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Impressioni di Viaggio negli USA - Novembre 1986

 

Questo diario di viaggio non inizia il giorno 8 Novembre 1986, giorno prestabilito per la partenza dell'aereo dall'Italia verso gli U.S.A., ma il giorno precedente.
Mentre tornavo a casa, all'uscita dall'ufficio, passando davanti al battistero di San Giovanni, ho sentito il bisogno di entrarvi. Si è trattato certo di un bisogno istintivo, che nascondeva il richiamo di un ritorno alla fonte, o al "fonte", dal quale ho tratto, tra l'altro, il nome; a quella fonte alla quale sentivo di dovermi dissetare, prima della partenza, dell'acqua della mia origine culturale.
Se ciò non rispondesse a verità suonerebbe in modo retoricamente puerile. In una certa misura, in modo non dissimile da quella maniacale esibizione, che noi europei riteniamo esser propria degli americani, di ricercare o attribuirsi le proprie radici. Almeno questo è il pregiudizio che la loro diffusiva cultura ci ha regalato. Radici: l'etimologia della parola mi fa pensare quanto sia forte in loro il richiamo al mito, al caos, alla madre terra. A quel mondo che nella storia del pensiero umano è antecedente alla nascita della filosofia greca e dunque al pensiero speculativo.
Ma non si trattava solo di questo. C'è stato in me soprattutto l'atteggiamento furtivo di chi vuole, con un ultimo fuggevole sguardo, carpire la forza di un totem, invincibile, quello di una cultura antica, capace di affrontare quella novissima del nuovo continente. Una sorta di talismano da toccare davanti allo strapotere della nuova cultura: quella americana.
Soltanto uscendo dal "Bel San Giovanni" ho compreso il significato di quel comportamento puerile e mi sono chiesto, tornando a vestire i panni più familiari del turista provinciale, cosa avrebbe significato per un italiano, imbonito al culto dell'antico, lo stupore dinanzi al simbolo del futuro, e soprattutto mi sono chiesto se ne fossi comunque capace.
Troppo spesso ogni fremito di gioia vitale resta represso, nell'intimo, o intimidito dal cinismo o dalla melanconica depressione che ci alimenta quotidianamente. Lo stupore cui alludo non è quello puerile, primitivo, puro, ma quello dell'età adulta che dovrebbe essere alimentato da quell'indefinibile mistura di saggezza, di cultura, di amore per la vita che ti sfugge: i necessari ingredienti della felicità senile. Così almeno credo.


 8 - Novembre - 1986.

Sono fermo all'aeroporto di Boston. Quello di N.Y. è chiuso per nebbia. Al sole dei 10.000 metri fa ora riscontro, nel volgere di pochi minuti, la pioggia, il freddo e il buio di una ordinaria giornata d'inverno. Chiusi al caldo insopportabile dell'aereo, senza potersi neppure muovere a causa del rifornimento di benzina in atto, penso a N.Y. e alle ore perse, a ciò che già avrei potuto vedere, confrontando finalmente la realtà con la stratificazione mitica della sua immagine, nella memoria e nel suo immaginario.
Woody Allen ha già detto tutto di N.Y.: da anni "scrive" variazioni sul tema. Mi ricorda i nostri autori di teatro, dai grandi a quelli di borgata. Mi ricorda persino quanto hanno fatto alcuni famosi scrittori di narrativa gialla per città come Londra o Parigi; città che pure non ne avevano bisogno. Ma tutti da Goldoni ad Eduardo, da Simenon o A. Cristie, non hanno descritto il mondo dello straordinario, ma quello del prosaico, del quotidiano, del popolo chiacchierone, di una città che quasi non appare se non casualmente. In ogni caso W. Allen ha già detto tutto. Cosa potrò dire io che non la conosco affatto?
Per "cantare" l'amore verso una città bisogna conoscere. Io, ora e dopo, potrò cantare solo i miei sogni o forse la mia disillusione per ciò che non avrò potuto vedere, osservare, indagare, conoscere. Quanto vedrò, lo terrò in archivio per pudore. E poi guai a me! Senza l'ironia non resta che il banale, l'ovvio, la reclame.
Ma per avere ironia bisogna aver vissuto una vita, amato per una vita, osservato per una vita: solo allora sarei capace di amare con distacco e di scoprire l'ironia, ma nel frattempo avrò sicuramente perso l'oggetto d'amore, visto che ho a disposizione una manciata di ore. I miei occhi si limiteranno a registrare, come una pellicola. Solo col tempo le immagini impresse, forse, troveranno un significato.


 Ore 22

Dopo un penoso attendere alla dogana dell'aeroporto J. Kennedy e un interminabile scorrere verso Manhattan ,ora sono qui, al Woldorf Astoria, ai piedi di giganti spenti, nel buio di una pioggia insistente. Non voglio vedere perché sono troppo stanco.
Credevo di provare meraviglia, come il siriano d'Aleppo nella città eterna, nella nuova caput mundi. Ma nel buio mi sfuggono i contorni delle cose. Il freddo, la stanchezza e il buio sono uguali in ogni angolo del mondo. Preferisco rinviare a domani.
Per ora mi godo il lusso dell'albergo, con evidente disagio da provinciale. Non ho dimestichezza di niente. Ovunque giapponesi molto agiati. Saranno loro i nuovi abitanti di Costantinopoli?


 N.Y. - Sono le sette del mattino.

Il cielo è sempre coperto, ma non piove nonostante un piacevole vento di scirocco. Uscendo dal W. Astoria, dopo pochi metri, sono subito dentro Saint Patrick. E' il primo atto dovuto, agli irlandesi e al suo presidente ucciso. Sembra piccolissima, schiacciata dai grattacieli, ed entrando anche modesta. La religione qui sembra non aver storia, anche se ovunque inciampi nella bibbia. Non lontano c'è Wall Street, ma anche lì il tempio di mammona è piccolo.
Uscendo, poco dopo, sono nella 5° Avenue che percorro fino al Central Park. Ciò che mi colpisce non è il lusso delle vetrine, lo splendore fine secolo del Plaza e di altri alberghi, ma tutta questa cascata di edifici: grattacieli di tutte le forme e stili, di ogni epoca, che non si ergono verso il cielo, ma scendono a cascata, spingendosi per farsi strada. Sono gli occhi a cercare il cielo. I più belli? I più antichi: il Rokfeller Center e, più dello State Building, quello neogotico di "Mammona", come lo ha ribattezzato Antonio, più tardi. Il Central Park, il Metropolitan, il Guggeneim: ho visto dove sono. Non dispongo del mio tempo, in cuor mio con loro ho fissato un appuntamento. Spero di andarci alla fine del viaggio, al ritorno da Boston.
Come è penoso vedere la donna amata attraverso il buco della serratura!
Insieme alla comitiva e alla guida osserviamo il palazzo delle Nazione Unite di Mies V.d.Rohe, questo si che era un grande! Dall'alto del ponte scopri quel fazzoletto di vecchia Inghilterra che è il Tudor Center. La cosa più affascinante, tuttavia, resta la visita del ponte di Brooklin. Il vento è forte, centinaia di persone corrono in una maniacale ricerca di eterna giovinezza. Glielo impone la Costituzione! L'unica che non invecchia! Certo, la Resistenza...! L'intreccio dei cavi d'acciaio è impressionante, la baia dell'Hudson si apre d'innanzi con la fungaia di grattacieli, tra i quali torreggiano i due gemelli del Trade Center, infiniti, sgomenti!
Tutto è irreale: la città medievale dalle cento torri si è ricreata dopo 700 anni. Chi le "capitozzerà"?
Due scoiattoli, incuranti del traffico, scappano con le loro noci sugli alberi. Dove le avranno prese? Lì proprio davanti al ponte di Brooklin.
Lasciamo N.Y. Così, con questa ubriacatura di gigantismo, di grandiosità. Ogni mito ha il suo fascino. Per ora non mi chiedo perché, né sento il bisogno di giudicare, tanto mi rende felice. Sono solo un osservatore epidermico.


 10 Novembre.

Washington è come appare dall'aereo: immersa nel verde e nell'acqua, sembra piccola ma con lunghe radici, l'anti-N.Y. con i suoi cottages. Per legge nessuna costruzione può superare i quaranta metri al fine di rendere visibile il Campidoglio ( Capitol), ovunque uno si trovi. Mi astengo dalla facile battuta sul nome. Quella norma di legge, invece, mi piace; mi ricorda la cattedrale di Amiens quando cominciai a vederla lontano diecine di chilometri. Per quanto tempo ancora potrò emozionarmi nello scoprire il Cupolone nella piana di Sesto?
La giornata di sole e ventosa è chiara , tersa; il bianco delle principali costruzioni, dei monumenti celebri (l'obelisco, la Casa Bianca, il Parlamento, il Lincoln Memorial) si stacca nitido sul verde dei prati, tra alberi giganteschi dalle foglie arrossate d'autunno.
Mi accoglie come un ospite tranquillo, casalingo, rassicurante. Tutto sembra pensato per essere una capitale con l'antica funzione ma moderna nelle sue forme, un immenso Pantheon progettato per accogliere i segni della grandezza futura, l'orgoglio della Nazione. Un luogo di pellegrinaggio delle grandi idee di libertà del 1776, dove confluiscono in silenzio, nella quiete del verde immenso, senza ressa, i devoti e stupefatti romei. Del resto anche i suoi cimiteri sono così.
L'architettura della city, degli uffici, dei ministeri non è bella. Forse l'americano ha bisogno di estremi: l'estremamente grande e l'estremamente piccolo, l'immensità di spazi aperti e naturali e l'esiguità e la compressione di Manhattan. La cultura e la sua sensibilità artistica pare si esprima al meglio in questa condizione antirinascimentale.
La loro grandezza è oggi: ecco il museo dello spazio. In Italia pullulano gli antiquaria, i musei di archeologia greca, romana, medioevale. Qui la capsula dell'Apollo 11, con le due poltrone di pilotaggio, già appare superata, persino vecchia. La prossima volta che vi tornerò, se mai sarò così fortunato, vi troverò la stazione orbitante quella del film 2001 di Kubrik. Qui i bambini, numerosissimi, non possono sognare che il futuro; la nostalgia struggente del passato non credo che sappiano cosa sia.


 11 Novembre.

Dopo il sole di ieri, la pioggia insistente, grigia e fredda di oggi. Comincio ad avere la testa confusa. Negli occhi scorrono immagini senza la giusta sequenza temporale degli avvenimenti. Devo sforzarmi per essere presente a me stesso.
La libreria del Congresso, la più grande e meglio organizzata del mondo (naturalmente), con le sue raccolte preziose; esposti in bacheche i più importanti testi sacri di tutte le religioni. Il Palazzo del Congresso, scenografico da lontano, è brutto. Il confronto con i capolavori della architettura antica europea è persino scorretto. Si sono rifatti ben presto!
Lascio il posto alla gioia più sottile che provo davanti ad una distesa di aceri rossi, e ai più grandi alberi di quella cultura botanica inglese che è uno dei patrimoni culturali più alti della civiltà.
Non ho provato emozione ai fugaci ricordi della storia degli States. La colpa, oltre che della mia ignoranza, è dei lunghi e pesanti corridoi del Campidoglio, dei suoi fregi dorati e dei tappeti rossi. Lo stesso rosso che trovo ovunque, negli alberghi, nei pubs, e che ricordo nei saloon dei film western. Non so disgiungere il giudizio storico da quello estetico, la ragione dalla percezione.
E' al museo d'arte moderna che ritrovo il fascino di un gusto nobile, aristocratico e moderno al tempo stesso, e che segnò l'epoca dei padri fondatori dell'indipendenza. Soggetti prosaici, quotidiani, non aulici, di gente non asservita né ad un regime, né alla nobiltà; di un gusto sobrio, certo più ingenuo ma più libero di quello dei loro antenati europei.


 13 Novembre.

Oggi Washington è stata come Giano: la mattina fredda e plumbea, il pomeriggio solare e tiepido. Un vento gelido ci ha accolto al nostro arrivo ad Arlington. Ci siamo arrivati dopo aver costeggiato una boscosa valletta lungo il Potomac e dopo aver superato un ponte sul fiume che per la sua larghezza preannuncia il suo lento e maestoso sfociare nell'oceano.
La collina di Arlington Cemetery è coperta da uno sterminato stormo di gabbiani che ad ali spiegate, vorticando sopra il Potomac, si è posato sul verdissimo prato del cimitero. Gigantesche querce, platani, ontani ed altre piante di ogni specie che maestose sembrano custodire, con le loro radici, i giovani eroi di un sacrificio che continuerà a turbare la coscienza degli uomini liberi e pacifici.
21, 22 anni, 23, 21...così per centinaia, per migliaia di croci. Qui la morte e la disperazione dei vivi ha assunto forme di alberi; il verde della collina, il vestito vellutato che riveste la nostra falsa coscienza, il nostro senso di colpa, la nostra confusione e il turbamento dell'animo. Ma c'è anche l'omaggio alla retorica patria, ai grandi: semplice e severa la tomba di Kennedey. Enfatico e cinematografico il monumento ai caduti di Okinawa e Iwojma. Non potevo non farmi fare una foto col mio basco.
Riprendo il cammino lungo il viali bianco-crociati diretto all'ultimo dei monumenti che ti trovi dinanzi, all'improvviso, prima di rientrare nella città: quello ai caduti in Vietnam.
Tutti uguali i figli del popolo, nella più assoluta semplicità di un simbolo di sacrificio e di amore per tutti. Una pietà che diventa religione della natura. Certo, so anch'io delle colpe, ma mi piace pensare - oggi che gli animi sono pacati, oggi che tutto sembra mutato, che il pendolo ha oscillato nell'eterna ricerca di un equilibrio che ci sarà solo alla fine dei tempi - che tutti siano morti per difendere la libertà di tutti. Anche quando i governanti hanno gravemente errato. Sento di dovergli della gratitudine, sepolti sotto il verde prato, sotto le radice della quercia, vicino alla sabbia del fiume. Hanno quasi l'età di Jacopo: sto proprio invecchiando!
E poi ancora al di là del Potomac, al di là del mausoleo di A. Lincoln, il presidente dell'unione, ritrovo la retorica di ciò che vuol durare nei secoli... mi lascio allora trasportare dal colore dell'acqua, del cielo azzurro, del bianco delle colonne o dell'obelisco. Ma è solo la forma che mi turba nell'immensità di uno spazio che col sole ritrova un vibrare leggero di stati d'animo, di un piacere fisico del corpo che si dilata lontano..., ma non sto pensando più a nulla.
Dinanzi alla Casa Bianca, tra i corvi reali e gli scoiattoli, il pensiero corre a curiosi raffronti: a Downing Street n.10, al Quirinale e a Versailles. Al contrasto tra le forme rappresentative del potere, tra i due più grandi dell'epoca moderna che sembrano quasi schernirsi all'ombra di interi continenti, e i due di epoche passate quando il potere era ancora terrifico, divinizzato come a Tebe, Ninive o a Roma.
Georgetown la sera mi delizia alla luce dei lampioni, mentre il mio sguardo indaga negli eleganti salotti. So di sbagliare secondo il giudizio critico degli architetti e degli urbanisti che hanno legittimato il palazzo. Ma è solo lì, in quei leziosi cottage "inglesi", che l'uomo di domani forse tornerà a credere, quale condizione ideale della stessa nuova umanità sociale; come fu già nella casa dei Vetti o in quella del poeta Terenzio.
Semplicità, sobria eleganza, intimità, luminosità sommerso nel verde silenzioso della natura addomesticata: continuo a credere che siano queste le condizioni di vita, individuale e familiare, perché l'uomo possa aprirsi al dialogo e alla vira sociale. Ogni altra soluzione, certo meno borghese o aristocratica, è compromesso, rinuncia; e, comunque, richiede spalle, cuore e intelletto molto più forti.
Domani partiamo per la California. Ma è l'attraversamento dell'intero paese, del Mississippi, del deserto salato delle montagne rocciose, ossia di un altro mito per il fanciullo che resiste in me, che mi affascina. Ma sarà solo, nuvole permettendo, un guardare, ancora una volta, immaginifico e fantasioso dall'oblò dell'aereo, per quanto sfiorato.


 14 Giovedì.

Volare da costa a costa mi sembrava un'avventura. Avrei attraversato la Virginia di Dos Passos, l'Illinois di Masters, il Mississippi-Missuri di Faulkner, il Colorado di Keruac e Ginsberg, per finire nella San Francisco ieri dei cercatori d'oro, oggi della Silicon-Valley. Un pellegrinaggio letterario e cinematografico.
Ma la lontananza appiattisce i rilievi, rende omogenei i colori, sfuma ogni cosa in un anonimo indistinto. Solo il deserto, bianco, desolante e spietato m'è parso, dall'alto degli 11.000 metri, affascinante, come solare il suo lago salato. Ogni altra suggestione m'è sfuggita, poiché ogni cosa, specie se viva, esige che sia vissuta da vicino, utilizzando tutti i sensi.


 15 Venerdì.

La visita alla Stanford University oggi è stata piacevole, come lo è quella di ogni campus universitario. Ogni confronto con l'Italia è scontato, banale, antistorico. L'unico sentimento che ho provato è stato quando alle 12, alla fine delle lezioni e prima della colazione, i viali di questo immenso campus sono stati animati dallo scorrere, dall'incrociarsi, dallo schivarsi di centinaia di giovani, a piedi o in bici, di tutte le razze. Quanto diversi dai loro cugini inglesi di Oxford o di Cambridge, composti nelle loro grigie uniforme, nei loro chiostri conventuali!
Nel pomeriggio, una veloce visita al centro di San Francisco, ma dopo l'intrico dei grattacieli luminescenti nel buio della sera, Chinatown con le sue cineserie di cattivo gusto. Il rosso proprio non mi piace!
Sabato 16.
Oggi ci spostiamo da Palo Alto (Stanford Univ.) a San Francisco, dove rimarremo due giorni. Dopo il cielo nuvoloso di ieri e il vento freddo, il cielo terso e il sole tiepido preannunciano di prima mattina una bella giornata.
Ogni città al mondo, oggi, piccola o grande che sia non può che deludere in parte: varia solo la percentuale della disillusione. Quando poi la città ha una grande periferia, un gran porto, docks, zone industriali, grandi arterie di trasporto tra loro collegate, e quando è proprio tutto questo che ci accoglie al nostro arrivo, sembra che la parte migliore e ricca di pregio sia scomparsa o si sia nascosta, che ci sia stata negata. In definitiva temiamo di venir profondamente delusi.
Ma lentamente, man mano che mi sono allontanato dalla buccia rugosa che avvolge tutto, e il sole ha sgombrato nella baia immensa la residua foschia, il cuore della città si è aperto; lentamente come una rosa bianca, profumata di sole e di mare.
Così, via via che, girovagando in modo casuale, il ventaglio delle basse case s'apriva e ne penetravo, in un continuo saliscendi, le pieghe sottili, e il profumo di fiori e le vele bianche, sempre più numerose, intrecciavano tenui ghirlande, tutto diventava leggiadro. Subito mi è parso cogliere nella leggiadria il fascino di questa città, straordinariamente mediterranea, nonostante che lo stile architettonico delle sue costruzioni tradisca visivamente l'origine inglese; ma esso è mutato nel colore, il bianco, e nella loro irrefrenabile fantasia.
Lo sguardo così non si ferma, perso, in una corsa continua, dietro le continue variazioni sul tema. E' come se tutte le varianti siano qui presenti. Presto ne resti esausto. Credo sia questo il motivo per cui una città d'origine inglese, subendo tutte le trasformazioni possibili del prototipo, risulti mediterranea. Non so perché, ma l'emozione, il mio istinto, il sentimento che provo è identico a quello che provo lungo le coste del mediterraneo.. Come se negri, cinesi, messicani, italiani, ebrei e tutti gli altri popoli, abbiano voluto apportare una propria variazione, minima, ma visibile, rispetto all'originario modello.
Modello che collocato tra i dolci pendii delle colline, nel loro lento scivolare nell'azzurro della baia, cinta quasi tra i due ponti sognanti, tra gli immensi alberi di pino, di eucaliptus, di sequoia, di banani e palme e di tutte le altre piante del mondo, ti blandisce, ti corteggia come una giovane e splendida fanciulla.
Il Golden Gate, rosso, sullo sfondo di rocce rosse, rosseggiando al tramonto pare insanguinare nell'oceano infinito, mentre le foche e i gabbiani volteggianti urlano il loro canto d'amore.
Lontano dal ponte, altissimo sopra lo schiumare delle correnti gelate, il bianco groviglio di grattacieli diventa prima purpureo, poi cinerino. Così mentre le luci del Bay Bridge si illuminano, le vele continuano a danzare e l'immensa luna piena attende i fuochi d'artificio che scoppiano in una cascata di colori e di botti sul girotondo dei giganti. Guardo su in alto, ruoto la testa lentamente, lungo lo spigolo tagliente del grattacielo o la curva morbida come un seno o la punta sopra l'orologio decò illuminato come la luna. La testa mi gira sotto la cascata di colori.
Domani tornerò furtivo: ho lasciato dei segni, delle piccole tracce, note soltanto a me. Già rincomincio a sognare. Ho dimenticato il Bel San Giovanni; così è l'uomo, tradisce subito, appena torna a sognare!


 Domenica 17.

Stamattina smaniavo di correr via da solo, ma sono stato trattenuto dalle convenzioni. Del resto devo pur meritarmi il viaggio! Meritarmi forse non è la parola giusta, in ogni caso devo far di necessità virtù.
Ho ricominciato a ritrovar la mia serena felicità nel piccolo cimitero della missione francescana di Dolores. Vi si accede da un piccolo patio, dopo aver visitato la chiesa. La chiesa e tutta l'abside in statue policrome mi ha ricordato che siamo nella nuova Spagna; in scala minore il manierismo di Burruguete. La facciata barocca, simile a quelle latino-americane, è una modesta imitazione di quelle messicane. Nelle bacheche alcuni indumenti di pellirossa mi evocano il mito del buon selvaggio, ma subito dopo il genocidio e la catastrofe ambientale. L'ho capito poco dopo, quando mi sono trovato nel bosco delle sequoie. Ogni confronto è errato. Per capire cosa doveva essere il nuovo mondo, basta venire qui nella foresta di Red-Wood. Ovunque, ancora oggi, è silenzio; non so se vi sia ancora il salmone, ma so per certo che non ci sono più l'orso bruno, quello nero, il puma, l'alce, il ghiottone. Vi regna solo il silenzio e il profumo di resina, quasi di canfora. Resto sbigottito ai piedi di questi veterani della guerra alla natura. Assediati, bruciati, solo qui testimoniano, razza in estinzione, la stupidità dell'uomo. Lo fanno con fierezza, come eroi che cadono di fronte alla "preponderante forza nemica". La commozione e il senso di colpa per l'uccisione di questi monumenti di elegante fierezza è pari a quella che si prova dinanzi alla morte di ogni gigante. Come solenni elefanti, raccolti in questa piccola valle, attendono che il fuoco della savana che li circonda li uccida. Consci del loro destino, come Ettore davanti all'ira di Achille. Respiro nel fresco canto del ruscello l'alito profumato di un eroe ferito, che fissa lontano nel cielo e attende la rinascita del mondo, di un mondo nel quale l'uomo torni ad adorare il dio sequoia.
Uscito dal fresco della" grotta" mi ritrovo sullo sfondo la baia: lontano la punta di San .Francisco, con le sequoie di cemento che sembrano battersi il petto come un branco di gorilla. Poi Tiburan o lo squalo: il porto dei cacciatori di pellicce e dei cercatoti d'oro. Case del 1862! Qui un secolo ha lo spessore di un millennio! Il sole caldo mi acqueta, mentre centinaia di gabbiani volteggiano sulla testa chiedendo un collo di gallina già pronto. Il loro capo becchetta i suoi sudditi controllando il piatto del suo pasto; immiserito accattone che ha dimenticato ogni fierezza e l'orgoglio della caccia nei vortici gelidi dell'oceano. E' un regionale anche lui post-inps!
Al ritorno, sosto nel giardino giapponese. Sono riuscito ad impietosire la comitiva. Hanno voluto alzare il coperchio per vedere cosa mi bolliva dentro! Quante volte lo avevo sognato! Nel mio giardino dei sogni c'è la porta del tempio, il ponte della luna, il giardino zen, il sentiero dei sassi del dragone, la lanterna della pace, i bonsai, i ciottoli levigati, le azalee in fiore.
Avrei desiderato una pioggia fine, la nebbia o la neve. Il sole caldo di una giornata d'inverno ha richiamato, invece, troppi turisti. Ho preferito fuggire. Se ne rivedrò un altro, sarà a Kyoto. Nell'uscire ho percorso la via tortuosa per fuggire dagli spiriti cattivi dell'uomo; sicuro di essere stato derubato di alcuni momenti di gioia e di pace.
Sul molo dei pescatori, mentre il sole tramonta, quattro Hippies suonano melanconicamente la mia musica d'Irlanda. Mentre il violino nostalgico si ispira lontano, ricordo la slitta che smania e scalpita, pronta per fuggire sulle nevi solitarie, inseguita da un branco di lupi.
Ho deciso di tornarci. Dall'alto del grattacielo osservo la città che si illumina lentamente, mentre furtivamente la luna s'innalza. Resto attonito e osservo le luci brillare nel vuoto che mi circonda, vicino e lontano. Non odo rumore e penso a te che mi manchi, che non mi sei vicino, certo di provare i tuoi stessi sentimenti.


 18 Lunedì.

Con la modernissima e metallica metropolitana arriviamo presto a Berkeley. Il campus ai piedi della collina vi si arrampica mollemente, ma non è affatto sopito. Certamente non c'è più lo spirito della contestazione del '67, non c'è Marcuse e Malcom X, ma tra gli studenti di tutto il mondo e di ogni razza c'è gioia, serietà e tanta voglia di vivere.
Nella piazza del campus, davanti alla famosa scalinata, sembra di essere a Venezia nel '500, a Roma sotto Augusto o a Parigi nell'800 o a Londra o a Vienna. La babele delle razze e delle fogge del vestire lascia posto più che all'unità della lingua a quella della gioventù, della sua voglia di vivere e della sua fantasia.
Al nuovo mercato si può incontrare di tutto: il predicatore, l'arringatore contro gli armamenti o la guerra o la repressione in qualche parte del mondo, il violinista o il cantante folk, il complesso jazz, il culturista, i giocatori acrobati della pallina, il mimo e, più stupefacente di tutti, la finta statua, immobile o con movimenti da robot. Tutti alla ricerca di qualcosa, di pochi cent o di un'idea, di essere eletti o solo di donare qualcosa di sé. Tutti si incrociano da ogni dove, con ogni mezzo bici, pattini, skate-board o monociclo.
Mi sono sdraiato sull'erba in mezzo a loro e mi sono appisolato al sole cocente, come un bambino, felice. Aveva ragione Radovan Richta: più l'uomo è liberato dal lavoro e più ha la possibilità di diventare artista e, aggiungo io, più crea spettacolo, gratuito come il gioco, per la pura soddisfazione di divertire o di stupire.


 19 Martedì.

Oggi partiremo per Boston. Attraverseremo di nuovo tutto il continente, verso oriente.
Quanti pensieri mi turbinano senza senso, così contraddittori. Desiderio di tornare a casa e voglia di continuare, nostalgia e coscienza del mio provincialismo. Desiderio di ubriacarmi dei mille stimoli di questo giovane paese e bisogno di acquietarmi nel mio paese di vecchi, di vecchie insicurezze forse più rassicuranti di quelle del nuovo mondo. Non so se tutto ciò sia assimilabile alle due forze, in - an, degli scintoisti e buddisti. Non conosco lo zen, balbetto solo un po' di Hegel, quello scolastico.


 20 Mercoledì.

Quel poco di Boston che ho intravisto, come attraverso una porta semichiusa, mi è apparso ieri sera, quando dopo l'arrivo e dopo cena, ho vagato verso Bacon Hill.
Nel buio, la luce calda ma tenue e discreta dei lampioni posti su colonnine di ghisa, svela l'aristocratica eleganza delle case dei pronipoti dei pillgrim. La guerra per l'indipendenza dalla madrepatria era una crudele necessità, un rito edipico per emanciparsi, per conquistarsi la propria libertà di arricchirsi.
Tutto il resto rimase legato alla madre patria, genitrice e custode fino in fondo delle tradizioni familiari, dei piatti natalizi, della cura della casa. La casa, infatti, rimase ed è rimasta qui a Bacon Hill, inglese. Così è nelle prestigiose case lungo il Commonwealth Avenue e il Boston Commons, il parco che circonda la zona. Dove mi trovo ? In quale parte dell'Inghilterra?
Sceso dall'aereo, spaesato nella solitudine di una nottata spazzata dal vento gelido dell'artico, (poche ore fa il sole mi bruciava sull'erba) la neve ghiacciata per terra e l'eleganza raffinata delle vetrine, penso proprio di essere nella madre patria.
La neve alta caduta durante la notte ha imbiancato la città. Poco altro posso aggiungere; gli alberi ghiacciati, i giardinetti davanti alle case e i lampioni aggiungono colore e silenzio.
Qualche grattacielo della città moderna pare stonare col suo splendore di luci. La città mi è estranea, come una donna di cui cogli solo l'eleganza delle scarpe o dei guanti o il profumo dei capelli: niente altro.
Ad un piano dell'albergo, la comunità degli irlandesi, in smoking e in abito da sera con preziosissime pellicce, balla alle note di vecchi motivi swing. La cornetta, gli assolo di piano e di vibrafono, le basse note del sax evocano glorie che credevo passate; che desidererei ascoltare in un bar fumoso, ma di negri.
Mi tornano alla mente i parties che i loro lontani parenti tenevano sul verde prato del Governatore a Calcutta o a Nairobi. Ma qui non si respira la presenza di sua maestà, aleggia solo il grande clan dei padroni del Massachusetts.
Il mio cuore va alla vicina Nantucket, alla povera vecchia città dei pescatori di balena, al luogo dove venne ad arenarsi la prima balena americana morta, là da dove i balenieri pellerossa uscivano in canoa per cacciare il Leviatano. Che l'Ismaele di Melville abbia a che fare con le case di pietra e i faggi del mio appennino innevato?
Stasera i miei desideri sono stati appagati. All'Oyster House (la casa delle ostriche) sui banconi di legno , lucidi dopo due secoli di avventori, tra le vasche di aragoste, le ceste di ostriche aperte dalle rapide mani di pescatori con affilati coltelli, ho creduto di trovarmi dentro una baleniera. Intorno al bancone del Pubby era seduta gente del popolo, nel fumo l'odore della birra. Mi hanno guardato come uno di loro: è chiaro che si sono sbagliati. Poi fuori, attraverso il parco innevato, appena illuminato dai lampioni, col laghetto ormai coperto da una lastra di ghiaccio, mi sono diretto verso l'albergo, guidato nella rotta dall'insegna luminosa del più alto grattacielo della città. Sulla sua destra, nel cielo buio e sereno, brilla una stella. Mi piace considerarla la stella polare, come un vero marinaio solitario, con lo stesso groppo nel cuore, la stessa nostalgia.


 21 - 22. Ultimo giorno.

Da Boston siamo volati per l'ultima tappa a N.Y. dove arriviamo a sera tardi.
La mattina, la pioggia gelida è cessata e nel cielo d'acciaio, all'uscita dall'albergo, mi accoglie per l'ultimo giorno l'America. E' l'America vista dal Central Park, al di là della strada. Nel silenzio e nella pace, solitari corridori, qualche carrozza, sullo sfondo i grattacieli di vetro lucenti rifrangono i raggi bassi del sole. Le bandiere sventolano sui monumenti. Non sono i monumenti ufficiali della storia patria, come quelli di Washington. Ma la strada dei trionfi per gli americani è qui, è la 5° Strada. Essa non ha nulla di trionfale, ma ciononostante credo che per questo popolo, che ha radici in tutti i continenti e in tutte le razze della terra, non sia meno sacra.
La passeggiata lungo la 5° St., mentre la città ormai sveglia si è animata, è elettrizzante. Ogni grande città ha la sua strada-vetrina. Inutile dire che questa è assolutamente diversa da ogni altra. Ad ogni metro, infatti, scopro prospettive diverse, come intorno ad una statua gigantesca che ti sovrasta; ne cogli il variare della luce, delle ombre, delle fughe nel cielo. La fantasia delle forme, dei materiali, la diversa altezza mi stupisce, mi esalta. E' l'esaltazione per l'arte moderna, la stessa che proverò poco dopo al MOMA, davanti ai capolavori della pittura del '900.
Il confine tra architettura e scultura sfuma. Grattacieli su un pilot unico con aggetti miracolosi; angoli di grattacieli che fuggono velocissimi nel cielo affilati come coltelli (angoli o spigoli che hanno una sottigliezza stupefacente per una struttura così alta; che dividono lo spazio producendo una spinta dinamica nei tre sensi o direzioni; la divisione spaziale prodotta è, altresì, sottolineata dalla diversità cromatica dei materiali, vedi il vetro nero, il cui stacco netto è di una grande audacia psicologica; il trovarsi ai piedi o al punto d'inizio dello spigolo sgomenta per l'effetto dinamico gigantesco, di esplosione e dilazione fisica e psicologica), piramidi, cilindri, parallelepipedi, tutto si intreccia e splende, riluce al sole, sulle acque dell'Hudson, mentre i gabbiani volano sullo sfondo di Elly Island. Lì dove arrivarono gli emigranti a pagare il prezzo della speranza. Si stupivano certo davanti ai grattacieli di allora, più bassi, massicci, meno poetici, ma si stupivano sicuramente, allo stesso modo del fiorentino del '400 davanti alla cupola del Brunelleschi e al campanile di Giotto. Stupisco io oggi di fronte alle nuove forme del bello, quelle forme che tanto vorrei a Firenze vicino alle antiche. Guai quando l'intelligenza non sa rinnovarsi!
Com'è diversa N.Y. sotto terra, con la sua metropolitana disossata, scarnificata, imbrattata. E' il mondo delle anime dannate. Come sono diverse Little Italy e Soho così penosamente false, ma animate! Ma a che serve descrivere la città. Ogni guida lo dice molto meglio di me. Sono disorientato.
Al MOMA mi sono ripreso, mi è persino passata la stanchezza. Ho gioito, felice di ubriacarmi dell'arte più alta del '900, che poi è quella di quei 10 anni, dal 10 al 20, che esplose, cambiando il mondo: mi sembra ancora una volta che da allora non ci sia stato altro. So che non è vero, che la storia profonda, quella che si muove lentamente, lavora nel silenzio. Solo che non sappiamo dove sbucherà il suo magma; sappiamo che all'improvviso riesploderà dando nuova fertilità ai campi stremati dallo sfruttamento e dalla presunzione.

 

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