padronanza sulle passioni: le sofferenze
salvatrici di Cristo vengono così inserite in una cornice di preghiera, pubblica
e privata, digiuno (rinnegamento di sé) e obbedienza volontaria, di cui il
monachesimo è l'espressione più evidente.
La visione occidentale dell'espiazione vicaria portò a notevoli
mutamenti di percorso, con l'introduzione di elementi quali la punizione
ecclesiastica dei peccati, le opere supererogatorie, e tutta la cornice
giuridica del Purgatorio (q.v.).
Tutto l'edificio teologico del peccato originale e
dell'espiazione vicaria (con la sua assoluta necessità di una soddisfazione
infinita per un'offesa, e la sua concezione tutto sommato mondana e passionale
di giustizia, quasi riconducibile alla vendetta) mette in serio dubbio la bontà
di Dio. Può anche essere visto come un pericoloso sintomo di ritorno al
paganesimo, con la necessità dell'Incarnazione pari alla Necessità che regolava
gli atti degli dèi.
Essenza ed Energie
I Padri della Chiesa, di fronte al problema della conoscibilità
di Dio, furono molto attenti a distinguere tra un'essenza inconoscibile
di Dio (che salvaguarda la sua differenza ontologica con l'uomo e il resto del
creato) e le sue energie divine (increate, e fonte della comunicazione di
Dio all'uomo). La distinzione tra essenza ed energie è uno degli insegnamenti
più profondi dei Santi Padri sulla deificazione dell'uomo, e offre una
spiegazione sulla natura della visione di Dio e delle esperienze spirituali.
Tale insegnamento fu rigettato dalla scolastica occidentale, che
fece propria una dottrina della "visione dell'essenza divina" che Padri del
calibro di San Basilio e San Giovanni Crisostomo avrebbero definito una
bestemmia.
Nonostante recenti rivalutazioni della teologia patristica in
materia di essenza ed energie, ancora nel recente Catechismo della Chiesa
Cattolica (§ 1023), lo stato di beatitudine è chiamato "visione dell'essenza
divina".
Fede e Ragione
Seguendo i Santi Padri, l'Ortodossia si serve scienza e
filosofia per difendere e spiegare la propria fede, ma senza cercare di
riconciliare fede e ragione, o di provare la fede con la logica e la scienza: in
questa attitudine, essa vedrebbe piuttosto un pericolo di cambiamenti di fede
nel tentativo di adeguamento ai processi intellettuali del tempo. Dal periodo
della scolastica (q.v.) in poi, il rispetto per la ragione umana ha portato i
cattolicesimo romano a profondi ridimensionamenti in campo di teologia,
sacramenti, e istituzioni ecclesiastiche.
Il Cattolicesimo romano insegna che la ragione può provare
l'esistenza di Dio, e anche dedurne i suoi attributi (eternità, bontà,
incorporeità, onnipotenza, onniscienza...); l'Ortodossia ritiene piuttosto che
la conoscenza di Dio sia impiantata nella natura umana; salvo un intervento di
Dio, la ragione umana non può scoprire altro.
Il classico detto della teologia romana "potuit, decuit, ergo
fecit" (Dio ha il potere di fare qualcosa, Dio l'avrebbe voluta fare, e perciò
Dio l'ha fatta), se viene preso come misura di come e quando Dio interviene
nella storia, pone il teologo latino nella situazione impossibile di giudicare e
dedurre quando Dio ha desiderato che una certa cosa accadesse. In questo caso
l'infallibilità papale (q.v.) si rende necessaria per dirimere le controversie
di ipotesi e spiegazioni contraddittorie.
L'importanza della ragione, che sta alla base del senso dello
sviluppo dogmatico (q.v.), deriva (o piuttosto è sostenuta) dalla particolare
antropologia del Cattolicesimo romano: questa asserisce che, di tutte le facoltà
umane, la ragione sia la meno coinvolta nella caduta dell'uomo. L'Ortodossia
ritiene invece che la ragione sia intaccata dalla caduta allo stesso modo di
tutte le altre facoltà umane.
Festività alterate
La Chiesa cattolica romana ha spostato, o "sdoppiato", alcune
delle grandi festività dell'anno liturgico. Per esempio, il Battesimo del
Signore, anticamente celebrato il 6 Gennaio, festa della Teofania o Epifania
(vale a dire, manifestazione divina) viene oggi celebrato la domenica
successiva. La Domenica della Trinità, divenuta festa a parte, un tempo formava
un'unica festività con la Domenica di Pentecoste, e così via.
Nel rimanere fedele alle antiche festività, l'Ortodossia vuole
anche insistere sul loro significato teologico, e teme che il loro senso venga
indebolito o perduto con ripetizioni e spostamenti. Offriamo qui di seguito
alcuni esempi esplicativi:
- L'adorazione dei Magi è collegata alla Natività del Signore,
sia nella narrazione evangelica che nella comprensione della Chiesa ortodossa
(come si può notare nella celebrazione del Natale ortodosso). Lo spostamento di
questo evento alla festa dell'Epifania non solo crea una separazione artificiosa
nel contesto della Natività, ma indebolisce l'idea stessa della manifestazione
divina, derubandola dell'immagine della manifestazione della Trinità al
battesimo nel Giordano.
- L'adozione da parte di tutta la cristianità occidentale dei
giorni 1 e 2 Novembre per celebrare tutti i Santi, e la memoria dei defunti,
proviene dall'antica chiesa irlandese. Questa pratica era mirata a
cristianizzare la festa druidica di Samhain, il giorno celebrato con sacrifici
pagani, in cui si credeva che le anime dei defunti tornassero sulla terra. A
parte ogni considerazione sulla riuscita di tale iniziativa (il successo
contemporaneo di Halloween nei paesi di lingua inglese può far nascere qualche
dubbio in proposito), l'adozione indifferenziata di questo costume veramente
locale per tutti i paesi cattolici di tradizione non celtica sembra una
vera forzatura. Per di più, veniva soppiantata la pratica antica (tuttora
osservata dagli ortodossi) di festeggiare tutti i Santi la domenica successiva
alla Pentecoste (cosa che rafforza il legame logico tra la comunione dei Santi e
lo Spirito "fonte di ogni santità"), nonché l'antico costume di dedicare al
ricordo dei defunti tutti i giorni di Sabato, con l'introduzione di una
"stagione dei morti" un po' artificiosa.
- Gli eventi biblici che hanno sempre espresso la regalità di
Cristo sono l'Ingresso a Gerusalemme, l'Ascensione e, in modo paradossale,
l'iter della Passione. L'aggiunta di una nuova festa di Cristo Re, per quanto
bene intenzionata, separa l'idea astratta della regalità di Cristo, quasi come
una lode "politica" alla monarchia in sé, collocando la regalità in un contesto
isolato dalla storia della salvezza.