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La
partenza da Firenze per Milano-Malpensa è fissata presso
la sede dell'associazione de "Il giardino amatoriale"
che ha organizzato il viaggio. Pur accomunati dall'interesse
per la botanica e per i giardini, sono pochi i componenti del
gruppo a conoscersi; e, tuttavia, in pullman, all'istintivo ed
iniziale atteggiamento verso l'altro, di studio, se non di diffidenza,
presto ne subentra uno di cameratesca simpatia; anzi di quello
spirito di contagio emotivo generato dalla comune e dolorosa
esperienza di essere stato "profugo". Ben sei dei presenti
provengono da quel piccolo lembo di terra che è ai confini
tra Italia, Austria, Slovenia, Croazia. Territorio da sempre
conteso, oggetto di guerre e ogni forma di lacerante divisione;
là dove le linee di confine, persino entro una stessa
città, nei secoli hanno radicato ed alimentato, al contempo,
sogni di evasione e di avventura, ma anche senso di sradicamento
e di nostalgia. Due dalmati, due istriani, due sloveni; per non contare me stesso. Anch'io, infatti, durante la guerra ho trascorso a Pola tre anni dell'infanzia. Beneficiato dall'innocenza ho portato con me solo lievi ricordi; alcuni fissati per sempre su foto 4x4 in bianco e nero: all'arco di Augusto, all'anfiteatro romano, alla marina di Seiano! Il reciproco riconoscersi dei sei è corso oltre il naturale bisogno di ritrovare le proprie radici familiari; le lingue mai dimenticate: la lingua madre, quella comune dell'impero asburgico, quella del vicino villaggio, quella appresa lontano, in Ungheria o in Serbia (durante la leva militare o i duri inverni di migrazione, di piccolo commercio ambulante); le tante diverse tradizioni alimentari o religiose. Tutto quanto, dopo tanti anni, finalmente sgorga limpido dalla roccia della lontananza e disseta l'arsura della diaspora e del lutto. Ma la gioia di tanta riscoperta, partita così dal lontano passato, è nell'oggi. E' nell'oggi che si completa e si legittima. Dopo l'immane tragedia della recente guerra fratricida in Jugoslavia e l'implosione del suo Stato federale (quasi ogni nazione dovesse uccidere il padre per emanciparsi) le loro parole, infatti, evocano sì l'eterno bisogno di un ritorno; ma, più ancora, una nuova coscienza nella storia dell'uomo, espressione di un più elevato grado di civiltà, di un maturo sentirsi parte di una più grande famiglia di popoli. Una famiglia simile a quella di una volta, ma nuova e rinata nella libertà e nella autodeterminazione. Una consapevolezza di poter esprimere, proprio grazie alla diversità, alla libertà e alla pace, il meglio di sé. Tutto ciò mi è sembrato dare al viaggio in Russia, sia pure casualmente, il senso di un viatico; svelare, anzi, quel "senso" ultimo della direzione del percorso umano, quale che ne sia la lettura da ciascuno prediletta. La tragedia di ieri d'improvviso pare svanire. La storia, comunque la si voglia leggere, ridimensiona o relativizza tutto, specie quelle certezze ideologiche, di valore (di patria, di nazione, di rivoluzione sociale o politica) che fino a pochi anni addietro nessuno pensava di poter mettere in discussione. Noi, del resto, andiamo in Russia avendo dimenticato quanto bloccava il cuore degli uomini, con lo stesso senso di riappacificazione con cui si riabbraccia il fratello. |
Il Tupolev 177 su cui saliamo è il primo sintomo della condizione di salute di questo grande paese: lo sportello è così graffiato dal tempo che sembra uscito da un filmato storico; internamente l'antiquato sistema di pressurizzazione, con uscita di vapore, suscita imbarazzati commenti; la tipica ironia dei colonizzatori! Ma la rassegnazione e il timore scompaiono col viaggio e infine con un perfetto atterraggio: il personale umano, nonostante tutto, è ottimo. |
Mi
prende persino l'idea, tra lo scherzo e il sogno, tra l'utopia
e il gioco, di baciare il sacro suolo della santa Russia; lo
farei sul serio, ma subito m'accorgo che non è il caso
di tornare ragazzo, di essere ridicolo ed ingrato. Come è
difficile dominare le emozioni della storia, specie quando d'improvviso
ti schiacciano! E' stata persa una valigia e così perdiamo tempo prezioso, sono smanioso. Percorriamo in pullman turistico, con la guida russa che parla ovviamente un perfetto italiano, l'interminabile via Mosca che collega l'aeroporto di Pulkovo a S.P. Un test impegnativo. Passiamo davanti al gigantesco monumento ai caduti: circa un milione e mezzo di morti, in combattimento, per fame e per freddo, nella difesa dell'allora Leningrado durante l'assedio nazista durato 900 giorni. Mi ricorda il monumento dedicato, nel cimitero di guerra di Arlington-Washington, ai soldati americani rappresentati mentre erigono l'asta della bandiera a stelle e strisce dopo la conquista di Okinawa. Osservo turbato i tetri palazzi del c.d. "barocco stalinista" che per alcuni chilometri ci accompagnano verso il centro della città. La prima accoglienza, diretta e tangibile, a chi come me ha occhi da turista è questa: non posso sottrarmi dal fare i conti con la storia, un turbamento cui sul momento non sono preparato anche per come essa sa ben mascherarsi; le sue ferite sono ancora vive, ma è come non fossero percepibili, anche se a me pesano come piombo! Dato il ritardo non andiamo in albergo; ci aspetta il battello per un giro lungo i canali e la Neva. Parcheggiamo nella immensa Piazza del Palazzo proprio sotto la colonna di Alessandro. Un'orchestrina alla nostra vista suona senza esitazione l'inno di Mameli: comincia il rito della pietas. Mi volgo in giro, sulla destra vedo l'Ermitage, il palazzo d'inverno, quello per antonomasia: affiorano istantaneamente i ricordi e le immagini della storia, la vittoria su Napoleone, ma più ancora quelli della rivoluzione sovietica. Cerco con gli occhi il luogo del discorso di Lenin sul palco; le cancellate non ci sono più. Rinuncio subito ad una qualunque ricostruzione degli eventi; "domani, domani, " mi dico. Ci aspetta il battello e le leggi del turismo sono per definizione mirate alla rimozione della memoria; c'è spazio solo per l'emozione degli occhi nell'istante concesso. In una città barocca come S.P., non vi può essere inizio più svelatore di quello di una gita in battello; subito percepisci come sia una città pensata e progettata per comunicare con l'acqua, per affacciarsi al di sopra degli argini in granito rosa pallido di Finlandia, sull'acqua ora verde ora bianco ghiaccio del fiume o del canale, ma anche per essere vista dal pelo dell'acqua. L'opulenza e la scenograficità rococò dei numerosi palazzi, nei loro colori, verde, azzurro, giallo, rosso; l'alternarsi dei giardini specchianti sull'acqua; i 365 ponti, arricchiti da ferri battuti fin troppo dorati, da statue, obelischi, sfingi, fari, lampioni e torrette, in un continuum labirintico, è "spettacolo"! Dall'Anickov Most, al Sinij Most (il "Ponte dei baci"), dall Bankosvskij (quello dei cantanti) al ponte del castello nei pressi dell'Ermitage, il primo in pietra; si passa lungo il canale Fontanka, il canale Grybovedova, il fiume Mojka, si giunge prima nel Bolshaya Neva, infine nel Malaya Neva. L'emozione è fortissima! La dilatazione dello spazio, la luce e i colori aumentano e valorizzano le qualità della scenografia di un barocco così doppiamente italiano, frutto di numerosi architetti italiani, ma soprattutto di una misura e gioia così poco baltica, così mediterranea! Un vento forte e freddo soffia sulla Neva e l'increspa. E' vastissima, maestosa, nonostante scorra dal lago Ladoga per soli 70 Km! Ha spalancato il cielo di un azzurro intenso e fa volare veloce qualche nuvola bianca. Come è lontana la mia calda brezza di Quercianella! Ora lo vedo! Ora capisco perché solo qui, e non a Mosca, si è mescolata ogni passione; solo qui hanno vibrato le tante passioni, della musica, della poesia, del teatro, della narrativa, di quanto ha fatto battere i cuori di ogni uomo nelle lunghe notte della breve estate, quando giorno e notte si mescolano e confondono i cuori degli innamorati. Il vento di Finlandia porta profumi di bosco, di betulla, di fragole, di resina; e le vele corrono fendendo le piccole onde di sogno. Che conta il buio e il ghiaccio d'inverno se l'estate è un simile turbine d'amore! Ovunque appaiono coppie di sposi coperti di baci. Un ragazzo, uno studente forse, ci saluta da un ponte. Quel braccio alzato e sventolante di vitalità giovanile, di gioia pulita l'ho già visto altre volte nei film del disgelo kruscioviano; non ho mai pensato che fosse solo retorica. Cosa aveva questo popolo per donare, nonostante i milioni di compagni o di kulachi mandati a morire nei gulag, per donare altri venti milioni di morti in guerra? Lo rivediamo al ponte successivo, poi a quello dopo. Lo rivedremo dopo circa un'ora paonazzo, sudato, sfinito, senza più il suo solare sorriso sul muretto dell'imbarcadero, col berretto là pudicamente poggiato, con gli occhi abbassati; il suo animo è pulito, pieno di poesia. Poco più tardi scopro che anche i poveri sono dignitosi e non si prostituiscono. Dal battello si vede come nei quadri di Canaletto la schiera dei palazzi, la teoria dei grandi ponti; l'isola Vasilevskij (una delle cento isole del delta della Neva), la fortezza di Pietro e Paolo con il suo campanile svettante e le cupole dorate, e lì accanto l'ormai mitico, ma inoffensivo anche ideologicamente, incrociatore Aurora (quello che sparò a salve sul palazzo dando il segnale della rivolta nell'ottobre del 1917); il palazzo d'inverno di Pietro il grande, i palazzi signorili del quartiere neoclassico dell'800 lungo la Mojka, il giardino d'estate e accanto il canale dei cigni, il ponte della Trinità (Troitskji most) costruito nel bicentenario dalla compagnia francese Batignolles, il più lungo con i suoi 582 metri, il ponte di Pietro il grande (Most Petra Velikovo) con il ponte levatoio centrale, come altri ponti lungo i canali, sollevati di notte per consentire il passaggio delle navi, in realtà per stupire quanti vogliono sognare bevendo un calice di champagne o una più prosaica birra. Quanto mi ci vorrà per fissare tante immagini viste in così poco tempo? Domani, domani! E' tardi, nonostante il sole sia ancora alto, comincio a sentire la stanchezza di una giornata così lunga e intensa. L'albergo è il Sovietskaia. Il solo nome è un "programma"! Un po' fuori moda, ma dignitoso; al piano, giorno e notte, staziona per servizio e vigilanza una donna. Chiudiamo le tende per difenderci dalla luce del sole ancora fermo sopra l'orizzonte (scende soltanto di 8° sotto l'orizzonte). Ripenso alla nascita di questa città, splendida come poche altre al mondo fino a tutto l'800. Da quanto ho potuto vedere a volo d'uccello capisco la personalità di Pietro, l'intelligenza e il coraggio non solo politico: aprire le vie del mare alla Russia, chiusa a sud dall'impero ottomano e a nord dalla potente Svezia, vincerla militarmente dopo aver costruito dal nulla una flotta, trasferire la capitale e la corte dell'aristocrazia terriera da Mosca, proiettarla nell'era moderna, nella scienza, nella cultura e nel gusto delle grandi capitali europee, competere persino con i loro residenze reali, è segno indiscutibile di una genialità rara per quei tempi, impensabile per la Russia, tutt'oggi motivo di orgoglio nazionale. Caterina ne completerà il progetto portando in Russia persino Voltaire e la sua biblioteca, la lingua e il gusto e la cultura illuminista non solo francese. |
L'indomani mattina il sole è già alto alle cinque; per noi latini è difficile accettare tanta luce senza fastidio, per i pietroburghesi è diverso: loro con gioia vitale devono immagazzinarla avidamente. Per la notte seguente decido di dotarmi di un indumento per mascherare gli occhi. |
La giornata successiva inizia con
la visita di Petrogradskaja, la fortezza di Pietro e Paolo, dalla
cui costruzione in legno, dopo la vittoria su Carlo XII di Svezia,
iniziò la fondazione della città nel 1703. Domenico
Trezzini progressivamente la sostituì con l'attuale fortezza
in pietra. Molti condannati ai lavori forzati morirono durante
la sua costruzione. Solo la costruzione del ponte della Trinità
nel 1890 rese accessibile l'area e lo sviluppo del retrostante
quartiere. Fortezza militare ma anche prigione dei nemici dello
Stato (uno dei primi fu il figlio di Pietro, Alessio, che vi
morì). Non solo ma anche luogo della zecca di Stato, e,
infine, in una "paradossale" contrapposizione, la cattedrale
dei santi Pietro e Paolo. Questa, dopo la morte di Pietro, fu
il luogo di sepoltura dei Romanov; vi sono le tombe di tutti
gli zar e zarine, compresa quella di Nicola II, l'ultimo zar
trucidato insieme a tutta la famiglia dalle guardie rosse. E' la prima chiesa barocca della Russia. Così la volle Pietro, su progetto del Trezzini, ad imitazione del modello europeo, diversa da quello tradizionale ortodosso. Ha la torre campanaria sul fronte, altissima, aghiforme con la cupola dorata, visibile da tutta la città. Tutte le tombe sono uguali di forma, molto sobrie, col solo nome sovranciso, e dello stesso materiale, marmo bianco di Carrara (ad eccezione di quella di Alessandro II che è in diaspro). Mi ha fatto riflettere il fatto che esse siano rimaste intatte durante la rivoluzione; la sua furia distruttiva, con l'iconoclastia dei segni del regime da abbattere, è come si fosse limitata agli uomini, senza coinvolgerne le opere e i documenti materiali. Per quanto il regime zarista fosse dispotico e iniquo, il nuovo li ha rispettati. Ciò che, pur restando per me "una deviazione ideologica" in uno Stato totalitario quale fu quello stalinista, mi rafforza la convinzione, spero non ideologica, sulle qualità profonde del popolo russo e della sua cultura. Uscendo dalla cattedrale dei santi Pietro e Paolo, fotografo una piccola guglia dorata nella speranza di conservarmi il ricordo dell'azzurro del cielo, di una tonalità mai vista, non a caso lo stesso della sua rinata bandiera. Che nasca da qui il segreto di un popolo che non sa odiare, né serbare rancore? Gostinyj Dvor: è il quartiere ricompreso tra il canale Fontanka, il fiume Mojka, il canale Griboedova, la prospettiva Nevskij, il lungo fiume del Palazzo. Al centro c'è la Piazza delle arti, una delle opere migliori di Carlo Rossi, l'urbanista di S.P., con giardini e la statua di Puskin. Gli edifici che circondano la piazza danno il segno della magnificenza culturale della città. Nel palazzo principale c'è il "Museo Russo"; ai lati c'è il teatro dell'opera e del balletto di Musorgskij, la sala di concerti della filarmonica. Poco oltre c'è la "chiesa del sangue versato", costruita, in stile russo del 600, sul luogo dove fu assassinato nel 1883 lo zar Alessandro II (simile a quelle del Cremlino e alla quale si è ispirata anche quella fiorentina di Viale Milton); ha 5 cupole dorate o ricoperte di mosaici, come del resto i timpani e altre parti di decoro delle facciate. Alle sue spalle i giardini e il castello neoclassico Mikhajlosvskij. Al centro dei giardini, luogo di ritrovo degli intellettuali di S.P, c'è il monumento alla rivoluzione d'ottobre, quella borghese, o delle bandiere rosse. Non si sa se piangere per il sogno infranto, per l'astrattezza di tanta illusoria sete di giustizia sociale o per il suo uso nefasto e per la tragedia immane che ha provocato, non solo in Russia. C'è un braciere di bronzo dove il fuoco arde costantemente: è semplice, non retorico, anzi stranamente spoglio. Davanti su una panchina un giovane ubriaco dorme, ma è presto cacciato con modi duri da un poliziotto. C'è molta amarezza, se non fosse per un gruppo festante intorno a due sposi. In tutta la città, nella sua breve estate, c'è come un'infiorescenza di matrimoni. Tra tante gambe s'insinua un "Eliuccio"; strano!, giunto, non so come, fin qui! E' tardi, camminiamo lungo la Prospektiva Nevskij. La strada più famosa della Russia; parte dall'Ammiragliato e giunge fino al monastero di S. Aleksander Nevskij; larga e lunga cinque chilometri. Brulica di gente a tutte le ore, anche di notte! Qua e là, imponenti edifici: il gigantesco palazzo Anickov donato alla zarina Elisabetta dal suo amante, e, poi, da Caterina la Grande al proprio, il principe Potemkin; da allora, con la aggiunta del Quarenghi elegante edificio colonnato, sede invernale dell'erede al trono; la chiesa armena; il teatro Alexandrinskij in stile neoclassico di Carlo Rossi, (russo ma di madre italiana) in piazza Ostrovskij, qua vennero rappresentate le opere di Cechov e di Gogol. La cattedrale di Kazan è ispirata a S. Pietro, ha una cupola di 80 metri, e un colonnato di111 metri, ispirato a quello del Bernini. Prende il nome dall'icona miracolosa della Madonna di Kazan che liberò la città dai polacchi. Contiene la tomba del generale Kotuzov vincitore della grande armata di Napoleone nel 1812. Tra i vari caffè letterari, quello famoso dove Puskin fu sfidato a duello e a causa di ciò ucciso; è perfettamente conservato com'era nell'800. Alberghi, negozi e bazar: il Gostinyj vor, i grandi magazzini in stile neoclassico. Gogol diceva con orgoglio che non esisteva nulla di più bello di questa strada. Credo, invece, che per quanto sia ancora allegra e brillante, e per quanto io sia ormai molto stanco, se ho ben visto al di là degli androni bui e molto degradati, simili ai portoni nel nostro dopoguerra, vi sia anche tanto kitsch-demodé e pseudo avanguardia. S.P. e presumibilmente tutta la Russia, in uno sforzo di rincorrere il moderno occidentale, e avendo in parte perso il filo della propria storia, mi sembra non ne abbia ancora trovato uno nuovo. Ma del resto chi ci riesce oggi al mondo? I contrasti sociali di un tempo aspettano ancora chi sappia e voglia superarli. Andiamo a cenare in un vicino ristorante georgiano. E' la prima volta che mangiamo molto bene, bevendo un rosso georgiano niente male. Quante cucine anche in Russia! Non può che essere così in uno stato che arriva ad affacciarsi davanti al Giappone e all'Alaska. A tarda notte, ma c'è ancora luce, il gruppo riesce a trovare due taxi che, dopo una breve trattativa, ci riporta in albergo a velocità folle. |
La giornata è dedicata alle
residenze imperiali: Peterhof e Oranienbaum. Il percorso non
è breve. Dobbiamo percorrere, verso ovest e il golfo di
Finlandia, un lungo tratto della periferia operaia e industriale
della città. So bene che, nell'immediato dopoguerra, la
fame di case, insieme a quella della pancia, era tale che, dal
punto di vista urbanistico ed edilizio, fu compiuto in pochissimo
tempo uno sforzo immenso. Il freddo qui taglia la carne e ogni
controretorica rischia di risultare peggiore di quella di cui
fu protagonista l'era staliniana e kruscioviana. Gli scadenti materiali impiegati, l'urgenza,
il carattere desolante di un impianto urbanistico socialmente
devitalizzato, fanno di questi edifici fatiscenti e inutilmente
degradati una testimonianza dell'eterna già accennata
contraddizione. Del resto la povertà produce gli stessi
frutti in tutto il mondo e se ogni metropoli, comprese quelle
italiane, ha le sue vergogne, questa non è certo una delle
peggiori. E', comunque, un buon inciampo a chi si dirige verso lo sfarzo di Peterhof. Anzi, subito dopo, iniziando la visita alla reggia e considerando la rapida riparazione postbellica per i gravissimi danni prodottele dalla stessa artiglieria sovietica (era divenuta sede dello stato maggiore dell'esercito tedesco assediante), torno a riflettere su coessenzialità delle due anime della storia sociale russa; di questo Giano bifronte, l'una aristocratica, opulenta, l'altra povera e sofferente; ma entrambe unite nello stesso amore verso la propria terra, ugualmente orgogliose della propria storia. Da qui iniziò, insieme alla disfatta di Stalingrado, il crollo del nazismo. Tutto fu ricostruito dove e come era. Gli ori abbagliano dentro e fuori, manca dunque la patina, ma qui i rigori dell'inverno esigono di frequente grossi pennelli e spessi colori, "cure" da cavallo. Resta una reggia degna di Pietro, di un grande paese; luminosa, come tutta l'architettura del 700, rococò e neoclassica. Il cammino verso l'Europa era iniziato qui, con l'uso delle lingue europee, non solo il francese; con la cultura europea, col mercato europeo, con quanto era moderno. In attesa di entrare e indossare pantofole di feltro, ci accolgono, per le foto di rito, un Pietro in costume d'epoca, insieme alla sua zarina, e un'orchestrina pronta a tutti gli inni con le divise dei soldati, naturalmente di Pietro. Sotto parrucche ingiallite i loro volti e nasi sono rubizzi, paonazzi di vodka. Anche poco più tardi, al ristorante, "accompagna" il pranzo un altro gruppo di musicanti nei tradizionali abbigliamenti, con balalaica e stivali; sono giovani, con visi belli, puliti come il loro sorriso; lei, una vera matrioska, con una corona di brillantini e perline, con grembiule rosso e bianco, canta melanconici e struggenti canti popolari. Piange il cuore vederli ancora senza futuro. La reggia costruita da Pietro dopo la vittoria della Poltava sugli svedesi del 1709, è "all'altezza del più grande dei monarchi"; simile a Versailles da cui certo trasse ispirazione. Grandiosa fuori e dentro; lo scintillante scalone del Rastrelli è decorato da cariatidi e intagli dorati. Uno splendido rococò (ma fa parte del già visto: sala del trono, sale cinesi, ecc.). Curioso il grande ritratto di Caterina a cavallo in divisa da generale. Interessante lo studio in quercia di Pietro. Mi colpisce una settecentesca collezione di cento splendidi ritratti femminili del pittore italiano Rotari. Il parco superiore è delizioso, alla francese; fu, infatti, progettato insieme alla reggia dall'architetto francese Le Blond, in parte modificato per Caterina da Rastrelli. Il giardino superiore, suddiviso da aiole, siepi, laghetti ornamentali, viali alberati incolonnati e potati geometricamente, chioschi, pergolati, offre un senso di grande equilibrio razionale, di ordine estetico. Quello inferiore, a terrazzamenti, con una sequenza di fontane, getti d'acqua, cascatelle, e statue bronzee doratissime, mi sembra sproporzionato, come schiacciato sotto la reggia, senza respiro e soprattutto un po' kitch. Preferisco allontanarmi da tanto affollamento di statue e turisti e dirigermi verso il termine di questa prospettiva scenografica, verso il mare del golfo di Finlandia, attraverso un parco di grandi tigli, di aceri, olmi, luminosissimo come il cielo; qua e là fantasiose fontane. L'azzurro del mare è la cosa più emozionante. Rimpiango di non avere il tempo di visitare il palazzo Monplaisir, deliziosamente affacciato sul mare Baltico. Nel pomeriggio visitiamo, non lontano, ad Orianembuam, il palazzo di Minchikov, l'amico fraterno di Pietro; da lui donata e da lui, caduto in disgrazia, requisita. Questa piccola, ma splendida villa, è vicina al mare, ma resta seminascosta in un bosco di alti alberi. Perfettamente conservata e arredata, ha colori pastello, leggeri. Mi sembra più autentica dell'altra, molto più elegante, sobria, armonica, ricca di citazioni classiche (le muse dipinte dal Terreni!); nel salottino cinese ci sono su seta uccelli simili a quelli della stanza di palazzo Gerini, a Firenze, dove ho lavorato negli ultimi anni. Tutto, per misura, gusto e continuità, spaziale e luminosa, con la natura circostante, mi dà una sensazione non diversa da quella già conosciuta in alcune ville palladiane. Uscendo, nel costeggiare il bosco alto e fitto e i laghetti brulicanti di zanzare, mi sono ricordato della taiga di Derzu Uzala di A. Kurosawa. |
La
giornata è sostanzialmente dedicata all'Ermitage. Ma è
anche l'occasione per completare la visita di quella parte della
città che dal lungo fiume, la Neva, alla Mojka, ricomprende
palazzi, giardini, musei, monumenti, piazze, ponti, tutti costituenti
quell'unica maestosa scenografia svelata il primo giorno. Partendo
dal lungofiume meridionale (con le sue formidabili banchine in
granito lunghe oltre due chilometri), infatti, gli spazi, i volumi,
le forme paiono sempre mutare: in realtà si entra e si
esce da una piazza all'altra senza soluzione di continuità
rispetto alla medesima emozione rispetto allo stile e alla storia.
Si passa dalla piazza del Palazzo del Senato; alla piazza del
Palazzo d'estate di Pietro; a quella del cavaliere di bronzo
(Pietro il grande, che uccide col cavallo il serpente del tradimento,
è citato nell'omonimo romanzo di Puskin in cui si vive
l'ossessiva visione della grande alluvione del 1824); a quella
dell'Ammiragliato della marina russa (un gigantesco palazzo neoclassico,
con un guglia dorata altissima, affacciato da una lato sulla
Neva ed internamente su vasti giardini); alla piazza dei ribelli
decabristi ( quelli che si sollevarono contro il regime zarista
nel 1825 per ottenere una monarchia costituzionale), a sua volta
collegata da un arco trionfale a quella immensa del Palazzo d'inverno
(sede degli zar e poi del museo dell'Ermitage, con al centro
la colonna della vittoria di Alessandro su Napoleone e soprattutto
epicentro e sbocco naturale della rivoluzione sovietica); alla
piazza di Sinij Most (in effetti è un ponte largo 100
metri) con al centro la gigantesca statua equestre di Nicola
I, circondata dalla cattedrale di S. Isacco (contornata da 48
enormi colonne in granito rosso, ornata da statue e da una cupola
dorata visibile da tutta la città; trasformata in epoca
sovietica in tempio dell'ateismo), dal palazzo Mariinskij (in
onore di Maria, figlia di Nicola I, ora sede del municipio di
S.P.) e dal famoso albergo Astoria; un continuo passaggio senza
che nulla pare mutare. Sembra di essere costantemente al centro
di un medesimo scenario per grandiosità, magnificenza,
splendore e ricchezza di storia. Una splendida cornice prima di entrare in uno dei più grandi e importanti musei del mondo l'Ermitage. Il Palazzo d'inverno (del Rastrelli), il grande Ermitage, il piccolo Ermitage, tra la banchina della Neva e il canale d'inverno per lunghezza, dimensioni, eleganza di stile e colori, verde e oro, la sontuosità degli interni (scaloni, sala del trono, stanza della malachite, salotti, camere, ecc.), dei giardini pensili, sono di per sé prima ancora delle collezioni uno straordinario motivo di stupore. Sulle collezioni, da quella della pittura italiana a quella spagnola, francese e fiamminga (splendidi Rembrandt) e olandese, ai Canova, fino agli impressionisti, importanti per numero e qualità, non mi soffermo: è noto a tutti quanto il turista ne esca stupito e allo stesso tempo svuotato. Prima di cena raggiungiamo il monastero di San Alexander. Nevskij, principe di Novgorod, eroe dell'indipendenza russa e per questo santificato. Nella piccola piazza antistante la statua a cavallo dell'eroe ricorda nel profilo Lenin a giudizio della guida, e a mio parere l'attore russo Cercassov nell'omonimo film di Eisenstein. Il monastero non è pari a quello di S.Nicola, anche se qui vivono monaci, molto ieratici, in tunica nera, alti e con capelli e barba lunga e a punta. Mi emoziona di più il vicino cimitero: in un piccolo, semplice bosco, sotto alti alberi, vi sono le tombe di Dostoevskij, di Ciajkoskij, di Musorgkij, di Rimskij-Korsakov, Glinka. Come è vicina la Russia! |
Oggi altra giornata dedicata ad altre due residenze "imperiali", come usa dire la nostra guida tradendo in parte la mia aspettativa di sentire usare il vecchio termine zarista, che forse suscita echi più cupi ed antiquati. |
Ultimo giorno. La città immensa
pare contenga troppe cose importanti che non ho neppure intravisto;
il programma prevede la visita al museo di antropologia e al
museo russo, entrambi situati nella piazza delle arti già
visitata nei giorni precedenti. Comincio ad orientarmi, a riconoscere,
a fare mio, a familiarizzare di più. Il museo di antropologia
è straordinario per ricchezza di documenti, stato di conservazione,
fascino per la vastità e diversità delle culture
documentate, da quelle siberiane, a quelle artiche, alle popolazioni
contadine descritte nei loro lavori, costumi, usi, abitudini,
processi lavorativi e tecnologici. Le foto di fine 800 dei gruppi
umani nei villaggi, nelle case, al lavoro nei campi o nel bosco,
sono tuttavia la testimonianza più toccante e indelebile.
Inutilmente ne ho cercato il catalogo. Non verrei mai via. Il museo russo è posto nel palazzo Mikhajlosvkij. Edificio neoclassico di Carlo Rossi, contiene una vasta collezione di pittura, scultura e arti applicate - scatole laccate, ceramiche, tessuti, arte folk - della Russia. E' un museo con collezioni da non perdere, ad iniziare dalle icone, quelle stupende di Andrej Rublev 1340-1430 (importanti per una riflessione sulla ineluttabilità di una ricostruzione storica della teologia; essa, infatti, attesta, attraverso la mancanza secolare di innovazione stilistico formale dell'arte sacra russa, la corrispondente mancanza di innovazione nei suoi rapporti con la storia umana e, in specie, con la teologia); per giungere alla pittura del '700-800, di chiara ispirazione europea, italiana, olandese, inglese, tedesca, ma anche di chiara matrice russa nelle atmosfere e nei toni romantici; alla corrente dei pittori "vagabondi" o itineranti impegnati socialmente nella trattazione delle tematiche russe (vedi i battellieri del Volga di Ilja Repin, la refezione al monastero di Periv di efficace denuncia delle ingiustizie sociali); per finire con le avanguardie dei primi del '900 (Chagall, Malevich, Kandinskij) che respingendo il concetto di "arte socialmente utile" sostennero quello di "arte pura e libera da vincoli". Sulla strada del ritorno ci fermiamo per lo shopping: i viaggi, in ragione della distanza obbligano a comprare ricordini per sé e per i propri cari. Fa parte dell'organizzazione industriale dell'economia turistica. Solo per caso, dunque, ci fermiamo nei pressi non del convento di Smolnyj, pure meritevole di una visita con la sua cattedrale bianco-azzurro progettata dal Rastrelli; ma dell'Istituto Smolnyj. Quest'ultimo eretto, su progetto neoclassico del Quarenghi, ai primi dell'800 come scuola per giovani nobildonne - tra le quali la bisnonna di uno del gruppo che mi accompagna seguendo i suoi avventurosi ricordi di famiglia! - fu occupato durante la rivoluzione. Infatti, fu qui che il 25 ottobre del 1917 Lenin orchestrò il colpo di Stato dei Bolscevici, mentre il secondo congresso panrusso dei Soviet si riuniva nella sala dell'assemblea. Il congresso confermò Lenin al potere e questa divenne la sede del governo fino al marzo del 1918, quando con l'avanzare dei tedeschi e lo scoppio della guerra civile il governo non si trasferì a Mosca e l'istituto divenne sede del partito comunista di Leningrado. Qui Kirov, il primo segretario del partito fu assassinato; e da tale evento iniziarono le purghe staliniane. Qui, ora sede del sindaco e dell'assemblea di S.P., sono ancora visitabili le stanze dove visse Lenin. Di lui c'è una statua in bronzo davanti alla facciata. Ma tutto ciò, non solo nella mente della guida che ci accompagna, sembra "rimosso". Del resto è umano per chiunque, soprattutto per i popoli, esercitare il diritto alla vita, alla speranza, ad essere artefici del proprio futuro. La scenografia tragica di S.P. è muta, aspetta nuovi attori, aspetta che la cetra canti di nuovo la melopea, che i sogni dell'uomo e le sue passioni animino ancora una volta la civiltà e la storia umana. Ora la Neva scorre limpida sotto il cielo del golfo di Finlandia, nessuno vive più col terrore del tradimento, della negazione della propria dignità, dei propri elementari diritti. Ma prima che il lutto sia stato elaborato dal popolo russo credo che occorra molto tempo: uno degli scandali dell'umanità è ancora negata. Del resto è comprensibile che i quadri del regime stalinista siano stati rimossi dal museo della Russia. Solo di Lenin è rimasto qualcosa, non a caso la città fu a lui dedicata; e forse in questo c'è del giusto se non altro come monito per chi sogna l'utopia! Giulia, la nostra guida, donna intelligente e colta, davanti alla distruzione dei palazzi "imperiali", ne ha addebitato la colpa alle bombe dei nazisti in fuga, non a quelle di Stalin, inseguitore e liberatore. Il senso di colpa è forte e l'orgoglio ferito; il bisogno di nascondere, di spazzare le ceneri e di lavare le macchie di sangue, l'affanno di dimenticare rapidamente la Russia povera e affamata, altrettanto forte. Due stati d'animo ancora in conflitto. Per tutto ciò, mi è dispiaciuto non aver visitato il museo della rivoluzione al palazzo Ksesinkaja; per meglio vedere in faccia, per meglio capire l'oggi. Al tardo pomeriggio ci attende "il lago dei cigni". L'idea sarebbe stata ottima se fossimo andati al teatro Marinskij dove pure avevamo prenotato; ma per motivi ignoti siamo dirottati in quello più piccolo di prosa (quello di Checov), gremito di un pubblico di turisti o forse è meglio dire di tifosi che ad ogni pausa esplode in calorosi applausi. Vestiti, scenografia e coreografia vecchi; l'orchestra inascoltabile fa il resto. Peccato! Per fortuna all'uscita ritorniamo a piedi lungo i quattro chilometri del Fontanka. L'ora tarda ci dona un ultimo ricordo dell'atmosfera di questa straordinaria città. Lungo il canale, seduti sul muretto i giovani parlano, ridono e bevono birra; le automobili ormai rare sfrecciano veloci. L'acqua del canale illuminata dai lampioni e dalla pallida luce solare è tremula al leggero vento del Baltico. L'unione mistica tra natura e architettura che mi è parso cogliere in questi giorni si riflette nei toni rosa del cielo notturno che tutto colora: il grande spazio della Neva e delle sue rive, i suoi canali, le sue chiese, i palazzi, il verde dei parchi e degli alberi sporgenti sull'acqua. |
Quercianella, agosto 2003 |
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