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La chiesa affama il popolo di Rocchetta

 

 

 

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A LACEDONIA NON SI VIVEVA DI SOLO ARIA

.....negli anni: ’75- ’76- ’79- ’82- ’85- ’88- ’90 si verifica una serie di cattivi raccolti, (il grano in questa annata arriva addirittura a 15 carlini il tomolo nella vicina Puglia). Intanto il 12 giugno 1584 “nominalmente per conto di Zenobia principessa titolare di Melfi”, Lacedonia viene venduta dai Pappacoda ai Doria per 76.500 ducati. L’ingresso di Lacedonia nel principato di Melfi, non muta la situazione economica: consente ai Doria di andare al di là dell’Ofanto e di procedere verso “l’arrotondamento dei confini tradizionali del principato”. Pertanto Lacedonia non puó che constatare l’accentuarsi progressivo degli elementi di crisi che ormai la investe in ogni lato: il 1587 è un anno funesto che vede la di munizione del gettito fiscale nelle casse dei Doria a causa di una moria del bestiame e dell’abbassamento del prezzo del grano. La crisi di Lacedonia trova una spiegazione anche nella politica del governatore di Melfi, Stefano Centurione, che privilegia la cerealicoltura a danno dell’allevamento, tanto che la città eleva le sue giuste proteste il 26 ottobre 1590.

Dinanzi a una politica di questo tipo, che colpisce l’economia lacedoniese e alle impennate-cadute continue del prezzo del grano, è perfino ovvio dedurre lo sfilacciamento del tessuto sociale. Sono gli anni in cui il vescovo Pedoca, come si vedrà in seguito, eleva ai sacri limini le sue amare considerazioni sullo stato delle diocesi. E cosi Lacedonia è costretta a dare prima per la nascita di Zenobia Doria nel 1594 200 ducati, e la carestia serpeggia ininterrotta da 5 anni; e poi di Felice Doria nel 1596 gli eletti offrono in omaggio una somma imprecisata, ma vi aggiungono la significatissima supplica di far lavorare quelle poche terre. In certe situazioni spesse confuse e contraddittorie cominciano a comparire il banditismo.

Compare il banditismo

Infatti nel gennaio del 1596 succede a Lacedonia un fatto di sangue: il commissario preposto alla numerazione dei fuochi, tale Gomez de Chiaves, uccide a pugnalate Ottavio Magone, razionale deputato al seguito dello stesso Chiaves. La triste piaga del banditismo si estende ormai con particolare virulenza anche Rocchetta al pari di tanti centri di tutta l’Irpinia, Le cronache narrano che nel settembre-ottobre 1596 Gaetano Masuccio da Solofra, alias Terminiello, con la sua comitiva di tredici persone staziona nei boschi tra Rocchetta e S. Agata di Puglia, separate dalla piccola valle del Calaggio, via ideale per disperdersi nelle vicinissime e spaziose piane pugliesi, e per raggiungere rapidamente i covi e le boscaglie della Baronia.

Lo sciopero delle decime

Un’altra situazione che non puó destare meraviglia è il conflitto sulle decime scoppiato nel 1597-’98 tra l’università (cioè la popolazione) e il clero di Rochetta da un lato il vescovo Pedoca dall’altra: Si tratta di uno “sciopero delle decime” e abbastanza insolito: il vescovo pretende il loro pagamento anche per i cavalli e i muli aratori; ma la consuetudine riguardava soltanto i buoi in forza di antichi accordi prescritti negli statuti locali e mai trasgrediti. Alla scomunica prontamente comminata dal Pedoca i rocchettani reagiscono inoltrando ricorso a Napoli, che sembra dar ragione al vescovo, e poi anche Roma.

Gli alloggiamenti militari

Ma la riprova dell’ulteriore aggravamento dello stato di disagio in cui versa quella università è costituita dagli alloggiamenti militari. Di che si tratta? Fin qui Rocchetta, al pari di Lacedonia, era stata risparmiata da questo autentico flagello delle finanze comunali.

Ma nel marzo 1608 fu costretta a prendere in prestito 1.500 ducati da Donato di Ventura di Ascoli Satriano; garanti dell’operazione furono scelti i massari locali, tra cui Cesare Mancino, Pompilio D’Agostino e Padovano Di Matteo. L’operazione si era resa necessaria per dare alloggiamento - per ventotto giorni – a una compagnia spagnola composta da quaranta soldati con relative cavalcature. Intanto nel 1603 Rocchetta era stata acquistata da Innigo Del Tufo, che l’aveva rilevata da Camillo Carocciolo, figlio di Marino. E infine nel 1609 Rocchetta si ricongiungeva anche fedualmente a Lacedonia: (ne faceva parte anche prima della separazione era durata poco piú di un secolo). Con l’unione a Lacedonia, Rocchetta passava anch’essa dai Del Tufo ai Doria di Melfi per 72.000 ducati. Questa unione tra l’altro fu vantaggiosa per i Doria perché permetteva di monofeudalizzare tutto l’estremo spartiacque irpino a nord-ovest dell’alto-medio Ofanto da Lacedonia Candela. Fatto sta che, mentre nel 1602 la popolazione rimaneva invariata a Lacedonia rispetto al 1595, Rocchetta accusava un calo di ben 60 fuochi; il 1608 Lacedonia era ridotta a un borgo forte di un migliaio di abitanti, mentre per Rocchetta si deve ritenere una sorte analoga. Si tratta di una crisi agricola - scrive Silvio Zotta; che investe Lacedonia come caso unico in quanto i campi seminati si ritirano di circa il 22% per tutto il 1591-1610 a confronto degli anni ottanta”. Per cui da questi dati risulta infatti che le medie di Lacedonia passano dai 1163,42 tomoli del decennio 1581-90 agli 894,60 del 1591-1600.

Il conflitto tra il vescovo e i Pappacoda

Come se i guai non fossero finiti per i poveri lacedoniesi, nel 1572-82 si verificò il conflitto sulla mezza sementa tra il vescovo e i Pappacoda.Il 24 giugno 1572 il vescovo Giovanni Francesco Carduccio, mentre si trovava in santa Visita nella terra di Rocchetta, dando inizio ad un complesso contenzioso che sarebbe durato una decina d’anni e che avrebbe visto schierati da una parte gli ecclesiastici di Lacedonia e dall’altra prima il barone Scipione Pappacoda e poi il figlio Ferdinando. A dire il vero, i conflitti tra clero e baroni furono frequenti specialmente nel corso del secolo XVII, ed altrettanto vero che la situazione lacedoniese costituisca al riguardo (si era soltanto a 1572) l’inizio di una politica baronale largamente perseguita; tenendo conto presente che il prezzo del grano, a partire dagli anni sessanta del XVI secolo, era andato continuamente salendo, ed i salari a loro volta erano rimasti inalterati; o erano aumentati in misura notevolmente inferiore rispetto ai generi di primissima necessità. Si capisce bene come l’offensiva dei Pappacoda di esigere la mezza semenza fosse una tattica di realizzare il maggior quantitativo possibile di cereali da immettere sul mercato, o se meglio vogliamo definirle (strategia politica affaristica). Il vantaggio era esclusivamente dei proprietari, malgrado il passaggio proprietà da un principe a un conte, o da un barone a un marchese, con trattati di considerevoli valori. Non accadde mai di trovare un contadino che riscattasse i terreni che direttamente coltivava. Il 12 luglio l’erario dei Pappacoda compariva davanti al Vicario generale, procuratori e cappellani riuniti in assemblea il 13 luglio e difficilmente si sarebbe potuto avere una composizione tra le parte, per cui si era accesa la causa presso il Sacro Regio Consiglio, mentre il barone, nel quinquennio 1572-77, aveva continuato a esigere la mezza semenza, nonostante fossero stati presentati continui reclami da parte del potere regio che negavano tale diritto. La questione aveva preso piede, una sfida nei confronti del potere centrale da parte di quello baronale; infatti si obbligavano al pagamento della mezza semenza anche i coltivatori dei feudi a censo ecclesiastico di cui i nomi non risultavano nelle provisiones emanate dal Sacro Regio Consiglio. Il figlio di Scipione Paccacoda, Ferdinando, si rilevò un fedele continuatore della politica usurpatrice paterna, a tal punto da indurre il Sacro Regio Consiglio ad elevargli la multa a mille ducati da evolversi al fisco; ma con scarsi risultati, il 14 gennaio 1581 lo stesso Consiglio intimava al barone di presentarsi davanti a quel tribunale entro il termine di otto giorni. Ma pure quest’ultima intimazione cadeva nel vuoto; né miglior sorte ebbero quella del 3 luglio 1581 e del 29 ottobre 1582. Qualche anno dopo , come si é detto precedentemente, Lacedonia era peró acquistata dai Doria.

Le Relazioni ad limina

Ogni vescovo era tenuto a presentare una relazione sullo stato della diocesi alle autorità religiose di Roma; queste erano poste fuori del territorio della diocesi, perciò “ad limina”.

Parliamo dapprima del vescovo Marco Pedoca (1589-1682).

Marco Pedoca nacque a Mirandola da nobile famiglia. Prima di essere ordinato vescovo aveva ricoperto la carica di abate, in S.Vitale di Ravenna. Nel periodo lacedoniese si segnaló per una serie di inziative architettoniche. Fece sistemare all’ingresso della città, lungo la strada che viene da Rocchetta, una colonna di travertino sormontata da una croce nell’anno 1587. Ordinato vescovo da Gregorio XIII il 14 maggio 1584, Marco Pedoca prendeva possesso della diocesi nel giugno di due anni dopo, uno dei primi atti compiuti, fu la decisione di somministrare i sacramenti non nella Cattedrale (la quale era fuori mano dalla città a circa un quarto di miglio), ma nella chiesa di S. Antonio situata nel centro dell’abitato; ciò naturalmente per maggior comodità del popolo, specialmente d’inverno.

Altro provvedimento che veniva ad operare il nuovo vescovo era quella che abbiamo in precedenza delineato. E lo troviamo puntualmente nella Relazione del 1589, in cui il Pedoca affrontava il problema delle decime a Lacedonia. Lo stesso Capitolo Cattedrale composto da 12 canonici, annoverava a cinque Dignità: Aricidiaconato, Arciprete, Primiceriato, Tesorierato e Cantorato. Dalla massa delle decime bisognava detrarre il diritto di quarta, spettante al vescovo e calcolabile per questi anni sui 70-80 tomoli, ed il resto si spartiva tra i canonici cui toccavano 18-22 tomoli ciascuno ai quali si aggiungevano i proventi dei funerali. Il diritto di quarta spettava al vescovo anche su censi e funerali.

La mensa vescovile, possedeva un mulino dal cui affitto ricavava una sessantina di tomoli annui; e un forno che rendeva circa 50 ducati, e in località Lama di S. Croce avente una estensione di 60 versure pari a circa 74 ettari. E ancora una volta il Pedoca affrontava il problema delle decime a Lacedonia che ogn’anno calavano. Nel 1592 era stato il vescovo in persona ad adempiere all’obbligo delle visite triennali; mentre nel 1595 però risulta che la visita fu compiuta dall’arcidiacono di Lacedonia Leonardo Pinnella che era anche suo procuratore. La causa di questa sostituzione potrebbe essere quella della salute malferma (il Pedoca aveva 68 anni) oppure nell’insicurezza delle vie di comunicazione battute ormai da anni dai banditi. Si chiudeva cosí il quindicennio di Marco Pedoca. Egli lasciava suo malgrado una diocesi in condizioni precarie.

Alla morte del Pedoca fu eletto vescovo il frate francescano Giovanni Paolo Pallantiero, a cui seguí il nobile siracusano Giacomo Candido, Questi nacque a Siracusa il 1561 da Giuseppe e Maria Antonia Candido che in tutto ebbero ben dieci figli maschi. Pochissime sono le notizie che si hanno di lui; governó la diocesi dal dicembre 1602 al 1606, una sua Relazione ad limina, presentata personalmente a Roma il 20 giugno il 1606, in tutto poche righe, egli si lamenta delle magre entrate del vescovato. (Ricordiamo che quella di Lacedonia era una delle più piccole diocesi, perché comprendeva soltanto i due comuni e di Rocchetta S. Antonio).

Il Pallantiero individua con precisione una delle cause della povertà delle diocesi, ”se si lavorasse meglio il terreno del vescovato meglio passarebbe lo Vescovo”. In ambito pastorale, non tanto forte fu l’opera di cristianizzazione di questa società rurale che molto spesso ignorava le preghiere piú semplici e perfino i primi rudimenti della fede, come ci ha attestato il Pedoca. E il Candido, come un buon parroco di campagna, ogni giorno festivo insegnava personalmente la dottrina cristiana, esprimendosi con il popolo con semplicità per fargli apprendere i misteri della Fede. A Rocchetta distribuí ai poveri una partita di caciocavalli che i reggenti gli avevano regalato. A Lacedonia riscatto con danaro proprio le poche robe di cittadino che, pignorate, stavano per essere vendute nella pubblica piazza. Incaricato di tenere la santa Visita nella vicina diocesi di Monteverde, morí in quella cittadina nell’agosto del 1608 all’età di 47 anni e in odore di santità.

 la di munizione del gettito fiscale nelle casse dei Doria a causa di una moria del bestiame e dell’abbassamento del prezzo del grano. La crisi di Lacedonia trova una spiegazione anche nella politica del governatore di Melfi, Stefano Centurione, che privilegia la cerealicoltura a danno dell’allevamento, tanto che la città eleva le sue giuste proteste il 26 ottobre 1590.

Dinanzi a una politica di questo tipo, che colpisce l’economia lacedoniese e alle impennate-cadute continue del prezzo del grano, è perfino ovvio dedurre lo sfilacciamento del tessuto sociale. Sono gli anni in cui il vescovo Pedoca, come si vedrà in seguito, eleva ai sacri limini le sue amare considerazioni sullo stato delle diocesi. E cosi Lacedonia è costretta a dare prima per la nascita di Zenobia Doria nel 1594 200 ducati, e la carestia serpeggia ininterrotta da 5 anni; e poi di Felice Doria nel 1596 gli eletti offrono in omaggio una somma imprecisata, ma vi aggiungono la significatissima supplica di far lavorare quelle poche terre. In certe situazioni spesse confuse e contraddittorie cominciano a comparire il banditismo.

MIRACOLO A SERRALONGA

Si deve a mons. La Morea in contrada Serralonga di Rocchetta, la facoltà di poter innalzare in quel luogo una cappella alla Madonna del Pozzo. Questa cappella provocò una certa rinascita religiosa e in particolare la devozione alla Madonna. E con la devozione non mancarono i prodigi. Infatti l’ultimo sabato dell’agosto del 1709 grazie alle preghiere a S. Maria del Pozzo di un tal Giuseppe Mastrostefano contadino, arso dalla sete, avveniva la scoperta di un’acqua che risultava poi avere straordinarie facoltà taumaturgiche; insomma l’acqua faceva i miracoli.

Cosa che accadevano spesso in quegli anni (di miseria e ignoranza)....Un giorno Gerardo si reca a piedi con i studenti a Monte Sant’Angelo, davanti a San Michele stanchi ma felici. Per Gerardo è un incontro con un caro amico. Ricorda la sua prima comunione, e va in estasi. Sulla via del ritorno si fermano per dissetarsi a un pozzo di campagna. In Puglia l’acqua vale oro. Il contadino ha nascosto secchio e catene, e senza scrupoli, allontana i pellegrini assetati. ”Se tu neghi l’acqua al prossimo, il pozzo la negherà a te”, ammonisce Gerardo e si allontana. Il pozzo secca a vista d’occhio. “per carità, tornate; attingeró io stesso l’acqua per voi”, implora il contadino. L’acqua ritorna e il contadino disseta uomini e bestie. Poi Gerardo l’esorta: “Fratello, sii buono e generoso, se vuoi che Dio lo sia con te!”. Racconti su San Gerando.

 

 

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