Il vuoto di viaggi all'estero,
e ancor più in paesi lontani, che mi si è scavato
dentro in tutti questi anni, si è venuto riempiendo di
un'immaginazione sempre più labile, quasi che il desiderio
una volta così forte e fervido oggi si sia del tutto affievolito.
Anche ora, alla vigilia di questo viaggio in Portogallo, vorrei
restare, non certo per l'inaspettato invito a parteciparvi. Il
tempo mi ha radicato nel profondo la tenace pianta dell'insicurezza
o forse di un frutto diverso, del desiderio di altro tipo di
viaggio, quello che procede lentamente nel breve e silenzioso
raggio della terra che mi circonda. Quasi soltanto qui si fosse
ristretta, se non asciugata, l'emozione, e non solo perché
l'enfasi stonata di cose grandi ci spinge al contrario verso
le piccole e le semplici.
Ma allo stesso tempo pare, al solo pensarci, improvviso zefiro
d'umore, sbucare l'antica vigoria, la voglia di scoprire quanto,
proprio a causa del veloce consumarsi di apparenze, di vuoti
miti, di nuovi riti, ci aiuta a rafforzare le poche cose che
ci donano il senso della vita.
So bene che appena il viaggio sarà iniziato, quasi d'incanto,
tutto ciò verrà capovolto: svaniranno le insicurezze,
le pigrizie anchilosate, i reumatismi dell'animo che dolgono
di notte quando v'è il passaggio dal sonno lieve all'ascolto
del buio, a quella rapida e confusa ricognizione delle preoccupazioni
quotidiane; così è al mattino, quando il sole e
il fresco vento marino diradano la guazza notturna che arrugginisce
ogni giuntura del corpo.
So bene che giunto al confine, anche se sul suolo ne hanno giustamente
cancellato i segni, le linee una volta insanguinate, l'ascolto
di un'altra lingua mi farà balzare con un moto di lieto
stupore, un felice turbamento. Così è ogni volta
come quando, ancora liceale, l'udii a Chiasso. Fin da allora
pare di consociarmi ad una umanità eletta; sentimento
che oggi, ne sono certo, nonostante l'abuso, non s'è inaridito.
Non so cosa susciterà domani nel cuore di Lorenzo; so
tuttavia che un altro nipote, circa trenta anni fa, proprio lì,
nella penisola iberica, di poco s'accorse; già non volgeva
più lo sguardo incuriosito e stupito, quasi avesse già
percepito che più nulla cambia oltre quelle linee o sbarre,
là oltre le bandiere d'altri.
So bene anche che giunto alla "finis terrae", d'innanzi
al grande oceano, mi sentirò per un attimo come tanti
altri, piccolo e coraggioso, debole e forte, umile e superbo;
ma so anche che poi la stanchezza lentamente m'avvolgerà
nel suo fumo e subdola rispunterà la nostalgia. So bene
come tutto procederà; qualcosa alla fine, certo, sarà
precipitato in quel vuoto: piccoli granelli di colore diverso
che segneranno ancora per poco l'impronta di un ricordo, simile
a foglia o traccia di lombrico sulla sabbia fossile.
6 agosto Domenica ore 18,30.
Abbiamo anticipato la partenza al pomeriggio. Nella consueta
agitazione e davanti ai parenti, nonni e figli, in trepidante
e augurante saluto come a ragazzi al loro primo viaggio, mettiamo
in moto il camper.
Abbiamo lasciato da qualche parte la caffettiera: occasionale
simbolo della nostra fragilità, della difficoltà
a rinunciare anche solo per poco alle abitudini compensatorie.
E' come se d'improvviso fosse cambiato l'oggetto dei nostri desideri.
Ma è come un vecchio entrobordo: al primo colpo di pistone,
con la prima zaffata di fumo nero, scompare ogni vecchio residuo.
Il tratto italiano, pur così bello, è attraversato
con occhi distratti, stanchi. Di fronte alla meta così
lontana e auspicabilmente diversa, quella vicina, domestica si
sfuoca; lo stesso mare che ci accompagna è così
diverso da quello segnato dal mito o da quello della nostalgia.
L'obiettivo della nostra attenzione, la sua capacità naturale
di suscitare la memoria resta come chiuso: stranezze della mente
umana. Alla partenza, per la durata del distacco, lo sguardo
non riesce a mettere a fuoco gli oggetti secondo il loro intrinseco
valore. L'abitudine vera o presunta finisce per farci disamorare
presto di ciò che di più bello e caro ci sta a
fianco.
Mi lascio trasportare.
La notte giunge presto in terra francese, là dove la razionalità
degli antichi romani nel comunicare, nell'avvicinare le terre
del dominio e nel costruire strade, pare essere rinata in veste
moderna. Lo conferma anche l'area di sosta dell'autostrada dove
ci fermiamo; un piccolo camping. Che attenzione per il viaggiatore!
Ogni suo bisogno informativo, di tutela e funzionale ci appare
frutto di una accurata e creativa progettazione. Oggi si direbbe:
"la qualità del servizio".
7 Lunedì.
Non mi sono accorto che la frontiera con i suoi vessilli e i
suoi gendarmi non ci sono più. Mi sento europeo come 2000
anni fa poteva sentirsi un civis romanus nella pax augustea o
un pellegrino 1000 anni addietro. La Provenza sempre sognata:
classica, medioevale, moderna. Rivedo subito i paesaggi e i cromatismi
di Cezanne, Van Gogh, Matisse, di quanti venendo dal nord qui
furono folgorati dalla luce; lo è anche per me italiano!
I suoi colori sono straordinariamente vivi, assoluti, puri. Si
comprende come nell'arte basti saper osservare e svelare ciò
che esiste.
E' una lunga tappa di trasferimento, ma sento questa terra vicina,
familiare; ogni cosa, il sole, il cielo, la macchia mediterranea,
le vigne, l'azzurro caldo del mare, le montagne, le stesse case,
li sento miei. E' strano riscoprire altrove la bellezza della
vicinanza! Esulto come un ragazzo. Guarda là, guarda laggiù!
Scopro ciò che ho sempre visto con l'immaginazione, che
ho sedimentato nella conoscenza certo superficiale di una vita.
Quanti confusi spezzoni di storia, di letteratura, di arte! Basta
avvicinarsi alla cosa amata, che è anche quella più
conosciuta, per essere felice. Ma pure adesso sono costretto
a salutarla da un finestrino in corsa. Vorrei sostarvi e procedere
con la lentezza del mio passo!
Lascio dietro di me Arles e immagino i quadri di Van Gogh; mi
pare di riconoscere il massiccio tante volte dipinto da Cezanne
nella diversa luce delle stagioni e del giorno. Aix Provence
così cara ai romani, persino Tarascona. Non ero preparato
a vedermela dinanzi. Mi sono riapparse subito le incisioni del
Tartarino di Daudet con l'immancabile fucile nelle sue avventure
di caccia così confusamente simili alle nostre piccole
utopie e ai nostri puerili progetti. Poi Avignone, Carcassonne
e le mura di Violet Le Duc e la strage dei catari.
Tutto un tumulto di desideri, di vecchie emozioni, credute sopite,
ancora una volta solo sfiorate, suscitate e subito soffocate
in uno strano sentimento di nostalgia per ciò che resta
un desiderio. Altre volte m'è parso persino più
bello conservare intatto il segreto del mio innamoramento quasi
che a causa della rinuncia esso m'apparisse ancora più
forte.
La mia stessa vita mi appare così, come se di fatto fossi
impossibilitato a scegliere, o meglio costretto a non percorrere
la strada del sogno; e per quanto questa forse si identifichi
con quella della sciocchezza, della dimensione puerile, ciononostante
tutto finisce per farmi credere che contemplare l'oggetto del
sogno sia persino più affascinante che viverlo.
Sono diretto altrove e sogno d'essere qui nel sud della Francia.
Del Portogallo, infatti, non so quasi nulla, è veramente
la fine del mondo; ma è li che dobbiamo andare. Sono persuaso
persino che volerla conoscere, l'avvicinarsi ad una meta così
lontana sia più che un atto di coraggio o di fede, di
superficiale presunzione.
Il buio di quel vuoto iniziale per un attimo è attraversato
da raggi di luce.
Urliamo il motto di inflessibili ed impietosi crociati: -"Diritti
verso il golfo di Biscaglia, a noi San Sebastiano!"-
Così anche di Carcassonne non mi resterà che il
trofeo di una foto da appendere ad un muro. Aspettami, un giorno
forse tornerò!
All'imbrunire sfioriamo Lourdes. Sappiamo che è lì
vicina, nel verde, ai piedi dei Pirenei. Come è flebile,
quasi ridicola o blasfema la mia fede! Basta il confronto con
quel gruppo di giovani che stamattina alle sette pregavano in
ginocchio, in cerchio. Mi sono sentito mortificato, come umiliato.
Ho pensato: "Forse andranno a Lourdes o a S.Jago di Compostela.
Certo il loro viaggio verso il Cristo non si baserà su
una grande dottrina, ma la fede è già di per sé
conoscenza e amore. Il turismo dovrebbe essere così, almeno
in parte.
Superata Biarritz, ci fermiamo a notte in un'area di sosta sull'autostrada,
vicino a S. Sebastiano.
8 agosto.
Stamattina svegliandoci abbiamo incontrato di nuovo il gruppo
di pellegrini, sono di Pordenone. Hanno dormito all'aperto per
terra con la sola giacca a vento nera. Uno dei tanti modi per
loro di liberarsi dagli agi e ritrovare nella divisione del pane
sulla pietra, proprio come San Francesco con frate Leone, la
beatitudine del creato e la gratitudine al Signore del dono della
vita, della condivisione gioiosa e festosa del poco. In cerchio
cantavano in coro. Che grande lezione mi hanno donato, a me che
il giorno prima li avevo sentiti pregare con contrizione, con
la "tristezza", così m'era parsa, delle giaculatorie.
Di loro nessuno parla, ieri, come oggi, come domani. Sono altre
le cose che fanno notizia, che appagano gli istinti umani, che
fanno girare il mondo e muovono gli uomini in giro per il mondo
alla sua "scoperta".
Rinnovo la domanda: che sia il turismo del domani, quello della
ricerca della verità e di ciò che la testimonia,
quando verrà?
Stasera forse anch'io raggiungerò S.Jago; vorrei trovarmi
solo con Grazia, vorrei difendere il pudore dei nostri sentimenti,
così vicini dopo quarant'anni di vita e di affetti in
comune.
Riprendiamo il viaggio. Il paesaggio ora è straordinariamente
diverso da quello immaginato: la montagna giunge fino al mare,
la costa è alta, con gole ed estuari. Gli alpeggi lambiscono
l'oceano e le foreste di eucalipti, banali reminiscenze di altri
e lontani climi, non ci abbandonano per centinaia di chilometri,
lungo i paesi baschi e tutta la cordigliera cantabrica. Mi chiedo
come si sentissero i pellegrini diretti a S.Jago: molti di loro
si saranno ricordati dei propri monti, di casa loro. Ovunque
pascoli e mucche. A chi avrà chiesto ospitalità,
il profumo di stallatico doveva certo farlo parlare nella stessa
lingua, concreta, chiara e certa, prima ancora di quella della
comune fede.
Durante questa lunghissima tappa di trasferimento verso S.Jago,
il paesaggio alpestre resta immutato.
Noto vicino ad ogni casa una piccola costruzione in legno, stretta
e lunga, poggia su colonne e su larghi capitelli di granito;
l'unica stanza ha feritoie ed è circondata da un ballatoio,
vi si accede da una stretta scaletta, sul colmo una croce anch'essa
in pietra. Fienili forse, non so dire; ma per le strane associazioni
che la forma talvolta suscita mi sono venute in mente, oltre
i granai biblici, anche molto impropriamente quelle arche o tombe
che si trovano dalla Mesopotamia al Tibet, ma anche assai vicino
a noi, a Padova. Che tra le due cose, così apparentemente
lontane, vi possa essere una qualche connessione, anche solo
per antitesi, parrebbe essere confermato dal fatto di trovarmi
ormai in una particolare fase della vita: quella nella quale
non si è lontani dal desiderare di non possedere più
un granaio che "tigna corrode".
Queste straordinarie testimonianze della cultura contadina, forse
di secoli, simili a piccole cappelle, anzi loro stesse forma
di preghiera, non mi abbandoneranno più per centinaia
di chilometri attraverso i Paesi Baschi e fino a tutta l'Andorra
portoghese, con le tutte le variazioni sul tema che la funzione
materiale consente. La stessa cultura contadina che la pietà
religiosa ha alimentato per secoli nello spingere i pellegrini
lungo il percorso verso S.Jago.
Che debito ha l'umanità verso questa cultura!
Giungiamo a S.Jago verso le 23,30. Nell'avvicinarsi ho intravisto,
sopra i tetti bassi della città vecchia, la stupefacente
scenografia notturna della cattedrale. La grande stanchezza e
la necessità di trovare un parcheggio mi avrebbero persino
fatto rinunciare a ciò che avevo sognato, sperato: l'arrivo
di notte. So quanto sia suggestivo un luogo-simbolo illuminato
dalla luce dei fari o della fede. Tutto si banalizza nella artificiosità
delle mode, del conformismo da cui consapevolmente non mi sottraggo.
Lentamente percorriamo il breve tratto di strada lungo una vecchia
strada di casupole a due piani, tutte costruite nei grossi blocchi
di granito; piccoli ospizi medioevali con la conchiglia del pellegrino
scolpita sull'architrave. Dopo una ripida scalinata lungo i fianchi
di un grande edificio, d'improvviso s'apre davanti a noi la grande
cavea della piazza, quella della facciata principale, "l'opera
d'oro" tanta è la sua bellezza. Lo stupore è
grandissimo, anche perché da lì si dipana un imponente
grumo di palazzi, di piazze, di archi come vecchie candele fuse
nei secoli intorno al luogo santo. Scenario grandioso e commovente,
fatto certo per stupire lo stanco pellegrino, ma palpabile. Oggi
frammisto, nella notte, da una folla brulicante sullo stesso
palcoscenico medievale, dove lo spettacolo antico della fede
è sommerso da quello laico della musica (berbera, e dunque
ossessiva e travolgente), dalla conversazione dei giovani nei
bar all'aperto quasi che "lo spettacolo" non debba
mai avere fine. I mie amici di Pordenone e la loro astinenza
dove sono? Anche nel medioevo sacro e profano era confuso, mescolato
nella stessa emozione liberatoria, di appagamento di un sogno
così a lungo coltivato nella solitudine, nella fatica
fisica, nei pericoli persino. Là dove tempio e mercato
sono sempre convissuti. Non c'era l'illuminazione notturna salvo
quella discreta della luna. Forse domani mattina tornando capirò
meglio quale potesse allora e quale possa ancora essere oggi
lo spirito autentico del pellegrino.
Comunque il mio pellegrinaggio turistico e frettoloso, senza
la lenta riflessione, senza la quotidiana fatica del distacco,
senza la liberazione dal superfluo del mondo, è più
vicino alla faccia pagana e spettacolare di stanotte che alla
scoperta del sepolcro vuoto, del miracolo del Cristo all'alba
con la prima luce del sole, con l'aria fresca della purezza.
9 agosto.
Com'era possibile che il sole potesse "tradire", mutare
il senso delle tante emozioni notturne! La tomba dell'apostolo,
del fratello di Giovanni! A stento trattengo la commozione nel
salire la scale della sua immagine venerata; il solo pensare
a chi è stato così a lungo vicino a Cristo mi dà
una grande forza come se Dio mi rinnovasse il dono della sapienza
della fede. Esco felice. Ascoltata la parola, la legge della
libertà (non poteva essere quella "del mondo",
della spada che gli spagnoli gli hanno poi messo in mano nella
guerra contro i mori, per la liberazione della Spagna ) so, ancora
di più, di doverla mettere in pratica.
Con Grazia, rimasti soli, visitiamo l'antico centro medioevale;
è un continuo suono di campane, il quieto e quotidiano
andirivieni degli abitanti ha preso il posto dell'agitazione
notturna. La pietra color ocra dei tanti monumenti, delle chiese,
ma anche dei collegi universitari (una volta ospizi per pellegrini),
delle case, ma anche un'urbanistica adatta alla vita sociale,
fatta di piazzette, slarghi, luoghi di ritrovo, dunque il clima
di una vita animata, ma discreta e raccolta, rendono S.Jago simile
a Oxford e Cambridge.
Al museo dei pellegrini c'è una straordinaria mostra di
fotografie fatte in un villaggio di contadini della Russia sulla
religiosità del popolo. Come è possibile fare la
Storia senza la veridicità dell'immagine fotografica?
D'improvviso un altro colpo di martello su un chiodo che non
avevo messo nel mio programma di viaggio. Il caso non è
forse così cieco come si dice. Chi poteva mai pensare
che avevo dato per nome a mio figlio quello dell'apostolo di
cui oggi ho venerato la tomba?
Lasciamo S.Jago e la Spagna. Una nebbia fitta sale dall'oceano
e un vento gelido soffia su povere case di poveri paesini portoghesi.
Lungo la strada si procede a passo d'uomo; tutto mi ricorda il
nostro mezzogiorno. Provo un senso di sofferenza. I volti della
gente, così diversi da quelli dei giovani universitari
di poche ore prima, è identica ai poveri contadini di
tutto il mondo. Se solo Marx e Lenin avessero detto "contadini
di tutto il mondo unitevi"!
A Viana do Castelo inizia la storia antica del Portogallo e,
di fatto, anche il nostro viaggio turistico come previsto. Viana
è una cittadina la cui bellezza "prosaica" è
segnata da una pietà religiosa popolare. Nelle sue chiese,
santi, angeli, anime del purgatorio mi ricordano moltissimo il
teatro dei pupi e le raffigurazioni della Gerusalemme Liberata
sui carretti siciliani.
Il cosa e il come si percepisce dipende sempre dal chi e questo
ovviamente vale anche in viaggio. C'è una parte di esso
che è frutto di un progetto, di una motivazione, di qualcosa
che si desidera più o meno chiaramente ed intensamente;
ed una parte non secondaria che è frutto della capacità
di assecondare la realtà, le circostanze, quanto sembra
offertoci dal caso. In questa seconda ipotesi la disponibilità
costante, personale, l'esperienza, il fiuto nel riconoscere e
nel dare la stessa importanza a tutto, a certi particolari rappresenta
il necessario ed insostituibile complemento di quanto è
costituito dalla struttura del progetto originario. Si tratta,
in fondo, della banale applicazione del rapporto tra noi e gli
altri e l'altro.
A Viana do Castelo, ad esempio, questo ci è capitato quando
io e Grazia ci siamo intromessi nella cappella di una confraternita
durante un matrimonio. Al di là delle circostanze apparentemente
eccezionali, solo per caso, ossia grazie alla mia spudorata maleducazione
e curiosità nel seguire il procedere frettoloso di alcuni
ritardatari vestiti per la circostanza, ci è stato offerto
uno "spettacolo": del rito, del coro, dei costumi della
confraternita, l'offerta dei girasoli agli sposi da parte di
bambini, l'opulenza dorata dell'altar maggiore. Uno spettacolo
rubato, in un paese dal "tono" non povero, ma certo
modesto, alla tolleranza distratta degli altri due amici rimasti
fuori per stanchezza o per educazione, non so dire.
Sostiamo qui a Viana in un camping spartano sotto grandi eucalipti
con i servizi nei box di una vecchia scuderia. Facciamo la doccia
in uno di questi appartenuto a qualche ronzinante.
10 agosto.
Braga: questo è il Portogallo! Certo la breve esperienza
precedente mi può aver spinto ad una certa enfasi a causa
dell'evidente contrasto, quasi che questo paese, a chi vi giunge
dal nord, voglia presentarsi e svelarsi gradualmente con modestia.
Qui, al di là del fascino di questa antica città,
con una urbanistica inaspettatamente razionale, illuministica,
ricca di monumenti, di chiese, circa 70, di palazzi di una barocco
sobrio, luminoso, misurato, ho forse compreso (presunzione della
percezione turistica!) il livello ancora alto della qualità
della vita portoghese, se mai fosse confermata e risultasse diffusa:
serena, ricca di umanità, tranquilla, ma volta alla piacevolezza.
Le fontane ovunque, l'alberatura ai lati o nel centro delle strade,
le piazze, i chiostri, tutto curato, la passeggiata, la vita
dei caffè come nella Napoli di una volta, a sottolineare
un gusto, una cultura, un "modello di vita", che presuppone
la capacità di amarla. Una cultura e un'arte architettonica
di non alto livello, periferica rispetto al resto dell'Europa;
fa eccezione la cattedrale o "Se" (se-des episcopi),
di un romanico austero, ma profondamente religioso. Così
mi immagino Lisbona.
Giungiamo a Bom Jesus do monte con la scenografia delle stazioni
della via crucis lungo la scalinata, nel fresco del bosco e delle
fontane, nella felice idea della forma e della simbologia barocca,
una gioia dello spirito anche religioso, della stessa religiosità
popolare già vista altrove, ma gioiosa come è il
sorriso e la lingua di questo popolo.
Guimaraes. La visita al castello dove è nato il primo
re di Braganza e della chiesa dove egli fu battezzato sembra
ribadire una strana somiglianza con l'Inghilterra: non è
solo il paesaggio nel verde, la forma e il materiale delle costruzioni,
ma forse il carattere antico delle città, come se il mondo
moderno ne fosse direttamente generato senza rinnegamenti e discontinuità.
La pietra di granito è il connettivo di ogni costruzione,
di ogni opera, modesta o regale, chiesa, casa o fortezza. Presto
si ricopre di licheni. Il granito certo non basta a rendere simili
paesi così lontani, o la piovosità e il verde del
paesaggio; c'è qualcos'altro che per ora mi sfugge.
Nel centro storico, ai piedi delle fortificazioni e del castello,
il largo Oliveira ne ribadisce tutti questi caratteri medioevali,
ma vivi. Qua e là documenti, tessere di una storia politica
ed economica, difficilmente ricomponibile, specie quella più
recente nel passaggio dalla protezione francese a quella inglese
e all'ombra aurea di un regno del Brasile generato dalle rivalità
intestine e parricide o fratricide come del resto è in
tutta la storia di questo lembo di penisola rispetto alla Spagna,
alla "reconquista" contro i mori, ma anche all'impero
coloniale.
Vorrei rimanervi fino a buio per centellinare meglio nella suggestione
notturna questo sentimento di rilassata piacevolezza.
Sostiamo al camping di Porto, zeppo di italiani con la più
vasta campionatura, non solo di soluzioni tecniche alle esigenze
del viaggiare e del campeggiare, ma soprattutto dell'esigenza
stessa del viaggiare: è naturale che in ogni attività
umana, specie quella d'evasione, siano presenti tutti tipi umani.
Chi volesse ridurli a due o tre compirebbe un gravissimo errore
di analisi, di metodo e di contenuto. Mi colpisce soprattutto
chi sembra dimostrare completo disinteresse verso ciò
che lo circonda alla stessa stregua di chi, pur inanellando,
a mo' di record, elenchi di città o luoghi "trapassati"
velocissimamente, cioè i collezionisti delle figurine
ovvero degli adesivi delle località, ugualmente non ha
visto niente, tanto è preso dalla fretta di raggiungere
la prossima meta, che spesso è anche molto lontana.
11 agosto.
Porto. L'arrivo in tram nel centro della città, proprio
nelle vicinanze di Piazza della Stazione, mi dona la consueta
euforia. La città appare certo bella (l'edilizia qui ricorda
quella del 700/800 francese), ma soprattutto mi sembra rispondere
ad una moderna razionalità, non senza una scenografia
barocca; infatti al culmine delle molte strade che vi convergono
in discesa c'è una chiesa. La stazione ferroviaria, per
quanto decorata di azuleios, mi affascina per la galleria e le
colonne in ghisa, ma più ancora per la funzionalità
moderna della sua collocazione fin dentro il cuore della città,
non diversamente da quella fiorentina di Santa Maria Novella.
Così anche è per il mercatino di frutta, verdura
e pesce che si trova tra la stazione e il duomo e che sfrutta
uno slargo del colle che incorona dall'alto la zona antica del
porto.
Nel duomo romanico, posto sul culmine del colle, e nel suo chiostro
il gregoriano mi accompagna mantenendo alta la prima commozione.
Scendo per ripide stradette, quasi identici ai carrugi genovesi
e ai vicoli napoletani; non è difficile ritrovare nelle
città portuali del mondo antico, del mediterraneo (anche
se qui siamo nell'estuario del Duoro, davanti all'oceano), caratteri
comuni, persino nel loro attuale degrado. L'Hilton, all'angolo
di uno di questi vicoli, mi fa ben sperare; ne traggo un ennesimo,
ingenuo augurio che il mezzogiorno del mondo possa presto tornare
ad essere vissuta dalla parte migliore della città-civiltà.
A San Francesco, ricoperto d'oro, in una scenografia kitsch,
dove la cultura degli indios pare essersi trapiantata nella madre
patria, il poverello d'Assisi è stato abbandonato anche
dal popolo che la deserta da sempre.
Dal
quartiere colorito del porto passiamo, attraverso l'ardito ponte
in ghisa di un discepolo di Heiffel, a quello della cantine delle
grandi case vinicole. In altre città i granai, qui il
vino a segnare l'antica e attuale importanza di un prodotto che
diventò strategico nella politica di fine settecento.
Che la sorte economica e politica di una paese, che aveva un
impero coloniale in tutto il mondo, possa essere dipesa dal vino,
deve far riflettere. Oggi qual è il nuovo vino per gli
attuali padroni del mondo? Se poi scopriamo che il vino porto
è un'invenzione inglese, resa necessaria dalla correzione
col brandy di un vino che non reggeva il viaggio in mare, dobbiamo
ancor riflettere sull'importanza dei particolari nella sorte
del sistema economico di una paese.
Usciamo comunque dalle cantine di Calem in stato di euforia,
se non di ebbrezza, e con diverse bottiglie di rosso "fine
ruby". Ora capisco da dove sia sorta la forza e il coraggio
flemmatico dell'ammiraglio Wellington a Trafalgar contro Napoleone.
Ancora una volta l'importanza della micro-storia o della storia
materiale, sia pure di scuola francese!
Il percorso in tram mi permette di osservare quanto sia grande
per i portoghesi l'amore per i bambini e la famiglia. Il modo
di giocare anche dei padri con i loro piccoli in collo, non diverso
dalla conversazione giocosa sui balconcini di casa, sono segni
ulteriori di un modello di sviluppo di un paese che per quanto
partito in ritardo vive la c.d. competività riuscendo
a salvare certi fondamentali valori umani.
Se la persistenza del latino nella lingua portoghese ovviamente
non mi sorprende, soprattutto nelle desinenze, mi emoziona quasi
il saluto di una persona che, appena sussurrandolo, mi dice:
"Vale".
12 agosto.
Esploriamo la valle del Douro fino a Lamego per avere l'impressione,
più che la misura, di cosa e quanto stia dietro il vino
porto. E' una valle verde lungo un fiume ricco d'acqua, di boschi
e vigneti, con piccoli e modesti paesini. Si ha l'impressione
di un'agricoltura contadina, quasi povera, frammentata, certo
non latifondista né intensiva.
Giungiamo a Lamego a sera. Sul colle c'è una chiesa al
termine di una scalinata simile a quella di Bom Jesus. Dormiamo
vicino al palazzo vescovile e al duomo romanico dopo aver cenato
nell'unico locale ancora aperto verso le 23; cerchiamo di convincerci
che il bacalao e i ceci lessi se fossero stati conditi col nostro
olio sarebbero stati commestibili. L'una falsità non esclude
l'altra. Resta per noi il mistero di come una paese latino possa
utilizzare un olio d'oliva non molto diverso da quello industriale,
chiamato lampante, una volta usato per illuminazione.
13 agosto.
Coimbra. Bella la
chiesa romanico-normanna su basi moresche e il chiostro; la cittadella
universitaria e in particolare la biblioteca dell'antico rettorato.
Mancano purtroppo gli studenti così che il confronto con
altre antiche città universitarie non si può fare.
Resto tuttavia suggestionato dall'idea di un'Europa molto più
unita di quanto vecchi e superati nazionalismi possono ancora
far pensare. Del resto anche la distanza tra la civiltà
romano-cristiana, di cui l'Europa è espressione, e la
civiltà araba, di cui la porta della Medina e il quartiere
arabo sono qui ancora visibili testimonianze, per quanto oggi
ancora lontana sarà anch'essa destinata a scomparire,
quando inevitabilmente si fonderanno in una nuova visione della
vita e del suo senso, unitario per tutti.
Monastero di Batalha. Qui grazie alla vittoria sugli spagnoli
(regno di Navarra e Castiglia) nel 1385 nasce la nazione del
Portogallo; qui, infatti, ci sono le tombe dei primi reali, Joao
I° e sua moglie Felipa e c'è un simbolico monumento
al milite ignoto, una lapide tombale sul pavimento, presidiata
da due soldati. Ogni confronto, spontaneo, con il monumento di
Roma al milite ignoto della prima guerra mondiale è forse
fuori luogo, per evidenti motivi storici. La chiesa gotica è
grandiosa e disadorna e ha due chiostri di cui uno immenso anch'esso
gotico ma con una fontana dalle evidenti reminiscenze arabe,
simile a quella di Monreale.
Il successivo monastero di Alcovata è anch'esso del '300
in stile benedettino cistercense, tutto di pietra bianca come
il saio e lo spirito della regola. La navata centrale lunga ben
105 metri, completamente disadorna, mi suscita una emozione di
straordinario raccoglimento. Vengo a sapere subito dopo che,
al grandissimo merito che i monaci cistercensi ebbero, come altrove,
nella bonifica della regione e del successivo sviluppo dell'agricoltura
del paese, essi divennero presto così numerosi, più
di mille, e così ricchi da concentrare ogni loro interesse
per la crapula. Cerco di immaginare la loro cucina e il lavoro
dei cuochi per preparare ogni giorno banchetti così luculliani
da scandalizzare fino al punto che il convento venne chiuso.
La chiesa ci presenta queste contraddizioni fino al punto da
farci accettare il suo messaggio di amore e di liberazione nonostante
"tutto". Del resto lo stesso insegnamento ci viene
offerto dalla storia del suo potere temporale.
Il viaggio già sente il profumo di Lisbona e non so se
sia solo per stanchezza ma il desiderio di fermarmi per qualche
giorno, per "ascoltare" di più e meglio, per
riflettere, per capire, si fa ora molto forte.
A sera facciamo sosta ad Obidos, poco oltre la consueta stazione
dei "bomberos". Non i carabinieri o la polizia, ma
i pompieri abbiamo trovato in ogni più piccolo paese!
Perfettamente conservata questa cittadella murata ci regala una
splendida scenografia. Oltre la porta d'ingresso del paese, le
case bianche adorne di gerani e buganvillea, hanno gli spigoli
e i contorni delle finestre decorati d'azzurro o di giallo; una
festa di colori che mi accompagna, all'imbrunire, fino in cima
al castello. Da qui in un momento di grande quiete, osservo il
castello illuminato discretamente, come le mura merlate e i suoi
camminamenti silenziosi. Obidos è forse lezioso come ogni
luogo di particolare fascino e attrazione turistica, ma credo
che a ciò non ci sia alternativa.
14 agosto.
Lisbona. L'estuario del Tago è così largo che dà
a Lisbona e al suo porto, con la luce e il vento che gli sono
propri, l'impressione di vivere sul mare. Giungendo dal nord
è evidente come questo popolo da sempre costretto dalle
montagne e dalla lotta per la sua indipendenza dagli Stati vicini,
dinanzi all'oceano non poteva che avventurarsi nell'esplorazione
del mondo allora sconosciuto. L'antica torre faro di Belem, il
recente monumento eretto dalla patria ai propri navigatori ed
esploratori, il museo della marina (molto interessante e di pari
importanza di quelli londinesi) sembrano ancora ricordare le
glorie marinare; cioè di un passato che, oggi, perse le
colonie, nel momento stesso del recupero della democrazia, non
ha tuttavia più senso.
Il Portogallo mi appare impegnato in uno sforzo di ammodernamento,
ad iniziare da una sorprendente efficiente rete stradale, che
parte da una nuova presa di coscienza della propria condizione
e del proprio futuro: non più rivolto verso gli oceani
e i suoi anacronismi. Esso, per la prima volta, guarda realisticamente
all'Europa, e non più in termini antagonistici partendo
dunque dalla presa d'atto di una realtà totalmente diversa,
tecnologica, economica e politica. Credo che guardi giustamente
con dignità e fierezza, che del resto ha sempre avuto,
ma soprattutto con i suoi valori e qualità umane. Valori
e qualità che pur con lo sguardo superficiale e fuggevole
da turista colgo di continuo nella gente. Il secolare confronto-scontro
con la sorella Spagna resterà uno snodo cruciale destinato
ad essere superato e credo che insieme questi due paesi rappresenteranno
un grande motore di rinnovamento dell'Europa, soprattutto per
il loro patrimonio di civiltà, di calore spontaneo, di
generosità e di intelligenza creativa, ma anche di misura,
di cui la fede ha sicuramente una parte fondamentale, contro
le più pericolose degenerazioni della società moderna.
Lisbona è una città in gran parte moderna; il centro
storico, il cui cuore è la piazza del commercio, fu distrutto
dal terremoto e dall'incendio del 1775 e fu ricostruito volutamente
in pochissimo tempo, tanto che esso appare, diversamente dalla
altre città fin qui visitate, privo di qualità
e spessore antico. Ad eccezione del monastero di Gerolamo, straordinario
(ma anche a causa delle due tombe, di Vasco di Gama e di Camoes,
fonte ispiratrice di un banale e puerile gioco imitativo, il
cui culmine "poetico" è espresso nel verso "O
oceano, o Portugal" recitato in tutte le sue possibili varianti
espressive), il centro mi è parso deludente. Ma è
anche assurdo pretendere di visitare la città di Pessoa
e sperare di coglierne lo spirito la seconda Domenica di agosto:
completamente chiusa e deserta!
15 agosto.
Secondo giorno a Lisbona. Giornata dedicata alla parte antica
della città, con partenza dalla casa natale di Sant'Antonio
da Lisboa (il luogo venerato della morte è stato fatto
prevalere su quello della nascita, se è diventato da Padova!)
vicino alla cattedrale, in romanico francese e con le tombe reali
di Alfonso IV (1325) e della moglie Dona Brites. Ho avuto l'impressione
che le donne lusitane, non diversamente da quelle spagnole (il
vero re era Isabella di Castiglia) siano state sempre molto considerate,
autorevoli come mogli, madre e regine.
Saliamo al castello e al borgo che lo circonda: il panorama è
splendido, sia verso il Tago che verso la città moderna.
All'ombra serena dei lecci, i rumori lontani del porto e della
città mi evocano impressioni partenopee. Il borgo tutto
intorno è un fervore di restauri. Come sono lontani le
rigidità del restauro conservativo italiano! Qui c'è
il bisogno di un rapido recupero, certo per interessi turistici,
ma soprattutto, partendo dal decoro della città antica,
per ritrovarne anche la dignità dell'apparire.
Il miraduro di Santa Lucia sottolinea ancor più la assonanze
cromatiche dei panorami napoletani ed è tale la gioia
che suscita da riappacificarmi con la città di cui comincio
a temere che non ne coglierò nemmeno il profumo. Il vicino
quartiere arabo di Alfatama, pittoresco e vivo nonostante l'assolato
pomeriggio festivo, ma degradato, aspetta impaziente il suo pieno
recupero. Qui visitiamo il museo delle marionette. Vi lascio
scritto un banale pensiero sullo stupore e sulla lieta fantasia
dei bambini e di quei pochi grandi che sanno rimanere tali nello
spirito. L'emozione è tale che mi piace pensare finita
qui la visita a Lisbona.
16 agosto.
La mezza giornata di riposo nello splendido campeggio di Lisbona
ci ha rigenerati, ritemprati dalla stanchezza per i continui
spostamenti a piedi nel caldo torrido del pomeriggio e dalla
delusione per la difficoltà di raggiungere altre possibili
mete, dislocate a distanze eccessive l'una dall'altra, e comunque
chiuse per il ferragosto.
Sintra. Vicino a Lisbona, in un paesaggio collinare e boscoso,
questa cittadina, con un'architettura di impronta francese, piena
di giardini fioriti ricorda certe stazioni del turismo internazionale.
Per la storia, gli arredi e gli splendidi azuleios, il castello
di villeggiatura dei re del Portogallo risulta molto interessante.
Resto più prosaicamente ammirato dalla cucina con reminiscenze
pantagrueliche, meno bella e suggestiva di quella della Certosa
di Padula (Sa), ma con due cappe coniche altissime (che nell'avvicinarmi
alla reggia mi avevano già incuriosito per la inusitata
forma) e sotto le quali si è avvolti da un colore fiabesco.
Più ancora del vicino Palacio da Pena costruito in stile
neogotico dall'ultimo re consorte Ferdinando Coburgo-Gota (molto
interessante come testimonianza di un arredo aristocratico di
fine ottocento), il castello dei Mori, arroccato sul crinale
della montagna ed emergente da un bosco fitto e profumato, mi
appare pieno di suggestioni storico-culturali e poetiche.
Cabo de Roca. Giungiamo prima del tramonto ad una delle mete
simbolo del nostro viaggio, quella punta estrema del mondo occidentale
affacciata sull'oceano. A 200 metri a picco sul mare il faro:
lì dall'antichità. Vento gelido e gabbiani volano
su una prateria di Barbe di Giove. Punta estrema dell'Europa,
ma per chi una volta affrontava le onde e le correnti dell'oceano
era l'estremo lembo del mondo, l'ultima sicurezza: uno struggimento,
una preghiera! Qui sul picco, al vento gelido, un portoghese
suona la cornamusa. E' nera e il vento ne fa svolazzare i lunghi
peneri. Lo ascolto commosso: canto d'amore o più alta
preghiera; quale che ne sia la fede. Comunque "l'inno alla
gioia", all'infinito, fonte di vita perenne. Le modulazioni
della musica paiono non finire mai, mentre io vicino a lui esito
a ringraziarlo. Dopo mi risponde più volte "Mui obrigado",
mentre mi guarda fisso negli occhi ed uno strozzo di commozione
mi toglie ogni altra parola, quasi che, disarmato davanti a simile
sacerdote, la felicità mi traboccasse. E' la seconda volta
che, colmo di gioia, sento che questo luogo e questo momento
possono acquistare il valore simbolico di una fine, fors'anche
quello della imprevista ma felice conclusione del mio incontro
col Portogallo, cui nulla può aggiungersi anche se il
viaggio continua.
Festeggiamo il mio compleanno con una cena deludente.
Facciamo sosta notturna ad Evora.
17 agosto.
Evora. Antica capitale dell'Alentejo. Cinta di mura con alcuni
importanti e antichi monumenti; l'unico tempio romano del Portogallo.
Cittadina silenziosa, ordinata, pulita, con le solite case bianche
con ornamenti gialli o azzurri alle finestre, alle porte agli
zoccoli e agli spigoli. Uno straordinario negozio di finimenti
per cavalli e per l'equitazione mi ricorda l'avvicinarsi all'Andalusia
e dei suoi culti maschili. La vita scorre tranquilla, in modo
dignitoso e civile; un modello per il nostro sud.
Ripartiti attraversiamo una regione del tutto diversa dalle precedenti:
prima, tutta a grano con masserie circondate da covoni e barche
di paglia; castelli e piccoli paesi bruciati da un sole implacabile;
poi, un lungo tratto a quercia da sughero. Qui il paesaggio è
rimasto antico, anzi arcaico, inevitabilmente pieno di reminiscenze
classiche. Infine giungiamo di nuovo al mare.
Al termine di un tavoliere con macchia mediterranea, spazzata
dal vento gelido, lo strapiombo orrido dell'oceano. L'erosione
ha creato una costa di falesie, frastagliata, ricca di grotte,
faraglioni. L'azzurro cupo dell'acqua che sbatte con onde altissime
contrasta col colore rosso della roccia. A Capo S.Vicente (che
storia quella del culto di San Vincenzo, così simile a
quella di S.Jago!) altro faro.
Altra punta simbolo del protendersi dell'Europa verso l'ignoto,
l'immensità; altra straordinaria emozione. Il paesaggio
è ancora più bello di quello di Cabo de Roca; vorrei
non staccare lo sguardo finché il sole non sia precipitato
all'orizzonte. L'aria gelida toglie il respiro, ma è come
se liberasse l'animo dalle scorie di ogni stanchezza e per un
attimo anche da ogni preoccupazione che mi porto sul groppone.
Cerco invano un villaggio di pescatori dove fermarmi coll'immaginazione
per un lungo tempo di riflessione; così necessaria specie
ora che ho cessato di lavorare.
18 agosto.
E' l'alba. Dal finestrino del camper scorgo lontano, al termine
di un viottolo che s'inoltra nella bassa macchia mediterranea,
l'oceano. Non vedo a perdita d'occhio segni di presenza umana.
Il sole deve ancora sorgere. Quel buco che avevo scoperto alla
vigilia della partenza sembra ora riempirsi, mentre il vento
freddo e forte fischia tra i rami di palma che si flettono sul
tetto del camper con unghiate sorde, mi invita alla preghiera
del mattino. Mentre gli altri ancora dormono, dalla finestrina
che ho aperto entra aria fresca. Ascolto il canto di piccolissimi
uccellini neri che entrano ed escono dalla macchia.
L'oceano si sta lentamente colorando, così come ieri sera
s'era illuminato con la luna piena.
Attraversiamo l'Algarve, ricca di piccoli centri storici: Lagos,
Portimao, Sagres, Faro, Tavira, Silves. La costa tuttavia è
ormai cementificata da un turismo di massa, brutto come quello
di tutto il mondo, da mezzogiorno. Scappiamo delusi, altro che
villaggi di pescatori! L'omologazione turistica, urbanistica
ed edilizia rende l'uomo ovunque uguale negli aspetti peggiori,
facendone perdere l'identità e la storia.
Il centro storico di Faro certo si salva chiuso dalle vecchie
mura, ne è testimone sul campanile la cicogna sul suo
enorme nido. All'ingresso del suo Duomo saluto l'ultimo cane
portoghese che lì dorme proteggendosi dal sole all'ombra
del portone. I cani in Portogallo non ci hanno mai abbandonato,
come i Bomberos. non sono di razza visto che paiono vagare quasi
fossero randagi. Sonnolenti si spostano all'ultimo momento come
quelli di Ponza. Di taglia media, a pelo corto, marrone chiaro,
col muso da segugio, con gambe lunghe da grandi camminatori,
alla continua ricerca di cibo, di riposo o di affetto, credo
rappresentino ancora per poco ciò che resta della storia
antica di un popolo.
Il viaggio finisce veramente qui. Tavira col suo borgo e l'antico
ponte romano, a sera, ci regala l'unica cena degna di essere
ricordata. Ne usciamo brilli, certo di vino, ma anche consapevoli
di essere giunti al confine.
Da ora in poi non ci fermeremo più fino all'arrivo.
19 agosto.
Inizia il ritorno.
Comincio a sentirmi stanco e a desiderare il ritorno a casa,
anche con i suoi problemi; anzi il ritrovare i soliti, vecchi
problemi fa parte di quel qualcosa di autentico, più in
generale della realtà della vita, da cui non si può
fuggire se non per poco.
Oltre un certo limite, viaggiare per vivere la sofferenza della
fatica, del caldo, del rumore, dei grandi numeri, i chilometri,
quelli delle chiese, dei castelli e dei musei visitati, è
autolesionistico. Il ciclo naturale del vuoto e del pieno in
verità ruota tra l'alternarsi dell'autentico col falso,
della gioia con la noia e stanchezza, e così via. Quando
si sente il bisogno di ritrovare la sorgente familiare di ciò
che è autentico vuol dire che il viaggio non ha più
senso, ha perso cioè la sua meta, o più semplicemente
è finito.
Il marinaio che tornava a casa dopo aver attraversato gli oceani,
si buttava sul letto di casa e dormiva profondamente, per quante
cose ci fossero da fare e vedere fuori casa. La sua casa, il
suo letto, la sua famiglia sono le cose che danno il senso alla
vita anche quando si sia compiuta l'impresa più eroica,
la scoperta di nuove terre o se solo si sia vinta l'ira dei mari.
Se il viaggio in Portogallo è terminato, per il ritorno
c'è ancora da percorrere un lunghissimo tratto di strada
attraverso tutta la Spagna, del tutto nuovo per me, oltre quello
attraverso la Provenza; e per quanto sia stato deciso giustamente
di non fare soste o deviazioni, ciò che posso vedere è
ancora tanto e ne sono contento. La lezione sulla storia del
paesaggio agrario di Emilio Sereni mi è ancora preziosa,
specie quando per un intero giorno si ha la possibilità,
come ho avuto io, di osservare, sia pure dal finestrino, in modo
esemplare da manuale, pressoché per intero, il paesaggio
agrario della Spagna: dell'Andalusia, della Mancia fino a Valencia,
della Catalogna.
Come è strana la storia dell'uomo! Il latifondo della
aristocrazia spagnola da freno allo sviluppo quale è stato,
sembra a chi lo vede oggi per la prima volta, essersi in breve
tempo trasformato in una felice condizione di modernità
e di ricchezza. Trecento chilometri a grano, poi col mutare delle
condizioni ambientali altrettanti ad agrumeto, ed infine altrettanti
a uliveto. Non la polverizzazione del patrimonio fondiario che
la conduzione contadina e l'ostilità della natura ha creato
nei secoli in Italia, non una casa, ma filari di piante disegnate
con geometrica razionalità.
Non mi chiedo tanto quale possa essere il tallone d'Achille di
questa potente agricoltura (i difetti presto diventano pregi
per chi non sa più distinguere la qualità, tanto
da preferire ciò che non ha sapore o che ne ha uno peggiore,
come è per le arance, di vainiglia dolciastra, o per l'olio,
non molto diverso da quello portoghese).
Nel tornare a casa, mi chiedo piuttosto quale è, per noi
italiani, la condizione di arretratezza strutturale che ci permetterà
inaspettatamente di rifiorire? Penso alla nostra storia e ai
suoi mille campanili di paese, alla vita di borgo tra la campagna,
in parte ancora contadina, perché non può essere
più moderna, tra panorami che la natura oggi svela non
più ostile, ma grande risorsa per la condizione di vita
e per lo stesso modello di sviluppo. E allora penso, con la stessa
ingenua fiducia che non mi abbandona mai, che un giorno non lontano
quando la tecnologia nella nuova economia avrà consentito
a tutti gli abitanti dei nostri piccoli paesi di lavorare a casa
propria, senza più la maledizione del suo abbandono, allora
i poveri saranno invidiati; non perché più ricchi,
ma perché migliore sarà la loro condizione di vita. |