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Ser Gianni III detto Sole
 

ROCCHETTA SANT'ANTONIO NEL 1656 CONTAVA 1136 Abitanti

 

PRINCIPATO DI MELFI
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Vicende storiche di un antico stato feudale -

  CARACCIOLO DEL SOLE

CARACCIOLO DEL SOLE: DUCA DI MELFI,  Patrizio Napoletano. Sposa Sichelgaita Siginolfa.

Detto Sergianni (* 1372 ca. + assassinato, Napoli 19-8-1432), 1° Duca di Venosa con privilegio del 12-3- 1425 con le terre di Venosa, Melfi, Atella, Ripacandida e Rapolla.

Sergianni (Giovanni) II (+ imprigionato a Castelnuovo il 20-6- 1487, forse morto poco dopo), 2° Duca di Melfi.

Don Troiano II (+ Melfi 16-5-1520), 3° Duca di Melfi (il titolo era stato confiscato dal padre ma lo riebbe con tutti i feudi dal Re di Francia nel 1495)Conte di Forenza, Signore di Rapolla, Ripacandida, Candela e Abriola.

Don Sergianni (Giovanni) III (* 1487 + 5-8-1559), 2° Principe di Melfi, Conte di Forenza, Barone di Frigento, Signore di Cisterna, Leonessa, Canarda, Rapolla, Atella, San Fele, Lagopesole, Montorio, Candela, Torella, Villamaina e Patrizio Napoletano dal 1520, titoli e feudi confiscati nel 1528 per fellonia.

Don Antonio (* Melfi 1515 ca. + Troyes 1570), 5° Duca titolare di Melfi.

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La morte del sovrano Roberto d'Angiò, sopraggiunta nel 1343, apre per il Regno di Napoli un lungo periodo di crisi costellato da continue lotte intestine aventi come obiettivo la successione al trono. Per accaparrarsi l'alleanza dei feudatari, i pretendenti che si alternarono alla guida della nazione, nel tentativo di consolidare la loro posizione istituzionale, furono costretti ad elargire nei confronti dei baroni continui benefici e privilegi, provocando l'inevitabile e progressivo indebolimento del potere centrale ed il conseguente potenziamento di quello feudale. I piccoli e frammentari possedimenti assegnati generalmente a militi che si erano distinti al servizio dei vari regnanti del Meridione a partire dal periodo normanno-svevo, divennero, nella prima metà del XV secolo, veri e propri stati feudali, i cui possessori, grazie anche ad un efficace sistema fondato sulla parentela e sull'alleanza tra i casati, avevano la capacità di influenzare in maniera determinante le vicende politiche dell'intero regno.
La città di Melfi, Atella e il feudo di Lagopesole furono affidati nel 1416 a Sergianni
Caracciolo. Discendente da un ramo dei Caracciolo detto "del Sole", Sergianni si era dapprima distinto in guerra al fianco del re Ladislao di Durazzo, divenendo poi l'amante ufficiale della regina Giovanna II, dalla quale ebbe i predetti possedimenti e la carica di gran siniscalco del regno.
Nel giro di pochi anni la contea si ingrandì con altri feudi: Candela, Rapolla, S. Fele, Avigliano e Forenza. Al 1420 risale l'acquisto di Ripacandida dai Bonifacio, mentre Abriola fu portato in dote dalla moglie di Sergianni, Caterina Filangieri.
Il Caracciolo ottenne anche il ducato di Venosa (1425), ed esercitò indirettamente il controllo su Oppido, sul castrum di Monticchio e su Lavello. Il prestigio acquisito da Sergianni cominciò a destare serie preoccupazioni negli ambienti vicini alla monarchia angioina, soprattutto dopo la scoperta del suo tentativo di avvicinamento alla fazione aragonese. Fu perciò la stessa Giovanna II a tessere la congiura che portò all'assassinio del Caracciolo proprio nel giorno del matrimonio tra il figlio Troiano e Maria Caldora, nell'agosto del 1432. Fu un duro colpo per Troiano, che si vide confiscare tutti i feudi, ma la fine del governo angioino era imminente, e il Caracciolo ne doveva essere consapevole, dal momento che negli anni successivi si pose al servizio di Alfonso d'Aragona contribuendo al successo di quest'ultimo, e fu premiato pertanto nel 1441 con il titolo ducale e la restituzione dell'intero stato di Melfi.
Per oltre quarant'anni la configurazione del vasto comprensorio di feudi non subì alcuna variazione, nonostante il diretto successore di Troiano, Giovanni II Caracciolo, avesse sostenuto il partito francese all'inizio degli anni '60 del XV secolo, nell'interminabile conflitto tra iberici e transalpini per il dominio sul Meridione d'Italia.
La partecipazione di Giovanni II all'ennesima congiura contro Ferdinando I d'Aragona, ordita nel 1485, costò al duca di Melfi la confisca dei feudi e, dopo la prigionia nelle segrete di Castelnuovo, a Napoli, la stessa vita (1487). La storia dei Caracciolo del Sole sembra ripetersi ciclicamente. Quanto accaduto a Troiano I successe anche al nipote Troiano II, figlio di Giovanni II, che dovette barcamenarsi tra simpatie filofrancesi alimentate dalla spedizione di Carlo VIII nel Regno di Napoli, e la fedeltà alla monarchia aragonese, ma nel 1495 riuscì a rientrare in possesso dei feudi di Rapolla, Ripacandida, Candela ed Abriola.
Il 17 dicembre 1498 Troiano II venne insignito del titolo di principe di Melfi da Federico d'Aragona, ricomponendosi cosi gli antichi confini dello stato feudale, fatta eccezione per Avigliano, pervenuto nel frattempo in possesso dei discendenti del ramo cadetto dei Caracciolo del Sole, i quali, a partire da Diomede, avevano assunto la denominazione di Caracciolo di Avigliano.
Alla morte di Troiano II (1520) il suo erede, Giovanni III, dichiarò 6.728 ducati di entrate feudali per l'intero principato, derivanti soprattutto da Melfi (2.754 ducati), Candela (1.105) ed Atella (1.018). Tra i feudi montani soltanto Lagopesole offriva una rendita rispettabile (572 ducati), se si tiene conto che quel vasto territorio era in gran parte boscoso, e gli unici terreni coltivati erano ubicati nella piana di Iscalunga, posta al confine col demanio di Atella.
Le entrate dichiarate dal principe, finalizzate a precisi adempimenti fiscali verso la regia corte di Napoli, potrebbero, però, essere state falsate, così come lascia supporre la ricognizione ordinata nel 1530 da Carlo V alla fine del conflitto franco-spagnolo. Melfi, Atella e Candela fecero registrare rispettivamente 3.500, 1.586 e 1.486 ducati. Per gli altri feudi i valori sono pressoché doppi rispetto a quelli del 1520, ma il caso clamoroso è ancora una volta costituito da Lagopesole, la cui rendita assommava a 1.450 ducati.
Il lungo dominio dei Caracciolo del Sole finì definitivamente nel 1528 quando Giovanni III, avendo prestato servizio al seguito dei Francesi, venne privato da Carlo V di tutti i suoi beni e costretto all'esilio in Francia.
Per oltre un secolo la regione del Vulture-Melfese era stata lo scenario di cruenti scontri, spesso decisivi per la definitiva affermazione spagnola. Va pertanto ricordato l'episodio del sacco di Atella, compiuto durante l'estate del 1496 dall'esercito francese comandato da Gilberto di Borbone conte di Montpensier. Questi fece della cittadina fortificata il baluardo della resistenza alla reazione aragonese, la quale ebbe la meglio soltanto dopo un lungo assedio condotto dallo stesso sovrano, Ferdinando II, poi deceduto a causa della malaria contratta proprio ad Atella.
Alla città di Melfi è legato il drammatico saccheggio dei Francesi guidati dal Lautrec. Moltissimi furono i cittadini massacrati ed i superstiti furono costretti ad abbandonare la città per diversi giorni, facendovi ritorno nel giorno della Pentecoste del 1528.
I risvolti negativi dovuti alle vicende militari verificatesi nella microregione del Vulture-Melfese accomunano anche altri luoghi del Mezzogiorno durante il corso del XV secolo e parte del XVI. Tuttavia, la presenza di un'unica famiglia feudale in un lasso di tempo di oltre un secolo contribuì a porre le basi per la realizzazione di interventi finalizzati allo sfruttamento delle risorse esistenti sull'intero territorio del principato, senza perdere di vista le diversità ambientali esistenti tra i singoli feudi, cui si possono aggiungere le difficoltà di rapporto con le università e, ancor più, con l'amministrazione diocesana (chiese e monasteri dipendevano dai vescovi di Ascoli Satriano, Melfi, Rapolla, Venosa, Potenza e Muro). 
I Caracciolo si mostrarono benevoli nei confronti delle ondate migratorie albanesi. Dopo l'insediamento della colonia di Barile (1478) concessero agli esuli di Scutari il territorio di Massa Lombarda presso Ripacandida, per la fondazione di un centro abitato che assunse la denominazione di Ginestra.
In campo urbanistico fu Melfi, capoluogo del principato, a beneficiare di continui interventi innovativi, in parte ancora oggi leggibili nell'edilizia civile e religiosa della città. Agli eventi bellici seguirono diverse catastrofi (epidemie, carestie, terremoti) che ostacolarono ripetutamente lo sviluppo economico e demografico dell'area. 
Dal confronto tra la prima tassazione focatica aragonese (1447) e quelle volute nel 1521 e nel 1532(Tab. 1) da Carlo V, pur accogliendo questi dati con le dovute cautele che gli studi di demografia storica impongono, si può costatare come in poco più di settant'anni la popolazione del principato, pur restando sostanzialmente stabile, subì evidenti sconvolgimenti interni.
La ripresa di Melfi, il tracollo di Atella e l'exploit dei feudi montani, restano peraltro i principali indicatori di una tendenza destinata a non mutare nei secoli successivi.
 

Centri abitati

(fuochi)

1447

1521

1532

Melfi

631

792

781

Atella

789

497

532

Forenza

310

336

325

Rapolla

161

168

123

Ripacandida

134

87

100

Abriola

127

194

249

Candela

72

99

158

S. Fele

60

114

135

Avigliano

55

129

133

Tab. 1: le tassazioni focatiche nei centri dello stato di Melfi tra XV e XVI secolo


I DORIA


L'apporto determinante delle navi di Andrea Doria in favore di Carlo V durante la guerra franco-spagnola fruttò all'ammiraglio genovese l'assegnazione dello stato di Melfi col titolo principesco (20 dicembre 1531).
La configurazione dell'antico complesso feudale venne però notevolmente ridimensionata. Ne facevano parte soltanto Melfi, Candela, Lagopesole e Forenza, divisi in due tronconi dal nucleo centrale della regione del Vulture, ricadente nei territori di Atella, Rapolla, Ripacandida e S. Fele, assegnati ad altre famiglie gentilizie.
I Doria ereditarono una pesante situazione, derivante dal continuo susseguirsi per oltre un trentennio, di guerre, pestilenze e carestie. Tale stato di cose non sfuggì al nuovo governo vicereale spagnolo, che, con l'intento di favorire la ripresa economica, ridusse il carico fiscale nei confronti delle popolazioni del Vulture. È questo il contesto in cui s'inserisce il programma dell'amministrazione Doria, fondato sul massiccio incremento della cerealicoltura, attraverso l'introduzione di due essenziali meccanismi di conduzione delle aziende: l'affitto e la colonia.
L'intraprendenza del principe ereditario Marcantonio Doria del Carretto, grazie anche alla sua frequente presenza nello stato, determinò lo sfruttamento di terreni prima incolti o adibiti al pascolo.
Alla fine del decennio 1571-80 vennero raggiunti livelli produttivi elevatissimi, preludio purtroppo di un nuovo periodo di recessione che si concluse soltanto intorno al 1620.
Lo sfruttamento delle terre feudali non distolse l'attenzione dei Doria dalle potenziali possibilità espansionistiche in Basilicata. S'iniziò con Tursi, città che non entrò mai a far parte del principato a causa della sua notevole distanza dal Melfese, ma che restò sempre sotto la giurisdizione della famiglia genovese.
Con la cessione di Lacedonia al prezzo di 76.500 ducati da parte di Carlo Pappacoda (1584), si attivò il primo importante passo finalizzato all'ampliamento dei confini dello stato feudale.
L'impossibilità di ricompattare il principato tramite l'acquisto di Atella indusse i Doria quantomeno a cercare di potenziare singolarmente ognuno dei due poli. Puntarono così ad acquisire Rocchetta, terra che s'incunea tra Melfi, Candela e Lacedonia, pagandola 72.000 ducati ad Innigo del Tufo il 9 ottobre 1609.
Sull'altro versante le mire dei principi di Melfi si rivolsero sin dal 1608 su Avigliano, ma furono necessari altri quattro anni per portare a conclusione l'acquisto di quella terra. I 48.000 ducati pagati al giurista Ferrante Rovito il 24 maggio 1612 sembrano in apparenza una cifra esorbitante per una terra sita tra monti con un esiguo territorio coltivabile ed una rendita leggermente superiore ai 2.000 ducati annui, ma la cittadina era in forte ascesa demografica e diversi suoi abitanti erano impegnati nella colonizzazione del feudo disabitato di Lagopesole, gia intorno alla metà del Cinquecento Marcantonio del Carretto, aveva concesso agli aviglianesi una forte riduzione sul pagamento dei terraggi in cambio della spesa del dissodamento e della messa a coltura dei boschi del feudo, ottenendo sin dal principio lusinghieri risultati.
Il 31 maggio 1613 venne conclusa la trattativa per l'acquisto di S. Fele, pervenuta nel 1607 a Giacomo Grimaldi, esponente del patriziato genovese, il cui erede, Giambattista, la cedette per 69.000 ducati. Con S. Fele diventano pressoché definitivi i confini del principato, su cui i Doria esercitarono il proprio dominio fino all'abrogazione della feudalità (1806).
La gestione amministrativa dello stato, che in principio i Doria seguirono personalmente, a partire dalla fine del XVI secolo iniziò ad essere affidata ad una persona di fiducia del principe, ovvero al governatore. 
Costui, scelto in seno alle famiglie nobili genovesi alleate dei Doria, rappresentava la massima autorità politica e militare del principato, fungendo da un lato da trait d'union tra il potere feudale e quello centrale, e dall'altro tra potere feudale ed amministrazione civica (università) delle terre. L'azione di controllo in loco era demandata ai capitani, presenti in ognuno dei sette centri abitati, mentre la cura del feudo di Lagopesole dipendeva dal castellano che dimorava all'interno del maniero federiciano.
L'asfissiante presenza baronale si faceva sentire tanto sotto il profilo fiscale quanto in riferimento all'organizzazione della giustizia, sottoponendo le popolazioni a continue vessazioni. Ciò portò le università ad acquisire una forte coscienza politica e i feudatari, ancora prima dell'arrivo dei Doria, si videro costretti a sottoscrivere degli statuti per regolamentare i più elementari diritti dei cittadini.
Gli echi della rivolta napoletana capeggiata da Masaniello (1647) giunsero rapidamente nelle province del viceregno. Il governatore Marco De Franchi ritenne opportuno - ad esempio - prendere provvedimenti eccezionali consistenti nel munire di artiglieria le fortificazioni di Melfi, faticando non poco per sedare le sommosse popolari di Avigliano, dove venne giustiziato il capopopolo, mentre a Candela nove cittadini persero la vita nel tentativo di impedire l'insediamento del nuovo capitano.
Il 10 settembre 1656 sulla città di Melfi si abbatté il flagello della peste, che determinò nei cinque mesi successivi la morte di oltre cinquecento persone. Anche Candela venne duramente colpita. In undici mesi perirono circa duecento persone sugli 866 abitanti di quel centro.
Le conseguenze della peste si ripercuotono dolorosamente sull'economia del principato. La difficoltà di commercio del grano fra le comunità del regno chiuse in quarantena, il calo del fabbisogno alimentare della stessa capitale, Napoli, dovuto alla morte di circa 270.000 abitanti sui 450.000 stimati all'inizio dell'epidemia, il proliferare del banditismo, rappresentarono i principali fattori del danno subito sia dall'azienda feudale dei Doria sia dai piccoli e grandi massari.
Il viceré di Napoli non indugiò a varare nuove norme per la numerazione dei fuochi fiscali, praticando all'indomani della peste uno sgravio alquanto disomogeneo nelle terre abitate dello stato di Melfi. Tuttavia la popolazione complessiva passò dalle 16.606 anime censite nel 1656 alle 17.832 del 1668 pur in presenza di una diminuzione dei fuochi fiscali pari al 20,37%. Non fu un grosso passo in avanti, e bisognerà attendere ancora molti anni per poter rilevare una ripresa demografica accettabile, che maturò lentamente durante l'ultimo ventennio del Seicento ed il primo trentennio del secolo successivo, nonostante le immancabili calamità: il terremoto distruttivo del 1694, l'invasione di cavallette del 1711 provocante gravi danni ai raccolti, un'epidemia di afta epizootica (1712) cui segui la paurosa decimazione del patrimonio armentizio con la perdita di ben ottantatre bovi aratori sui cento complessivi da parte dell'azienda feudale.
Un massiccio incremento della popolazione si avrà soltanto nella seconda metà del Settecento, sfiorando negli ultimi anni del secolo la soglia dei 40.000 abitanti (come si evince dalla Tab. 2).
 

Centri abitati

(abitanti)

1656

1668

1732

1735

1795 ca.

Melfi

5.427

5.262

5.525

8.000

 

Avigliano

3.900

4.150

5.500

9.000

 

S. Fele

2.795

2.853

3.200

5.800

 

Forenza

1.728

2.254

2.700

4.700

 

Rocchetta

1.136

1.297

2.382

4.000

 

Candela

866

876

3.000

 

 

Lacedonia

754

1.140

2.183

5.000

 

Tab. 2: la popolazione dei centri dello stato di Melfi nei secoli XVII e XVIII



Nel corso del XVIII secolo il ceto dei ricchi proprietari terrieri e dei maggiori fittavoli del principe va acquisendo un peso sempre crescente nei centri abitati del principato. La borghesia agraria annovera nelle sue fila professionisti come notai, avvocati, medici, ma anche numerosi studenti, spesso in contatto con l'ambiente "illuminato" napoletano, in un momento particolarmente fervido quale quello della seconda metà del secolo.
Grazie a questo nuovo ceto la modernizzazione raggiunge rapidamente le province ed anche i Doria vi si adeguano, cercando di adattare il modello di gestione dei loro possedimenti alle nuove esigenze di innovazioni. Vi fu inoltre la revisione dei diritti feudali esercitati sulle università, e grande rilievo assunse la conduzione dell'azienda. Sin dal 1746 i poteri conferiti al governatore subiscono un ridimensionati e le decisioni riguardanti l'amministrazione economica vennero affidate ad un nuovo organismo: la Consulta, che si riuniva in assemblea ogni settimana nel castello di Melfi, mentre il governatore fu affiancato dal tesoriere e dal razionale. I poteri della Consulta aumentarono soprattutto in seguito alle direttive emanate nel 1767 dal principe, il quale individuò le cariche preposte ad esaminare le problematiche di natura economica, politica e giudiziaria nel tesoriere, nel razionale, nel soprintendente economico e nell'agente generale. 
Quest'ultima figura sostituì, sin dai primi anni '60, definitivamente il governatore.
Per meglio seguire i rapporti con le istituzioni statali, in primo luogo con la Regia Camera della Sommaria, dove lunghissime vertenze giudiziarie si susseguivano contro le università, il principe Andrea IV Doria nominò nel 1792 un apposito funzionario di stanza a Napoli: Domenico Mastellone, grande esperto in materie giuridiche.
Intanto il sistema feudale era ormai giunto al suo ultimo stadio. Messa in discussione durante la rivoluzione giacobina del 1799, la feudalità venne abolita definitivamente dal governo francese nell'agosto del 1806, a pochi mesi dal suo insediamento alla guida del Regno di Napoli.
Se il principato cessò di esistere come organismo feudale, l'azienda Doria, radicalmente trasformata nel suo assetto organizzativo continuò ad essere la principale fonte di reddito per la famiglia genovese.
Lo sterminato latifondo (circa 8.500 ettari) sarà frazionato soltanto con l'attuazione della riforma agraria, a partire dal 1953.
 

 

 
 

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