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Pietro Parigi artista dell'Uno e del molteplice |
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Si inaugurava a Fiesole la casa-museo di Primo Conti: personaggio rilevante nella cultura e nell'arte fiorentina della prima metà del novecento, come è attestato dal suo archivio e dalla fitta rete delle conoscenze da lui intessuta in quell'epoca di fermenti innovativi. C'erano proprio tutti: personaggi importanti nei colori sgargianti del loro diverso ruolo pubblico, col loro bisogno di carpire gli eventi, di schierarsi sul palcoscenico dei vincenti: tutti comprimari scenici di quel "monumento" vivente, uno degli ultimi sopravvissuti di quella temperie storica: il cappello a larghe tese, l'immancabile sciarpa, anch'essa una pennellata di colore, il suo porsi fiorentino, spavaldo, sicuro di se, provocatorio, dannunziano, narcisista circondato da epigoni. Pietro Parigi era lì, ma fuori della porta, in disparte, isolato, quasi nascosto dietro un albero, la sua figura alta e magra mimetizzata col tronco. A mio fratello che gli si era avvicinato per salutarlo, dopo un rapido sguardo negli occhi, sussurrò con un filo di voce "Non ce la fò ad entrare!" E si allontanò, senza che nessuno si fosse accorto di lui. Ora tutto o quasi è stato detto dell'uomo e della sua arte; un' arte scavata nel legno, povera nei materiali, nelle tecniche, nelle forme, nel sistema comunicativo; con l 'unico colore del saio, quello scuro e terroso di Francesco, in un linguaggio sentito e pensato per un altro palcoscenico, quello degli ultimi. Senza enfasi, senza retorica neppure quella dell'accademia o delle belle forme, sordo al canto delle sirene dello sperimentalismo, discreto e modesto nel porsi, semplice sempre nel presentarsi anche col suo dono artistico, umile, delizioso.
Orbene, ciò che intendo dire è che è impossibile sfuggire all'eterno quesito sull'arte: quale è la sua funzione? Nella continua ricerca ed innovazione dei suoi linguaggi, la storia dell'arte attesta: che non si può essere sradicati dal proprio territorio, dalla comunità e dalla sua storia o identità, là dove va collocato ogni progetto di futuro; che la sperimentazione e la tecnica non possono mai essere fini a se stessi, mero fare (poiesis), forma omologante dell'idea; che non si può prescindere da un fine, dall'agire (praxis) che sia ricerca di senso e di verità, testimonianza autentica di vita; che non si debba mai negare il bisogno della sua comunicazione empatica, di delicato e amoroso rispetto del "prossimo" cui l 'arte è destinata e a cui si deve dar conto del "talento" affidatoci. Un linguaggio, dunque, che, pur nella crisi del tempo e delle sue forme, non può mai prescindere dal bisogno di perenne ricerca del "bello-buono", da quel bello dell'animo che rispecchia il bene, e, per chi crede in Dio, il suo regno. Ben inteso, non ricerca di un bello edulcorato, estraneo alla reale condizione dell'uomo, alle sue sofferenze, alle tragedie, a quanto segna la percezione della realtà, che si viva o meno il mistero della fede. Cosa debba essere l'arte è, certamente, tema aperto: doverosamente aperto alle molteplici e diverse sensibilità e culture di ogni luogo e tempo, in definitiva alle diverse visioni del mondo. Non rispetteremmo Pietro Parigi, tuttavia, se qui ed ora non ci ponessimo questa domanda con i suoi diversi punti di vista ed approcci disciplinari (psicologici, antropologici, sociologici, filosofici, economici e poli-tici); se non cercassimo, con spirito di verità, di darle una risposta. Del resto, la terapia di ogni forma di male e di malessere, compresa quella di cui, a nostro giudizio, pare soffrire l' arte contemporanea, esige sempre una rigorosa e impietosa diagnosi; guai se cercassimo di limitarne il campo, ridurla ai nostri schemi, a quanto più ci preme, alle nostre sempre limitate capacità di giudizio. Qui nella basilica voluta dai seguaci di S. Francesco, per iniziativa di chi da sempre si misura, in un silenzio non diverso da quello di Pietro Parigi, non a caso amici fraterni, talvolta con la struggente sofferenza o peggio col dubbio di rimanere "vox clamantis in deserto" - destino di ogni visione profetica, anche laica -, da tempo si indaga sui temi della stessa ricerca su Dio e sull'uomo, sull'Uno e sul molteplice. Quale che sia il loro occasionale spunto, oggi quello sull'uomo e sul linguaggio artistico di Pietro Parigi e sul suo insegna-mento, non possiamo non chiederci se, anche per le forme sempre più deformate e criptiche dell'arte nel tormentato '900, non valgano le stesse costanti interpretative della realtà e della vita dell'uomo; quelle con cui si tenta di darle un significato ultimo e universale: se tali costanti non siano quelle leggi della verità e dell'amore, si intendano o meno doni di Dio. Se, in definitiva, per esse non si percorra la medesima strada lungo la quale si dipana l'aggrovigliato filo della conoscenza della vita e del senso che l 'uomo ricerca da sempre e tenta di darle anche attraverso le forme dei linguaggi artistici. Per tali motivi, non è difficile arrivare a quanto è causa e strumento di divisione; a quello stesso moto dell'animo grazie al quale Pietro non entrò in quella casa-museo e si allontanò da quanto lì si adorava; segno per noi di un coraggio che altri, invece, considerano debolezza, fragilità, difetto genetico di una stirpe in via di estinzione; di quel moto dello spirito di cui è metafora cristiana la spada, strumento dunque di divisione che non può mai venir confuso con quello contiguo, apparentemente simile dell'idealismo etico, così superbo, intollerante e sopraffattore. Può, allora, l'arte essere lievito, testimonianza di verità, parametro di distinzione e separazione tra bene e male (il bello degli antichi?), espressione di una ricerca mossa dall'amore unificante per il prossimo, se non sa o non vuole distinguersi da quanto, sotto lo stesso nome di arte, e in ciò profanandola, viene inteso quale espressione meramente istintiva e casuale delle emozioni più profonde, ovvero comunicazione di una visione egocentrica della vita, narcisistica, o strumento di potere, di danaro, di fama effimera, che ostenta come stile e distintivo del suo atteggiarsi, la provocazione, la violenza morale, lo scandalo?
In un modello di società- - in cui l'intelligenza e l'apprendimento non funzionano perché non li alimenta il cuore e l' educazione emotiva; in cui i valori dominanti sono quelli del mercato, dunque del danaro, del successo, dell'immagine, dell'esasperato individualismo e del privato; dove le infinite possibilità di scelta e di libertà non incontrano più i limiti delle ristrette possibilità economiche, delle regole condivise, delle strutture di contenimento, tutte saltate, né sono alimentate dalla solidarietà, dalla relazione, dalla comunicazione, dall'aiuto reciproco - anche l'arte non può che essere in crisi, ed ogni diagnosi e terapia seguirne le sorti. Una crisi, dunque, di valori etico-sociali in cui è eroso ogni spazio di comunicazione emotiva, sia essa gioiosa che di sofferenza, di educazione dell'anima, e non solo del corpo e dell'intelligenza, di riflessione e di progettualità, personale e comunitaria: in cui, in sintesi, si è inaridito il sentimento che è l' organo attraverso il quale si sente, prima ancora di sapere, cosa è bene e cosa è male. Una crisi, dunque, da cui l' artista, con le sue forme e strumenti di comunicazione, può uscire alle stesse condizioni (di fini, di mezzi, di modi e di risorse) poste ad ogni altra tipologia o categoria umana, senza distinzione di razza, di condizione economica, di cultura e di fede; condizioni di responsabilità espresse da una intransigente opposizione al potere. Se, allora, l' arte scaturisce dal nostro sentimento personale che è la radice profonda della nostra visione del mondo, culturale, etica e politica, dove si esprime la nostra gerarchia dei valori, dove ciascuno di noi si ritrova e si identifica; se ad essa, dunque, possiamo assegnare un orizzonte di valore - per quanto ciò possa non essere condiviso -allora in essa possiamo distinguere, esattamente come è per l'etica o per la politica rispetto ai modelli di regolazione e sviluppo economico-sociale ciò che trascura o oltraggia i sentimenti di appartenenza, che ferisce il nucleo profondo della nostra identità, quanto privilegia l'individuo, la visione egocentrica di sé, il successo e il danaro; da ciò che, per contro, antepone il rapporto col prossimo, la solidarietà reciproca, l'esigenza innata di giustizia, e il bisogno e la gioia di comunicare a quante più persone possibile la molteplice emozione artistica di questo unitario sentire. Nell'attuale nostro mondo violentato dal mercato e dalla sua finanziarizzazione, dalla tecnologia e dai nuovi strumenti della comunicazione, l'insegnamento di Pietro Parigi è, allora, prezioso perché ci indica la strada della denuncia di ogni falsità, di ogni inganno e vacuità, e, con ciò stesso, l'eterno dilemma dell'uomo, che si misuri e si esprima o meno con l'arte, di seguire il mondo, oppure di contrastarlo con la forza dei valori universali, col desiderio e la gioia di spezzarne il pane alla mensa comune.
Saper vedere il progresso in tempi di continue e sempre più veloci innovazioni e di mercificazione totalizzante, ove si tende a restringere ogni spazio di libertà e responsabilità, anche artistica, e, ancor più, scorgere un progresso ininterrotto nell'evoluzione (secondo la linea interpretativa di derivazione aristotelica), se non vuole essere segno di interessato, colpevole, di "candido" ma pericoloso ottimismo, o se al contempo non vuole suonare come fine dell'utopia, cioè di ogni fede nel rinnovamento radicale dell'uomo, deve indurci ad interrogarci, non intellettualisticamente, sulla "conversione" di cui il mondo ha urgente e drammatico bisogno, e la cui testimonianza riveste direttamente e principalmente il ruolo della Chiesa.
Il mondo, quello dei poveri, dei deboli, degli ultimi, spogliati di ogni potere, dei deprivati di ogni diritto, compreso quello all'elevazione spirituale e al bello, è scandalizzato e si aspetta proprio dal mondo cosiddetto "cristiano", quello ricco ed evoluto, il segnale di una correzione di rotta, capace di suscitare nel cuore dell'umanità la speranza non illusoria di libertà, di giustizia, di pace. Potere e danaro spesso vedono la Chiesa non più profetica, ma funzionale alla politica del potere e all'economia capitalistica senza regole né anima. Se, dunque, il molteplice non viene vivificato dall'Uno attraverso la sua Chiesa, quella profetica di contestazione dell'orrore del mondo, di opposizione al danaro e al potere, non solo "misericordia e verità" non si incontreranno, né "giustizia e pace" si baceranno, ma anche la bellezza non troverà alimento. In tale prospettiva, il giovane artista che voglia "pensare, predicare, operare" la propria verità attraverso i linguaggi dell'arte, affronterà e vivrà diversamente l'eterna, tremenda alternativa della vita, e forse troverà più facilmente una terza strada tra le due che oggi paiono obbligate: quella, da un lato, della fuga dalla realtà, con la regressione nostalgica nel mito di un passato irripetibile - non è casuale il ritorno all'iconografia bizantina pur ricca di preziosa simbologia; forse è di questa che si ha bisogno? -, o con la comunicazione mistica con Dio attraverso la preghiera, ma senza passare anche dagli uomini per un comune progetto di trasformazione della realtà, o con la rassegnazione assenteista che finisce per rafforzare la delega colpevole ai potenti per i loro esclusivi interessi; o, peggio, con l'uso strumentale della religione per dominare, dividere o soltanto difendersi. E, dall'altro, la strada del patto scellerato con la cultura di massa e dello spettacolo, col mito del successo e del profitto ad ogni costo, col mercato e la sua mercificazione dei valori, con le manifestazioni e le forme violente o irrispettose della persona. Egli, solo se non sarà lasciato a se stesso, se si arricchirà del comune sentire di una umanità affratellata in una unitaria matrice di valori, da quanto unisce gli uomini e risponde al loro universale sentire, se egli saprà già amare la vita, se sarà già capace di lottare per migliorare il mondo, se saprà ricondurre tutte le cose a quel senso ultimo che è in loro, se il suo cuore di innamorato tornerà a sognare il suo tesoro, il progetto artistico, se infine tornerà a sentire e ad operare il bisogno di comunicarlo in amicizia, allora anche la bellezza sarà data in aggiunta. Per questo, il suo problema di artista è e sarà lo stesso di ogni altro uomo, almeno quello di tutti i beati che ascoltano il sermone della montagna: di quanti hanno sete di combattere le moderne forme del male. |
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