PRINCIPATO DI MELFI
- Vicende storiche di un antico stato feudale -
CARACCIOLO DEL SOLE
CARACCIOLO DEL SOLE: DUCA DI MELFI,
Patrizio Napoletano. Sposa Sichelgaita Siginolfa.
Detto Sergianni (* 1372 ca.
+ assassinato, Napoli 19-8-1432), 1° Duca di Venosa con privilegio del 12-3-
1425 con le terre di Venosa, Melfi, Atella, Ripacandida e Rapolla.
Sergianni (Giovanni)
II (+ imprigionato a Castelnuovo il 20-6- 1487, forse morto poco dopo),
2° Duca di Melfi.
Don Troiano II (+
Melfi 16-5-1520), 3° Duca di Melfi (il titolo era stato confiscato dal padre
ma lo riebbe con tutti i feudi dal Re di Francia nel 1495)Conte di Forenza,
Signore di Rapolla, Ripacandida, Candela e Abriola.
Don Sergianni
(Giovanni) III (* 1487 + 5-8-1559), 2° Principe di Melfi,
Conte di Forenza, Barone di Frigento, Signore
di Cisterna, Leonessa, Canarda, Rapolla, Atella, San Fele, Lagopesole,
Montorio, Candela, Torella, Villamaina e Patrizio Napoletano dal 1520, titoli
e feudi confiscati nel 1528 per fellonia.
Don Antonio (* Melfi 1515 ca. + Troyes 1570), 5° Duca titolare di Melfi.
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La
morte del sovrano Roberto d'Angiò,
sopraggiunta nel 1343, apre per il Regno di Napoli un lungo periodo di crisi
costellato da continue lotte intestine aventi come obiettivo la successione al
trono. Per accaparrarsi l'alleanza dei feudatari, i pretendenti che si
alternarono alla guida della nazione, nel tentativo di consolidare la loro
posizione istituzionale, furono costretti ad elargire nei confronti dei baroni
continui benefici e privilegi, provocando l'inevitabile e progressivo
indebolimento del potere centrale ed il conseguente potenziamento di quello
feudale. I piccoli e frammentari possedimenti assegnati generalmente a militi
che si erano distinti al servizio dei vari regnanti del Meridione a partire
dal periodo normanno-svevo, divennero, nella prima metà del XV secolo, veri e
propri stati feudali, i cui possessori, grazie anche ad un efficace sistema
fondato sulla parentela e sull'alleanza tra i casati, avevano la capacità di
influenzare in maniera determinante le vicende politiche dell'intero regno.
La città di Melfi, Atella e il feudo di Lagopesole furono affidati nel 1416 a
Sergianni
Caracciolo. Discendente da un ramo dei
Caracciolo detto
"del Sole", Sergianni si era dapprima distinto in guerra al fianco del re
Ladislao di Durazzo, divenendo poi l'amante ufficiale della regina Giovanna II,
dalla quale ebbe i predetti possedimenti e la carica di gran siniscalco del
regno.
Nel giro di pochi anni la contea si ingrandì con altri feudi: Candela, Rapolla,
S. Fele, Avigliano e Forenza. Al 1420 risale l'acquisto di Ripacandida dai
Bonifacio, mentre Abriola fu portato in dote dalla moglie di Sergianni,
Caterina Filangieri.
Il Caracciolo
ottenne anche il ducato di Venosa (1425), ed esercitò indirettamente il
controllo su Oppido, sul castrum di Monticchio e su Lavello. Il prestigio
acquisito da Sergianni cominciò a destare serie preoccupazioni negli ambienti
vicini alla monarchia angioina, soprattutto dopo la scoperta del suo tentativo
di avvicinamento alla fazione aragonese. Fu perciò la stessa Giovanna II a
tessere la congiura che portò all'assassinio del
Caracciolo proprio nel
giorno del matrimonio tra il figlio Troiano e Maria Caldora, nell'agosto del
1432. Fu un duro colpo per Troiano, che si vide confiscare tutti i feudi, ma
la fine del governo angioino era imminente, e il
Caracciolo ne doveva
essere consapevole, dal momento che negli anni successivi si pose al servizio
di Alfonso d'Aragona contribuendo al successo di quest'ultimo, e fu premiato
pertanto nel 1441 con il titolo ducale e la restituzione dell'intero stato di
Melfi.
Per oltre quarant'anni la configurazione del vasto comprensorio di feudi non
subì alcuna variazione, nonostante il diretto successore di Troiano, Giovanni
II Caracciolo,
avesse sostenuto il partito francese all'inizio degli anni '60 del XV secolo,
nell'interminabile conflitto tra iberici e transalpini per il dominio sul
Meridione d'Italia.
La partecipazione di Giovanni II all'ennesima congiura contro Ferdinando I
d'Aragona, ordita nel 1485, costò al duca di Melfi la confisca dei feudi e,
dopo la prigionia nelle segrete di Castelnuovo, a Napoli, la stessa vita
(1487). La storia dei Caracciolo
del Sole sembra ripetersi ciclicamente. Quanto accaduto a Troiano I successe
anche al nipote Troiano II, figlio di Giovanni II, che dovette barcamenarsi
tra simpatie filofrancesi alimentate dalla spedizione di Carlo VIII nel Regno
di Napoli, e la fedeltà alla monarchia aragonese, ma nel 1495 riuscì a
rientrare in possesso dei feudi di Rapolla, Ripacandida, Candela ed Abriola.
Il 17 dicembre 1498 Troiano II venne insignito del titolo di principe di Melfi
da Federico d'Aragona, ricomponendosi cosi gli antichi confini dello stato
feudale, fatta eccezione per Avigliano, pervenuto nel frattempo in possesso
dei discendenti del ramo cadetto dei Caracciolo del Sole, i quali, a partire da
Diomede, avevano assunto la denominazione di Caracciolo di Avigliano.
Alla morte di Troiano II (1520) il suo erede, Giovanni III, dichiarò 6.728
ducati di entrate feudali per l'intero principato, derivanti soprattutto da
Melfi (2.754 ducati), Candela (1.105) ed Atella (1.018). Tra i feudi montani
soltanto Lagopesole offriva una rendita rispettabile (572 ducati), se si tiene
conto che quel vasto territorio era in gran parte boscoso, e gli unici terreni
coltivati erano ubicati nella piana di Iscalunga, posta al confine col demanio
di Atella.
Le entrate dichiarate dal principe, finalizzate a precisi adempimenti fiscali
verso la regia corte di Napoli, potrebbero, però, essere state falsate, così
come lascia supporre la ricognizione ordinata nel 1530 da Carlo V alla fine
del conflitto franco-spagnolo. Melfi, Atella e Candela fecero registrare
rispettivamente 3.500, 1.586 e 1.486 ducati. Per gli altri feudi i valori sono
pressoché doppi rispetto a quelli del 1520, ma il caso clamoroso è ancora una
volta costituito da Lagopesole, la cui rendita assommava a 1.450 ducati.
Il lungo dominio dei Caracciolo
del Sole finì definitivamente nel 1528 quando Giovanni III, avendo prestato
servizio al seguito dei Francesi, venne privato da Carlo V di tutti i suoi
beni e costretto all'esilio in Francia.
Per oltre un secolo la regione del Vulture-Melfese era stata lo scenario di
cruenti scontri, spesso decisivi per la definitiva affermazione spagnola. Va
pertanto ricordato l'episodio del sacco di Atella, compiuto durante l'estate
del 1496 dall'esercito francese comandato da Gilberto di Borbone conte di
Montpensier. Questi fece della cittadina fortificata il baluardo della
resistenza alla reazione aragonese, la quale ebbe la meglio soltanto dopo un
lungo assedio condotto dallo stesso sovrano, Ferdinando II, poi deceduto a
causa della malaria contratta proprio ad Atella.
Alla città di Melfi è legato il drammatico saccheggio dei Francesi guidati dal
Lautrec. Moltissimi furono i cittadini massacrati ed i superstiti furono
costretti ad abbandonare la città per diversi giorni, facendovi ritorno nel
giorno della Pentecoste del 1528.
I risvolti negativi dovuti alle vicende militari verificatesi nella
microregione del Vulture-Melfese accomunano anche altri luoghi del Mezzogiorno
durante il corso del XV secolo e parte del XVI. Tuttavia, la presenza di
un'unica famiglia feudale in un lasso di tempo di oltre un secolo contribuì a
porre le basi per la realizzazione di interventi finalizzati allo sfruttamento
delle risorse esistenti sull'intero territorio del principato, senza perdere
di vista le diversità ambientali esistenti tra i singoli feudi, cui si possono
aggiungere le difficoltà di rapporto con le università e, ancor più, con
l'amministrazione diocesana (chiese e monasteri dipendevano dai vescovi di
Ascoli Satriano, Melfi, Rapolla, Venosa, Potenza e Muro).
I Caracciolo
si mostrarono benevoli nei confronti delle ondate migratorie albanesi. Dopo
l'insediamento della colonia di Barile (1478) concessero agli esuli di Scutari
il territorio di Massa Lombarda presso Ripacandida, per la fondazione di un
centro abitato che assunse la denominazione di Ginestra.
In campo urbanistico fu Melfi, capoluogo del principato, a beneficiare di
continui interventi innovativi, in parte ancora oggi leggibili nell'edilizia
civile e religiosa della città. Agli eventi bellici seguirono diverse
catastrofi (epidemie, carestie, terremoti) che ostacolarono ripetutamente lo
sviluppo economico e demografico dell'area.
Dal confronto tra la prima tassazione focatica aragonese (1447) e quelle
volute nel 1521 e nel 1532(Tab. 1) da Carlo V, pur accogliendo questi dati con
le dovute cautele che gli studi di demografia storica impongono, si può
costatare come in poco più di settant'anni la popolazione del principato, pur
restando sostanzialmente stabile, subì evidenti sconvolgimenti interni.
La ripresa di Melfi, il tracollo di Atella e l'exploit dei feudi montani,
restano peraltro i principali indicatori di una tendenza destinata a non
mutare nei secoli successivi.
Centri abitati
|
(fuochi)
|
1447
|
1521
|
1532
|
Melfi
|
631
|
792
|
781
|
Atella
|
789
|
497
|
532
|
Forenza
|
310
|
336
|
325
|
Rapolla
|
161
|
168
|
123
|
Ripacandida
|
134
|
87
|
100
|
Abriola
|
127
|
194
|
249
|
Candela
|
72
|
99
|
158
|
S. Fele
|
60
|
114
|
135
|
Avigliano
|
55
|
129
|
133
|
Tab. 1: le tassazioni focatiche
nei centri dello stato di Melfi tra XV e XVI secolo
I DORIA
L'apporto determinante delle navi di Andrea Doria in favore di Carlo V durante
la guerra franco-spagnola fruttò all'ammiraglio genovese l'assegnazione dello
stato di Melfi col titolo principesco (20 dicembre 1531).
La configurazione dell'antico complesso feudale venne però notevolmente
ridimensionata. Ne facevano parte soltanto Melfi, Candela, Lagopesole e
Forenza, divisi in due tronconi dal nucleo centrale della regione del Vulture,
ricadente nei territori di Atella, Rapolla, Ripacandida e S. Fele, assegnati
ad altre famiglie gentilizie.
I Doria ereditarono una pesante situazione, derivante dal continuo susseguirsi
per oltre un trentennio, di guerre, pestilenze e carestie. Tale stato di cose
non sfuggì al nuovo governo vicereale spagnolo, che, con l'intento di favorire
la ripresa economica, ridusse il carico fiscale nei confronti delle
popolazioni del Vulture. È questo il contesto in cui s'inserisce il programma
dell'amministrazione Doria, fondato sul massiccio incremento della
cerealicoltura, attraverso l'introduzione di due essenziali meccanismi di
conduzione delle aziende: l'affitto e la colonia.
L'intraprendenza del principe ereditario Marcantonio Doria del Carretto,
grazie anche alla sua frequente presenza nello stato, determinò lo
sfruttamento di terreni prima incolti o adibiti al pascolo.
Alla fine del decennio 1571-80 vennero raggiunti livelli produttivi
elevatissimi, preludio purtroppo di un nuovo periodo di recessione che si
concluse soltanto intorno al 1620.
Lo sfruttamento delle terre feudali non distolse l'attenzione dei Doria dalle
potenziali possibilità espansionistiche in Basilicata. S'iniziò con Tursi,
città che non entrò mai a far parte del principato a causa della sua notevole
distanza dal Melfese, ma che restò sempre sotto la giurisdizione della
famiglia genovese.
Con la cessione di Lacedonia al prezzo di 76.500 ducati da parte di Carlo
Pappacoda (1584), si attivò il primo importante passo finalizzato
all'ampliamento dei confini dello stato feudale.
L'impossibilità di ricompattare il principato tramite l'acquisto di Atella
indusse i Doria quantomeno a cercare di potenziare singolarmente ognuno dei
due poli. Puntarono così ad acquisire
Rocchetta, terra che
s'incunea tra Melfi, Candela e Lacedonia, pagandola 72.000 ducati ad Innigo
del Tufo il 9 ottobre 1609.
Sull'altro versante le mire dei principi di Melfi si rivolsero sin dal 1608 su
Avigliano, ma furono necessari altri quattro anni per portare a conclusione
l'acquisto di quella terra. I 48.000 ducati pagati al giurista Ferrante Rovito
il 24 maggio 1612 sembrano in apparenza una cifra esorbitante per una terra
sita tra monti con un esiguo territorio coltivabile ed una rendita leggermente
superiore ai 2.000 ducati annui, ma la cittadina era in forte ascesa
demografica e diversi suoi abitanti erano impegnati nella colonizzazione del
feudo disabitato di Lagopesole, gia intorno alla metà del Cinquecento
Marcantonio del Carretto, aveva concesso agli aviglianesi una forte riduzione
sul pagamento dei terraggi in cambio della spesa del dissodamento e della
messa a coltura dei boschi del feudo, ottenendo sin dal principio lusinghieri
risultati.
Il 31 maggio 1613 venne conclusa la trattativa per l'acquisto di S. Fele,
pervenuta nel 1607 a Giacomo Grimaldi, esponente del patriziato genovese, il
cui erede, Giambattista, la cedette per 69.000 ducati. Con S. Fele diventano
pressoché definitivi i confini del principato, su cui i Doria esercitarono il
proprio dominio fino all'abrogazione della feudalità (1806).
La gestione amministrativa dello stato, che in principio i Doria seguirono
personalmente, a partire dalla fine del XVI secolo iniziò ad essere affidata
ad una persona di fiducia del principe, ovvero al governatore.
Costui, scelto in seno alle famiglie nobili genovesi alleate dei Doria,
rappresentava la massima autorità politica e militare del principato, fungendo
da un lato da trait d'union tra il potere feudale e quello centrale, e
dall'altro tra potere feudale ed amministrazione civica (università) delle
terre. L'azione di controllo in loco era demandata ai capitani, presenti in
ognuno dei sette centri abitati, mentre la cura del feudo di Lagopesole
dipendeva dal castellano che dimorava all'interno del maniero federiciano.
L'asfissiante presenza baronale si faceva sentire tanto sotto il profilo
fiscale quanto in riferimento all'organizzazione della giustizia, sottoponendo
le popolazioni a continue vessazioni. Ciò portò le università ad acquisire una
forte coscienza politica e i feudatari, ancora prima dell'arrivo dei Doria, si
videro costretti a sottoscrivere degli statuti per regolamentare i più
elementari diritti dei cittadini.
Gli echi della rivolta napoletana capeggiata da Masaniello (1647) giunsero
rapidamente nelle province del viceregno. Il governatore Marco De Franchi
ritenne opportuno - ad esempio - prendere provvedimenti eccezionali
consistenti nel munire di artiglieria le fortificazioni di Melfi, faticando
non poco per sedare le sommosse popolari di Avigliano, dove venne giustiziato
il capopopolo, mentre a Candela nove cittadini persero la vita nel tentativo
di impedire l'insediamento del nuovo capitano.
Il 10 settembre 1656 sulla città di Melfi si abbatté il flagello della peste,
che determinò nei cinque mesi successivi la morte di oltre cinquecento
persone. Anche Candela venne duramente colpita. In undici mesi perirono circa
duecento persone sugli 866 abitanti di quel centro.
Le conseguenze della peste si ripercuotono dolorosamente sull'economia del
principato. La difficoltà di commercio del grano fra le comunità del regno
chiuse in quarantena, il calo del fabbisogno alimentare della stessa capitale,
Napoli, dovuto alla morte di circa 270.000 abitanti sui 450.000 stimati
all'inizio dell'epidemia, il proliferare del banditismo, rappresentarono i
principali fattori del danno subito sia dall'azienda feudale dei Doria sia dai
piccoli e grandi massari.
Il viceré di Napoli non indugiò a varare nuove norme per la numerazione dei
fuochi fiscali, praticando all'indomani della peste uno sgravio alquanto
disomogeneo nelle terre abitate dello stato di Melfi. Tuttavia la popolazione
complessiva passò dalle 16.606 anime censite nel 1656 alle 17.832 del 1668 pur
in presenza di una diminuzione dei fuochi fiscali pari al 20,37%. Non fu un
grosso passo in avanti, e bisognerà attendere ancora molti anni per poter
rilevare una ripresa demografica accettabile, che maturò lentamente durante
l'ultimo ventennio del Seicento ed il primo trentennio del secolo successivo,
nonostante le immancabili calamità: il terremoto distruttivo del 1694,
l'invasione di cavallette del 1711 provocante gravi danni ai raccolti,
un'epidemia di afta epizootica (1712) cui segui la paurosa decimazione del
patrimonio armentizio con la perdita di ben ottantatre bovi aratori sui cento
complessivi da parte dell'azienda feudale.
Un massiccio incremento della popolazione si avrà soltanto nella seconda metà
del Settecento, sfiorando negli ultimi anni del secolo la soglia dei 40.000
abitanti (come si evince dalla Tab. 2).
Centri abitati
|
(abitanti)
|
1656
|
1668
|
1732
|
1735
|
1795 ca.
|
Melfi
|
5.427
|
5.262
|
5.525
|
8.000
|
|
Avigliano
|
3.900
|
4.150
|
5.500
|
9.000
|
|
S. Fele
|
2.795
|
2.853
|
3.200
|
5.800
|
|
Forenza
|
1.728
|
2.254
|
2.700
|
4.700
|
|
Rocchetta
|
1.136
|
1.297
|
2.382
|
4.000
|
|
Candela
|
866
|
876
|
3.000
|
|
|
Lacedonia
|
754
|
1.140
|
2.183
|
5.000
|
|
Tab. 2: la
popolazione dei centri dello stato di Melfi nei secoli XVII e XVIII
Nel corso del XVIII secolo il ceto dei ricchi proprietari terrieri e dei
maggiori fittavoli del principe va acquisendo un peso sempre crescente nei
centri abitati del principato. La borghesia agraria annovera nelle sue fila
professionisti come notai, avvocati, medici, ma anche numerosi studenti,
spesso in contatto con l'ambiente "illuminato" napoletano, in un momento
particolarmente fervido quale quello della seconda metà del secolo.
Grazie a questo nuovo ceto la modernizzazione raggiunge rapidamente le
province ed anche i Doria vi si adeguano, cercando di adattare il modello di
gestione dei loro possedimenti alle nuove esigenze di innovazioni. Vi fu
inoltre la revisione dei diritti feudali esercitati sulle università, e grande
rilievo assunse la conduzione dell'azienda. Sin dal 1746 i poteri conferiti al
governatore subiscono un ridimensionati e le decisioni riguardanti
l'amministrazione economica vennero affidate ad un nuovo organismo: la
Consulta, che si riuniva in assemblea ogni settimana nel castello di Melfi,
mentre il governatore fu affiancato dal tesoriere e dal razionale. I poteri
della Consulta aumentarono soprattutto in seguito alle direttive emanate nel
1767 dal principe, il quale individuò le cariche preposte ad esaminare le
problematiche di natura economica, politica e giudiziaria nel tesoriere, nel
razionale, nel soprintendente economico e nell'agente generale.
Quest'ultima figura sostituì, sin dai primi anni '60, definitivamente il
governatore.
Per meglio seguire i rapporti con le istituzioni statali, in primo luogo con
la Regia Camera della Sommaria, dove lunghissime vertenze giudiziarie si
susseguivano contro le università, il principe Andrea IV Doria nominò nel 1792
un apposito funzionario di stanza a Napoli: Domenico Mastellone, grande
esperto in materie giuridiche.
Intanto il sistema feudale era ormai giunto al suo ultimo stadio. Messa in
discussione durante la rivoluzione giacobina del 1799, la feudalità venne
abolita definitivamente dal governo francese nell'agosto del 1806, a pochi
mesi dal suo insediamento alla guida del Regno di Napoli.
Se il principato cessò di esistere come organismo feudale, l'azienda Doria,
radicalmente trasformata nel suo assetto organizzativo continuò ad essere la
principale fonte di reddito per la famiglia genovese.
Lo sterminato latifondo (circa 8.500 ettari) sarà frazionato soltanto con
l'attuazione della riforma agraria, a partire dal 1953.
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