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Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana.

(Svevo, Senilità, cap. XIV)

Nella letteratura novecentesca la metamorfosi spesso coincide con la scissione dell’io e con la scoperta dell’inconscio.
Tuttavia, in Italia così come nel resto del mondo, il tema della metamorfosi era già stato affrontato, seppur con significati ben diversi.

In Foscolo (1778-1827), per esempio, la natura ha la funzione di specchio dell’anima, quindi subisce una metamorfosi ogni qual volta che colui che la contempla cambia d’animo. Nelle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” ci sono diverse lettere che mostrano questo aspetto della natura:

20 Novembre -> Jacopo è innamorato di Teresa, perciò quello gli pare “il più bel giorno d’autunno”, e gli sembra che “l’universo sorridea”, e ode “una solenne armonia spandersi”, e “spirava l’aria profumata”, e tutta la natura gli appare meravigliosa, amica, benevola, sembra uscita da uno di quei quadri dolci e radiosi.

14 Maggio -> Poco prima del bacio con Teresa, la natura si trasfigura divenendo bella e sacra; il gelso, per esempio, è “il più bel gelso che mai”. Poi tutto l’universo si fa luminoso, soave e pieno di armonia.

15 Maggio -> Dopo il bacio, la natura sembra appartenere a Jacopo: egli stesso subisce una metamorfosi, divenendo quasi un essere divino sotto il cui sguardo tutto si abbellisce.

25 Maggio -> E’ morta Lauretta, e la natura è sconvolta quanto Jacopo: “i venti imperversavano” e “la selva fremeva come mar burrascoso”, inoltre la maestà della natura diviene “terribile”.

La metamorfosi in Foscolo si spiega con il fatto che egli aveva un concetto romantico di natura: l’individuo romantico riesce, con la sua sensibilità, a commuoversi allo spettacolo della natura, che sotto lo sguardo romantico si trasfigura a seconda del proprio stato d’animo.

Se in Foscolo ritrovavamo alcuni elementi romantici, con Manzoni (1785-1873) siamo in pieno romanticismo italiano.
La metamorfosi in Manzoni riguarda non la natura, ma uno dei grandi personaggi de “I Promessi Sposi”, l’innominato. Egli “non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”, era il più pericoloso tra i tiranni, persino i suoi pochi amici lo temevano; poi, lentamente, comincia a provare se non disgusto una certa inquietudine per le sue scelleratezze, ed è come se una forza misteriosa dentro di lui cominci a tormentarlo e persino a comandarlo; la metamorfosi inizia durante l’incontro con Lucia: “Oh ecco! Vedo che si move a compassione”. Con la conversione l’innominato diviene “quel nuovo lui”, e da grande nel male si fa grande nel bene.

Questa metamorfosi, di tipo religioso, ci fa capire alcune delle tematiche manzoniane: la predilezione per la grandezza, sia nel male che nel bene, tipicamente romantica (tant’è che Manzoni predilige l’innominato e disprezza Don Rodrigo, il piccolo tirannello), e la dottrina giansenista della predestinazione, secondo la quale la salvezza è un dono destinato a chi deve salvarsi, e perciò le buone o le cattive azioni non contano molto rispetto alla nobiltà e alla grandezza d’animo: chi è grande nel male sarà infatti grande nel bene.

Arrivati al novecento, scopriamo che il concetto di metamorfosi è sempre caratterizzato da una scomparsa, quella dell’Io, ma nei vari autori è diverso l’approdo a cui ciò porta. In “Senilità” di Svevo (1861-1928) la metamorfosi fittizia di Angiolina (perché avviene solo nella mente di Emilio) le fa mantenere l’aspetto seducente ma ne sconvolge il carattere, tutt’altro che simile a quello della defunta sorella. Inoltre, Angiolina torna una figura idealizzata come lo era nelle prime pagine del romanzo, ed è come se non fosse mai accaduto niente di spiacevole. Ma in questo modo lei non è più Angiolina, non è nemmeno Amalia, è un fantasma privo di identità.
Anche in “La coscienza di Zeno” abbiamo una metamorfosi: se i sani dovrebbero essere Guido, Augusta, Giovanni Malfenti e il padre, il confine tra di essi e Zeno Cosini in cura dal dottor S. è molto labile, tant’è che alla fine si scopre che siamo tutti malati; il sano è anzi inferiore rispetto al malato perché ignora il suo stato, mentre il malato ne è consapevole. Si ha perciò una frantumazione dei personaggi, che prima si scoprono vincenti, e poi perdenti, e viceversa: Zeno, l’inetto, vince sempre.

Con D’Annunzio (1863-1938) siamo in un altro mare.
I suoi personaggi sono ancora eroi, uomini che vivono alla ricerca di un piacere estetico (siamo infatti nella corrente dell’estetismo), capaci di perdere (come ne “Il piacere”) ma mai incapaci come i protagonisti nei romanzi di Svevo. Possiamo parlare di metamorfosi per D’annunzio nell’Alcyone, terzo dei sette libri delle Laudi, dominato interamente da questo tema. La metamorfosi nelle poesie dell’Alcyone consiste in uno scambio tra naturale e umano, ma non nel senso che aveva in Foscolo: la natura non è uno specchio, si antopomorfizza,e la figura del superuomo ha l’eccezionale capacità di fondersi in essa, fino a perdere la propria identità e ad acquistare una forma divina.
In “La sabbia del tempo” il cuore del poeta diviene una clessidra che misura il tempo attraverso la sabbia che scorre entro il cavo della mano; in “La sera fiesolana” la luna diventa una donna stilnovistica, e la primavera piange antropomorfizzandosi; in “La pioggia nel pineto” l’uomo si fonde con la natura fino a vegetalizzarsi, e ciò è particolarmente evidente nei versi 20-21 (“piove su i nostri vòlti / silvani”), nei versi 52-61 (“E immersi / noi siam nello spirto / silvestre, / d’arborea vita viventi; / e il tuo vòlto ebro / è molle di pioggia / come una foglia, / e le tue chiome / auliscono come / le chiare ginestre”) o ancora nei versi 97-101, dove c’è un’allusione al mito di Dafne (“Piove sulle tue ciglia nere / sì che par tu pianga / ma di piacere; non bianca / ma quasi fatta virente, / par da scorza tu esca”); in “Meriggio” attraverso la fusione uomo-natura il superuomo è diventato invece un dio: l’uomo perde la sua identità (v.99: “E non ho più nome”) per diventare Meriggio (vv.105-107: “Non ho più nome né sorte / tra gli uomini; ma il mio nome / è Meriggio”), concludendo col dire “E la mia vita è divina.”.

Un ultimo esempio che vorrei dare di metamorfosi è in Pirandello (1867-1936). I suoi personaggi sono sempre prigionieri di una maschera, e quando tentano di uscirne, provando ad osservarsi dall’esterno, non riescono più a rientrarci e sono costretti ad una metamorfosi: così Mattia Pascal, quando cerca di tornare se stesso, vedendone l’impossibilità, non è più lui ma un “fu”, e l’avvocato della Carriola, non riconoscendosi più nel suo Io, è costretto di quando in quando a chiudersi nel suo studio per far fare la carriola alla cagnolina, in modo da uscire dalla sua maschera senza impazzire del tutto e senza che gli altri sappiano della sua depersonalizzazione. Quando infatti una persona tenta di uscire dalla maschera che la gente gli ha imposto, viene giudicata pazza ed è emarginata dal mondo in cui viveva, senza possibilità per l’individuo di ricostruire quell’Io che ha smontato. La depersonalizzazione è inevitabile se si vuole conoscere il valore fittizio delle impalcature che sorreggono la nostra esistenza, se si vuole la consapevolezza dell’assurdo vivere.
Questa metamorfosi è determinata dall’inesistenza, per Pirandello, di una “Signora Realtà”, perché esistono tante realtà quante sono le persone al mondo. Proprio come noi non siamo la stessa persona per noi stessi e per gli altri, ma anche gli altri non ci vedono in modo univoco: siamo perciò “Uno, nessuno, centomila”.