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Impressioni sul viaggio in Portogallo: agosto 2000
 

Il vuoto di viaggi all'estero, e ancor più in paesi lontani, che mi si è scavato dentro in tutti questi anni, si è venuto riempiendo di un'immaginazione sempre più labile, quasi che il desiderio una volta così forte e fervido oggi si sia del tutto affievolito. Anche ora, alla vigilia di questo viaggio in Portogallo, vorrei restare, non certo per l'inaspettato invito a parteciparvi. Il tempo mi ha radicato nel profondo la tenace pianta dell'insicurezza o forse di un frutto diverso, del desiderio di altro tipo di viaggio, quello che procede lentamente nel breve e silenzioso raggio della terra che mi circonda. Quasi soltanto qui si fosse ristretta, se non asciugata, l'emozione, e non solo perché l'enfasi stonata di cose grandi ci spinge al contrario verso le piccole e le semplici.
Ma allo stesso tempo pare, al solo pensarci, improvviso zefiro d'umore, sbucare l'antica vigoria, la voglia di scoprire quanto, proprio a causa del veloce consumarsi di apparenze, di vuoti miti, di nuovi riti, ci aiuta a rafforzare le poche cose che ci donano il senso della vita.
So bene che appena il viaggio sarà iniziato, quasi d'incanto, tutto ciò verrà capovolto: svaniranno le insicurezze, le pigrizie anchilosate, i reumatismi dell'animo che dolgono di notte quando v'è il passaggio dal sonno lieve all'ascolto del buio, a quella rapida e confusa ricognizione delle preoccupazioni quotidiane; così è al mattino, quando il sole e il fresco vento marino diradano la guazza notturna che arrugginisce ogni giuntura del corpo.
So bene che giunto al confine, anche se sul suolo ne hanno giustamente cancellato i segni, le linee una volta insanguinate, l'ascolto di un'altra lingua mi farà balzare con un moto di lieto stupore, un felice turbamento. Così è ogni volta come quando, ancora liceale, l'udii a Chiasso. Fin da allora pare di consociarmi ad una umanità eletta; sentimento che oggi, ne sono certo, nonostante l'abuso, non s'è inaridito. Non so cosa susciterà domani nel cuore di Lorenzo; so tuttavia che un altro nipote, circa trenta anni fa, proprio lì, nella penisola iberica, di poco s'accorse; già non volgeva più lo sguardo incuriosito e stupito, quasi avesse già percepito che più nulla cambia oltre quelle linee o sbarre, là oltre le bandiere d'altri.
So bene anche che giunto alla "finis terrae", d'innanzi al grande oceano, mi sentirò per un attimo come tanti altri, piccolo e coraggioso, debole e forte, umile e superbo; ma so anche che poi la stanchezza lentamente m'avvolgerà nel suo fumo e subdola rispunterà la nostalgia. So bene come tutto procederà; qualcosa alla fine, certo, sarà precipitato in quel vuoto: piccoli granelli di colore diverso che segneranno ancora per poco l'impronta di un ricordo, simile a foglia o traccia di lombrico sulla sabbia fossile.


6 agosto Domenica ore 18,30.

Abbiamo anticipato la partenza al pomeriggio. Nella consueta agitazione e davanti ai parenti, nonni e figli, in trepidante e augurante saluto come a ragazzi al loro primo viaggio, mettiamo in moto il camper.
Abbiamo lasciato da qualche parte la caffettiera: occasionale simbolo della nostra fragilità, della difficoltà a rinunciare anche solo per poco alle abitudini compensatorie. E' come se d'improvviso fosse cambiato l'oggetto dei nostri desideri. Ma è come un vecchio entrobordo: al primo colpo di pistone, con la prima zaffata di fumo nero, scompare ogni vecchio residuo.
Il tratto italiano, pur così bello, è attraversato con occhi distratti, stanchi. Di fronte alla meta così lontana e auspicabilmente diversa, quella vicina, domestica si sfuoca; lo stesso mare che ci accompagna è così diverso da quello segnato dal mito o da quello della nostalgia. L'obiettivo della nostra attenzione, la sua capacità naturale di suscitare la memoria resta come chiuso: stranezze della mente umana. Alla partenza, per la durata del distacco, lo sguardo non riesce a mettere a fuoco gli oggetti secondo il loro intrinseco valore. L'abitudine vera o presunta finisce per farci disamorare presto di ciò che di più bello e caro ci sta a fianco.
Mi lascio trasportare.
La notte giunge presto in terra francese, là dove la razionalità degli antichi romani nel comunicare, nell'avvicinare le terre del dominio e nel costruire strade, pare essere rinata in veste moderna. Lo conferma anche l'area di sosta dell'autostrada dove ci fermiamo; un piccolo camping. Che attenzione per il viaggiatore! Ogni suo bisogno informativo, di tutela e funzionale ci appare frutto di una accurata e creativa progettazione. Oggi si direbbe: "la qualità del servizio".


7 Lunedì.

Non mi sono accorto che la frontiera con i suoi vessilli e i suoi gendarmi non ci sono più. Mi sento europeo come 2000 anni fa poteva sentirsi un civis romanus nella pax augustea o un pellegrino 1000 anni addietro. La Provenza sempre sognata: classica, medioevale, moderna. Rivedo subito i paesaggi e i cromatismi di Cezanne, Van Gogh, Matisse, di quanti venendo dal nord qui furono folgorati dalla luce; lo è anche per me italiano! I suoi colori sono straordinariamente vivi, assoluti, puri. Si comprende come nell'arte basti saper osservare e svelare ciò che esiste.
E' una lunga tappa di trasferimento, ma sento questa terra vicina, familiare; ogni cosa, il sole, il cielo, la macchia mediterranea, le vigne, l'azzurro caldo del mare, le montagne, le stesse case, li sento miei. E' strano riscoprire altrove la bellezza della vicinanza! Esulto come un ragazzo. Guarda là, guarda laggiù! Scopro ciò che ho sempre visto con l'immaginazione, che ho sedimentato nella conoscenza certo superficiale di una vita. Quanti confusi spezzoni di storia, di letteratura, di arte! Basta avvicinarsi alla cosa amata, che è anche quella più conosciuta, per essere felice. Ma pure adesso sono costretto a salutarla da un finestrino in corsa. Vorrei sostarvi e procedere con la lentezza del mio passo!
Lascio dietro di me Arles e immagino i quadri di Van Gogh; mi pare di riconoscere il massiccio tante volte dipinto da Cezanne nella diversa luce delle stagioni e del giorno. Aix Provence così cara ai romani, persino Tarascona. Non ero preparato a vedermela dinanzi. Mi sono riapparse subito le incisioni del Tartarino di Daudet con l'immancabile fucile nelle sue avventure di caccia così confusamente simili alle nostre piccole utopie e ai nostri puerili progetti. Poi Avignone, Carcassonne e le mura di Violet Le Duc e la strage dei catari.
Tutto un tumulto di desideri, di vecchie emozioni, credute sopite, ancora una volta solo sfiorate, suscitate e subito soffocate in uno strano sentimento di nostalgia per ciò che resta un desiderio. Altre volte m'è parso persino più bello conservare intatto il segreto del mio innamoramento quasi che a causa della rinuncia esso m'apparisse ancora più forte.
La mia stessa vita mi appare così, come se di fatto fossi impossibilitato a scegliere, o meglio costretto a non percorrere la strada del sogno; e per quanto questa forse si identifichi con quella della sciocchezza, della dimensione puerile, ciononostante tutto finisce per farmi credere che contemplare l'oggetto del sogno sia persino più affascinante che viverlo.
Sono diretto altrove e sogno d'essere qui nel sud della Francia. Del Portogallo, infatti, non so quasi nulla, è veramente la fine del mondo; ma è li che dobbiamo andare. Sono persuaso persino che volerla conoscere, l'avvicinarsi ad una meta così lontana sia più che un atto di coraggio o di fede, di superficiale presunzione.
Il buio di quel vuoto iniziale per un attimo è attraversato da raggi di luce.
Urliamo il motto di inflessibili ed impietosi crociati: -"Diritti verso il golfo di Biscaglia, a noi San Sebastiano!"-
Così anche di Carcassonne non mi resterà che il trofeo di una foto da appendere ad un muro. Aspettami, un giorno forse tornerò!
All'imbrunire sfioriamo Lourdes. Sappiamo che è lì vicina, nel verde, ai piedi dei Pirenei. Come è flebile, quasi ridicola o blasfema la mia fede! Basta il confronto con quel gruppo di giovani che stamattina alle sette pregavano in ginocchio, in cerchio. Mi sono sentito mortificato, come umiliato. Ho pensato: "Forse andranno a Lourdes o a S.Jago di Compostela. Certo il loro viaggio verso il Cristo non si baserà su una grande dottrina, ma la fede è già di per sé conoscenza e amore. Il turismo dovrebbe essere così, almeno in parte.
Superata Biarritz, ci fermiamo a notte in un'area di sosta sull'autostrada, vicino a S. Sebastiano.


8 agosto.

Stamattina svegliandoci abbiamo incontrato di nuovo il gruppo di pellegrini, sono di Pordenone. Hanno dormito all'aperto per terra con la sola giacca a vento nera. Uno dei tanti modi per loro di liberarsi dagli agi e ritrovare nella divisione del pane sulla pietra, proprio come San Francesco con frate Leone, la beatitudine del creato e la gratitudine al Signore del dono della vita, della condivisione gioiosa e festosa del poco. In cerchio cantavano in coro. Che grande lezione mi hanno donato, a me che il giorno prima li avevo sentiti pregare con contrizione, con la "tristezza", così m'era parsa, delle giaculatorie. Di loro nessuno parla, ieri, come oggi, come domani. Sono altre le cose che fanno notizia, che appagano gli istinti umani, che fanno girare il mondo e muovono gli uomini in giro per il mondo alla sua "scoperta".
Rinnovo la domanda: che sia il turismo del domani, quello della ricerca della verità e di ciò che la testimonia, quando verrà?
Stasera forse anch'io raggiungerò S.Jago; vorrei trovarmi solo con Grazia, vorrei difendere il pudore dei nostri sentimenti, così vicini dopo quarant'anni di vita e di affetti in comune.
Riprendiamo il viaggio. Il paesaggio ora è straordinariamente diverso da quello immaginato: la montagna giunge fino al mare, la costa è alta, con gole ed estuari. Gli alpeggi lambiscono l'oceano e le foreste di eucalipti, banali reminiscenze di altri e lontani climi, non ci abbandonano per centinaia di chilometri, lungo i paesi baschi e tutta la cordigliera cantabrica. Mi chiedo come si sentissero i pellegrini diretti a S.Jago: molti di loro si saranno ricordati dei propri monti, di casa loro. Ovunque pascoli e mucche. A chi avrà chiesto ospitalità, il profumo di stallatico doveva certo farlo parlare nella stessa lingua, concreta, chiara e certa, prima ancora di quella della comune fede.
Durante questa lunghissima tappa di trasferimento verso S.Jago, il paesaggio alpestre resta immutato.
Noto vicino ad ogni casa una piccola costruzione in legno, stretta e lunga, poggia su colonne e su larghi capitelli di granito; l'unica stanza ha feritoie ed è circondata da un ballatoio, vi si accede da una stretta scaletta, sul colmo una croce anch'essa in pietra. Fienili forse, non so dire; ma per le strane associazioni che la forma talvolta suscita mi sono venute in mente, oltre i granai biblici, anche molto impropriamente quelle arche o tombe che si trovano dalla Mesopotamia al Tibet, ma anche assai vicino a noi, a Padova. Che tra le due cose, così apparentemente lontane, vi possa essere una qualche connessione, anche solo per antitesi, parrebbe essere confermato dal fatto di trovarmi ormai in una particolare fase della vita: quella nella quale non si è lontani dal desiderare di non possedere più un granaio che "tigna corrode".
Queste straordinarie testimonianze della cultura contadina, forse di secoli, simili a piccole cappelle, anzi loro stesse forma di preghiera, non mi abbandoneranno più per centinaia di chilometri attraverso i Paesi Baschi e fino a tutta l'Andorra portoghese, con le tutte le variazioni sul tema che la funzione materiale consente. La stessa cultura contadina che la pietà religiosa ha alimentato per secoli nello spingere i pellegrini lungo il percorso verso S.Jago.
Che debito ha l'umanità verso questa cultura!
Giungiamo a S.Jago verso le 23,30. Nell'avvicinarsi ho intravisto, sopra i tetti bassi della città vecchia, la stupefacente scenografia notturna della cattedrale. La grande stanchezza e la necessità di trovare un parcheggio mi avrebbero persino fatto rinunciare a ciò che avevo sognato, sperato: l'arrivo di notte. So quanto sia suggestivo un luogo-simbolo illuminato dalla luce dei fari o della fede. Tutto si banalizza nella artificiosità delle mode, del conformismo da cui consapevolmente non mi sottraggo.
Lentamente percorriamo il breve tratto di strada lungo una vecchia strada di casupole a due piani, tutte costruite nei grossi blocchi di granito; piccoli ospizi medioevali con la conchiglia del pellegrino scolpita sull'architrave. Dopo una ripida scalinata lungo i fianchi di un grande edificio, d'improvviso s'apre davanti a noi la grande cavea della piazza, quella della facciata principale, "l'opera d'oro" tanta è la sua bellezza. Lo stupore è grandissimo, anche perché da lì si dipana un imponente grumo di palazzi, di piazze, di archi come vecchie candele fuse nei secoli intorno al luogo santo. Scenario grandioso e commovente, fatto certo per stupire lo stanco pellegrino, ma palpabile. Oggi frammisto, nella notte, da una folla brulicante sullo stesso palcoscenico medievale, dove lo spettacolo antico della fede è sommerso da quello laico della musica (berbera, e dunque ossessiva e travolgente), dalla conversazione dei giovani nei bar all'aperto quasi che "lo spettacolo" non debba mai avere fine. I mie amici di Pordenone e la loro astinenza dove sono? Anche nel medioevo sacro e profano era confuso, mescolato nella stessa emozione liberatoria, di appagamento di un sogno così a lungo coltivato nella solitudine, nella fatica fisica, nei pericoli persino. Là dove tempio e mercato sono sempre convissuti. Non c'era l'illuminazione notturna salvo quella discreta della luna. Forse domani mattina tornando capirò meglio quale potesse allora e quale possa ancora essere oggi lo spirito autentico del pellegrino.
Comunque il mio pellegrinaggio turistico e frettoloso, senza la lenta riflessione, senza la quotidiana fatica del distacco, senza la liberazione dal superfluo del mondo, è più vicino alla faccia pagana e spettacolare di stanotte che alla scoperta del sepolcro vuoto, del miracolo del Cristo all'alba con la prima luce del sole, con l'aria fresca della purezza.


9 agosto.

Com'era possibile che il sole potesse "tradire", mutare il senso delle tante emozioni notturne! La tomba dell'apostolo, del fratello di Giovanni! A stento trattengo la commozione nel salire la scale della sua immagine venerata; il solo pensare a chi è stato così a lungo vicino a Cristo mi dà una grande forza come se Dio mi rinnovasse il dono della sapienza della fede. Esco felice. Ascoltata la parola, la legge della libertà (non poteva essere quella "del mondo", della spada che gli spagnoli gli hanno poi messo in mano nella guerra contro i mori, per la liberazione della Spagna ) so, ancora di più, di doverla mettere in pratica.
Con Grazia, rimasti soli, visitiamo l'antico centro medioevale; è un continuo suono di campane, il quieto e quotidiano andirivieni degli abitanti ha preso il posto dell'agitazione notturna. La pietra color ocra dei tanti monumenti, delle chiese, ma anche dei collegi universitari (una volta ospizi per pellegrini), delle case, ma anche un'urbanistica adatta alla vita sociale, fatta di piazzette, slarghi, luoghi di ritrovo, dunque il clima di una vita animata, ma discreta e raccolta, rendono S.Jago simile a Oxford e Cambridge.
Al museo dei pellegrini c'è una straordinaria mostra di fotografie fatte in un villaggio di contadini della Russia sulla religiosità del popolo. Come è possibile fare la Storia senza la veridicità dell'immagine fotografica?
D'improvviso un altro colpo di martello su un chiodo che non avevo messo nel mio programma di viaggio. Il caso non è forse così cieco come si dice. Chi poteva mai pensare che avevo dato per nome a mio figlio quello dell'apostolo di cui oggi ho venerato la tomba?
Lasciamo S.Jago e la Spagna. Una nebbia fitta sale dall'oceano e un vento gelido soffia su povere case di poveri paesini portoghesi. Lungo la strada si procede a passo d'uomo; tutto mi ricorda il nostro mezzogiorno. Provo un senso di sofferenza. I volti della gente, così diversi da quelli dei giovani universitari di poche ore prima, è identica ai poveri contadini di tutto il mondo. Se solo Marx e Lenin avessero detto "contadini di tutto il mondo unitevi"!
A Viana do Castelo inizia la storia antica del Portogallo e, di fatto, anche il nostro viaggio turistico come previsto. Viana è una cittadina la cui bellezza "prosaica" è segnata da una pietà religiosa popolare. Nelle sue chiese, santi, angeli, anime del purgatorio mi ricordano moltissimo il teatro dei pupi e le raffigurazioni della Gerusalemme Liberata sui carretti siciliani.
Il cosa e il come si percepisce dipende sempre dal chi e questo ovviamente vale anche in viaggio. C'è una parte di esso che è frutto di un progetto, di una motivazione, di qualcosa che si desidera più o meno chiaramente ed intensamente; ed una parte non secondaria che è frutto della capacità di assecondare la realtà, le circostanze, quanto sembra offertoci dal caso. In questa seconda ipotesi la disponibilità costante, personale, l'esperienza, il fiuto nel riconoscere e nel dare la stessa importanza a tutto, a certi particolari rappresenta il necessario ed insostituibile complemento di quanto è costituito dalla struttura del progetto originario. Si tratta, in fondo, della banale applicazione del rapporto tra noi e gli altri e l'altro.
A Viana do Castelo, ad esempio, questo ci è capitato quando io e Grazia ci siamo intromessi nella cappella di una confraternita durante un matrimonio. Al di là delle circostanze apparentemente eccezionali, solo per caso, ossia grazie alla mia spudorata maleducazione e curiosità nel seguire il procedere frettoloso di alcuni ritardatari vestiti per la circostanza, ci è stato offerto uno "spettacolo": del rito, del coro, dei costumi della confraternita, l'offerta dei girasoli agli sposi da parte di bambini, l'opulenza dorata dell'altar maggiore. Uno spettacolo rubato, in un paese dal "tono" non povero, ma certo modesto, alla tolleranza distratta degli altri due amici rimasti fuori per stanchezza o per educazione, non so dire.
Sostiamo qui a Viana in un camping spartano sotto grandi eucalipti con i servizi nei box di una vecchia scuderia. Facciamo la doccia in uno di questi appartenuto a qualche ronzinante.


10 agosto.

Braga: questo è il Portogallo! Certo la breve esperienza precedente mi può aver spinto ad una certa enfasi a causa dell'evidente contrasto, quasi che questo paese, a chi vi giunge dal nord, voglia presentarsi e svelarsi gradualmente con modestia. Qui, al di là del fascino di questa antica città, con una urbanistica inaspettatamente razionale, illuministica, ricca di monumenti, di chiese, circa 70, di palazzi di una barocco sobrio, luminoso, misurato, ho forse compreso (presunzione della percezione turistica!) il livello ancora alto della qualità della vita portoghese, se mai fosse confermata e risultasse diffusa: serena, ricca di umanità, tranquilla, ma volta alla piacevolezza. Le fontane ovunque, l'alberatura ai lati o nel centro delle strade, le piazze, i chiostri, tutto curato, la passeggiata, la vita dei caffè come nella Napoli di una volta, a sottolineare un gusto, una cultura, un "modello di vita", che presuppone la capacità di amarla. Una cultura e un'arte architettonica di non alto livello, periferica rispetto al resto dell'Europa; fa eccezione la cattedrale o "Se" (se-des episcopi), di un romanico austero, ma profondamente religioso. Così mi immagino Lisbona.
Giungiamo a Bom Jesus do monte con la scenografia delle stazioni della via crucis lungo la scalinata, nel fresco del bosco e delle fontane, nella felice idea della forma e della simbologia barocca, una gioia dello spirito anche religioso, della stessa religiosità popolare già vista altrove, ma gioiosa come è il sorriso e la lingua di questo popolo.
Guimaraes. La visita al castello dove è nato il primo re di Braganza e della chiesa dove egli fu battezzato sembra ribadire una strana somiglianza con l'Inghilterra: non è solo il paesaggio nel verde, la forma e il materiale delle costruzioni, ma forse il carattere antico delle città, come se il mondo moderno ne fosse direttamente generato senza rinnegamenti e discontinuità.
La pietra di granito è il connettivo di ogni costruzione, di ogni opera, modesta o regale, chiesa, casa o fortezza. Presto si ricopre di licheni. Il granito certo non basta a rendere simili paesi così lontani, o la piovosità e il verde del paesaggio; c'è qualcos'altro che per ora mi sfugge.
Nel centro storico, ai piedi delle fortificazioni e del castello, il largo Oliveira ne ribadisce tutti questi caratteri medioevali, ma vivi. Qua e là documenti, tessere di una storia politica ed economica, difficilmente ricomponibile, specie quella più recente nel passaggio dalla protezione francese a quella inglese e all'ombra aurea di un regno del Brasile generato dalle rivalità intestine e parricide o fratricide come del resto è in tutta la storia di questo lembo di penisola rispetto alla Spagna, alla "reconquista" contro i mori, ma anche all'impero coloniale.
Vorrei rimanervi fino a buio per centellinare meglio nella suggestione notturna questo sentimento di rilassata piacevolezza.
Sostiamo al camping di Porto, zeppo di italiani con la più vasta campionatura, non solo di soluzioni tecniche alle esigenze del viaggiare e del campeggiare, ma soprattutto dell'esigenza stessa del viaggiare: è naturale che in ogni attività umana, specie quella d'evasione, siano presenti tutti tipi umani. Chi volesse ridurli a due o tre compirebbe un gravissimo errore di analisi, di metodo e di contenuto. Mi colpisce soprattutto chi sembra dimostrare completo disinteresse verso ciò che lo circonda alla stessa stregua di chi, pur inanellando, a mo' di record, elenchi di città o luoghi "trapassati" velocissimamente, cioè i collezionisti delle figurine ovvero degli adesivi delle località, ugualmente non ha visto niente, tanto è preso dalla fretta di raggiungere la prossima meta, che spesso è anche molto lontana.


11 agosto.

Porto. L'arrivo in tram nel centro della città, proprio nelle vicinanze di Piazza della Stazione, mi dona la consueta euforia. La città appare certo bella (l'edilizia qui ricorda quella del 700/800 francese), ma soprattutto mi sembra rispondere ad una moderna razionalità, non senza una scenografia barocca; infatti al culmine delle molte strade che vi convergono in discesa c'è una chiesa. La stazione ferroviaria, per quanto decorata di azuleios, mi affascina per la galleria e le colonne in ghisa, ma più ancora per la funzionalità moderna della sua collocazione fin dentro il cuore della città, non diversamente da quella fiorentina di Santa Maria Novella. Così anche è per il mercatino di frutta, verdura e pesce che si trova tra la stazione e il duomo e che sfrutta uno slargo del colle che incorona dall'alto la zona antica del porto.
Nel duomo romanico, posto sul culmine del colle, e nel suo chiostro il gregoriano mi accompagna mantenendo alta la prima commozione. Scendo per ripide stradette, quasi identici ai carrugi genovesi e ai vicoli napoletani; non è difficile ritrovare nelle città portuali del mondo antico, del mediterraneo (anche se qui siamo nell'estuario del Duoro, davanti all'oceano), caratteri comuni, persino nel loro attuale degrado. L'Hilton, all'angolo di uno di questi vicoli, mi fa ben sperare; ne traggo un ennesimo, ingenuo augurio che il mezzogiorno del mondo possa presto tornare ad essere vissuta dalla parte migliore della città-civiltà.
A San Francesco, ricoperto d'oro, in una scenografia kitsch, dove la cultura degli indios pare essersi trapiantata nella madre patria, il poverello d'Assisi è stato abbandonato anche dal popolo che la deserta da sempre.
Dal quartiere colorito del porto passiamo, attraverso l'ardito ponte in ghisa di un discepolo di Heiffel, a quello della cantine delle grandi case vinicole. In altre città i granai, qui il vino a segnare l'antica e attuale importanza di un prodotto che diventò strategico nella politica di fine settecento. Che la sorte economica e politica di una paese, che aveva un impero coloniale in tutto il mondo, possa essere dipesa dal vino, deve far riflettere. Oggi qual è il nuovo vino per gli attuali padroni del mondo? Se poi scopriamo che il vino porto è un'invenzione inglese, resa necessaria dalla correzione col brandy di un vino che non reggeva il viaggio in mare, dobbiamo ancor riflettere sull'importanza dei particolari nella sorte del sistema economico di una paese.
Usciamo comunque dalle cantine di Calem in stato di euforia, se non di ebbrezza, e con diverse bottiglie di rosso "fine ruby". Ora capisco da dove sia sorta la forza e il coraggio flemmatico dell'ammiraglio Wellington a Trafalgar contro Napoleone. Ancora una volta l'importanza della micro-storia o della storia materiale, sia pure di scuola francese!
Il percorso in tram mi permette di osservare quanto sia grande per i portoghesi l'amore per i bambini e la famiglia. Il modo di giocare anche dei padri con i loro piccoli in collo, non diverso dalla conversazione giocosa sui balconcini di casa, sono segni ulteriori di un modello di sviluppo di un paese che per quanto partito in ritardo vive la c.d. competività riuscendo a salvare certi fondamentali valori umani.
Se la persistenza del latino nella lingua portoghese ovviamente non mi sorprende, soprattutto nelle desinenze, mi emoziona quasi il saluto di una persona che, appena sussurrandolo, mi dice: "Vale".


12 agosto.

Esploriamo la valle del Douro fino a Lamego per avere l'impressione, più che la misura, di cosa e quanto stia dietro il vino porto. E' una valle verde lungo un fiume ricco d'acqua, di boschi e vigneti, con piccoli e modesti paesini. Si ha l'impressione di un'agricoltura contadina, quasi povera, frammentata, certo non latifondista né intensiva.
Giungiamo a Lamego a sera. Sul colle c'è una chiesa al termine di una scalinata simile a quella di Bom Jesus. Dormiamo vicino al palazzo vescovile e al duomo romanico dopo aver cenato nell'unico locale ancora aperto verso le 23; cerchiamo di convincerci che il bacalao e i ceci lessi se fossero stati conditi col nostro olio sarebbero stati commestibili. L'una falsità non esclude l'altra. Resta per noi il mistero di come una paese latino possa utilizzare un olio d'oliva non molto diverso da quello industriale, chiamato lampante, una volta usato per illuminazione.


13 agosto.

Coimbra. Bella la chiesa romanico-normanna su basi moresche e il chiostro; la cittadella universitaria e in particolare la biblioteca dell'antico rettorato. Mancano purtroppo gli studenti così che il confronto con altre antiche città universitarie non si può fare. Resto tuttavia suggestionato dall'idea di un'Europa molto più unita di quanto vecchi e superati nazionalismi possono ancora far pensare. Del resto anche la distanza tra la civiltà romano-cristiana, di cui l'Europa è espressione, e la civiltà araba, di cui la porta della Medina e il quartiere arabo sono qui ancora visibili testimonianze, per quanto oggi ancora lontana sarà anch'essa destinata a scomparire, quando inevitabilmente si fonderanno in una nuova visione della vita e del suo senso, unitario per tutti.
Monastero di Batalha. Qui grazie alla vittoria sugli spagnoli (regno di Navarra e Castiglia) nel 1385 nasce la nazione del Portogallo; qui, infatti, ci sono le tombe dei primi reali, Joao I° e sua moglie Felipa e c'è un simbolico monumento al milite ignoto, una lapide tombale sul pavimento, presidiata da due soldati. Ogni confronto, spontaneo, con il monumento di Roma al milite ignoto della prima guerra mondiale è forse fuori luogo, per evidenti motivi storici. La chiesa gotica è grandiosa e disadorna e ha due chiostri di cui uno immenso anch'esso gotico ma con una fontana dalle evidenti reminiscenze arabe, simile a quella di Monreale.
Il successivo monastero di Alcovata è anch'esso del '300 in stile benedettino cistercense, tutto di pietra bianca come il saio e lo spirito della regola. La navata centrale lunga ben 105 metri, completamente disadorna, mi suscita una emozione di straordinario raccoglimento. Vengo a sapere subito dopo che, al grandissimo merito che i monaci cistercensi ebbero, come altrove, nella bonifica della regione e del successivo sviluppo dell'agricoltura del paese, essi divennero presto così numerosi, più di mille, e così ricchi da concentrare ogni loro interesse per la crapula. Cerco di immaginare la loro cucina e il lavoro dei cuochi per preparare ogni giorno banchetti così luculliani da scandalizzare fino al punto che il convento venne chiuso. La chiesa ci presenta queste contraddizioni fino al punto da farci accettare il suo messaggio di amore e di liberazione nonostante "tutto". Del resto lo stesso insegnamento ci viene offerto dalla storia del suo potere temporale.
Il viaggio già sente il profumo di Lisbona e non so se sia solo per stanchezza ma il desiderio di fermarmi per qualche giorno, per "ascoltare" di più e meglio, per riflettere, per capire, si fa ora molto forte.
A sera facciamo sosta ad Obidos, poco oltre la consueta stazione dei "bomberos". Non i carabinieri o la polizia, ma i pompieri abbiamo trovato in ogni più piccolo paese! Perfettamente conservata questa cittadella murata ci regala una splendida scenografia. Oltre la porta d'ingresso del paese, le case bianche adorne di gerani e buganvillea, hanno gli spigoli e i contorni delle finestre decorati d'azzurro o di giallo; una festa di colori che mi accompagna, all'imbrunire, fino in cima al castello. Da qui in un momento di grande quiete, osservo il castello illuminato discretamente, come le mura merlate e i suoi camminamenti silenziosi. Obidos è forse lezioso come ogni luogo di particolare fascino e attrazione turistica, ma credo che a ciò non ci sia alternativa.


14 agosto.

Lisbona. L'estuario del Tago è così largo che dà a Lisbona e al suo porto, con la luce e il vento che gli sono propri, l'impressione di vivere sul mare. Giungendo dal nord è evidente come questo popolo da sempre costretto dalle montagne e dalla lotta per la sua indipendenza dagli Stati vicini, dinanzi all'oceano non poteva che avventurarsi nell'esplorazione del mondo allora sconosciuto. L'antica torre faro di Belem, il recente monumento eretto dalla patria ai propri navigatori ed esploratori, il museo della marina (molto interessante e di pari importanza di quelli londinesi) sembrano ancora ricordare le glorie marinare; cioè di un passato che, oggi, perse le colonie, nel momento stesso del recupero della democrazia, non ha tuttavia più senso.
Il Portogallo mi appare impegnato in uno sforzo di ammodernamento, ad iniziare da una sorprendente efficiente rete stradale, che parte da una nuova presa di coscienza della propria condizione e del proprio futuro: non più rivolto verso gli oceani e i suoi anacronismi. Esso, per la prima volta, guarda realisticamente all'Europa, e non più in termini antagonistici partendo dunque dalla presa d'atto di una realtà totalmente diversa, tecnologica, economica e politica. Credo che guardi giustamente con dignità e fierezza, che del resto ha sempre avuto, ma soprattutto con i suoi valori e qualità umane. Valori e qualità che pur con lo sguardo superficiale e fuggevole da turista colgo di continuo nella gente. Il secolare confronto-scontro con la sorella Spagna resterà uno snodo cruciale destinato ad essere superato e credo che insieme questi due paesi rappresenteranno un grande motore di rinnovamento dell'Europa, soprattutto per il loro patrimonio di civiltà, di calore spontaneo, di generosità e di intelligenza creativa, ma anche di misura, di cui la fede ha sicuramente una parte fondamentale, contro le più pericolose degenerazioni della società moderna.
Lisbona è una città in gran parte moderna; il centro storico, il cui cuore è la piazza del commercio, fu distrutto dal terremoto e dall'incendio del 1775 e fu ricostruito volutamente in pochissimo tempo, tanto che esso appare, diversamente dalla altre città fin qui visitate, privo di qualità e spessore antico. Ad eccezione del monastero di Gerolamo, straordinario (ma anche a causa delle due tombe, di Vasco di Gama e di Camoes, fonte ispiratrice di un banale e puerile gioco imitativo, il cui culmine "poetico" è espresso nel verso "O oceano, o Portugal" recitato in tutte le sue possibili varianti espressive), il centro mi è parso deludente. Ma è anche assurdo pretendere di visitare la città di Pessoa e sperare di coglierne lo spirito la seconda Domenica di agosto: completamente chiusa e deserta!


15 agosto.

Secondo giorno a Lisbona. Giornata dedicata alla parte antica della città, con partenza dalla casa natale di Sant'Antonio da Lisboa (il luogo venerato della morte è stato fatto prevalere su quello della nascita, se è diventato da Padova!) vicino alla cattedrale, in romanico francese e con le tombe reali di Alfonso IV (1325) e della moglie Dona Brites. Ho avuto l'impressione che le donne lusitane, non diversamente da quelle spagnole (il vero re era Isabella di Castiglia) siano state sempre molto considerate, autorevoli come mogli, madre e regine.
Saliamo al castello e al borgo che lo circonda: il panorama è splendido, sia verso il Tago che verso la città moderna. All'ombra serena dei lecci, i rumori lontani del porto e della città mi evocano impressioni partenopee. Il borgo tutto intorno è un fervore di restauri. Come sono lontani le rigidità del restauro conservativo italiano! Qui c'è il bisogno di un rapido recupero, certo per interessi turistici, ma soprattutto, partendo dal decoro della città antica, per ritrovarne anche la dignità dell'apparire.
Il miraduro di Santa Lucia sottolinea ancor più la assonanze cromatiche dei panorami napoletani ed è tale la gioia che suscita da riappacificarmi con la città di cui comincio a temere che non ne coglierò nemmeno il profumo. Il vicino quartiere arabo di Alfatama, pittoresco e vivo nonostante l'assolato pomeriggio festivo, ma degradato, aspetta impaziente il suo pieno recupero. Qui visitiamo il museo delle marionette. Vi lascio scritto un banale pensiero sullo stupore e sulla lieta fantasia dei bambini e di quei pochi grandi che sanno rimanere tali nello spirito. L'emozione è tale che mi piace pensare finita qui la visita a Lisbona.


16 agosto.

La mezza giornata di riposo nello splendido campeggio di Lisbona ci ha rigenerati, ritemprati dalla stanchezza per i continui spostamenti a piedi nel caldo torrido del pomeriggio e dalla delusione per la difficoltà di raggiungere altre possibili mete, dislocate a distanze eccessive l'una dall'altra, e comunque chiuse per il ferragosto.
Sintra. Vicino a Lisbona, in un paesaggio collinare e boscoso, questa cittadina, con un'architettura di impronta francese, piena di giardini fioriti ricorda certe stazioni del turismo internazionale. Per la storia, gli arredi e gli splendidi azuleios, il castello di villeggiatura dei re del Portogallo risulta molto interessante. Resto più prosaicamente ammirato dalla cucina con reminiscenze pantagrueliche, meno bella e suggestiva di quella della Certosa di Padula (Sa), ma con due cappe coniche altissime (che nell'avvicinarmi alla reggia mi avevano già incuriosito per la inusitata forma) e sotto le quali si è avvolti da un colore fiabesco.
Più ancora del vicino Palacio da Pena costruito in stile neogotico dall'ultimo re consorte Ferdinando Coburgo-Gota (molto interessante come testimonianza di un arredo aristocratico di fine ottocento), il castello dei Mori, arroccato sul crinale della montagna ed emergente da un bosco fitto e profumato, mi appare pieno di suggestioni storico-culturali e poetiche.
Cabo de Roca. Giungiamo prima del tramonto ad una delle mete simbolo del nostro viaggio, quella punta estrema del mondo occidentale affacciata sull'oceano. A 200 metri a picco sul mare il faro: lì dall'antichità. Vento gelido e gabbiani volano su una prateria di Barbe di Giove. Punta estrema dell'Europa, ma per chi una volta affrontava le onde e le correnti dell'oceano era l'estremo lembo del mondo, l'ultima sicurezza: uno struggimento, una preghiera! Qui sul picco, al vento gelido, un portoghese suona la cornamusa. E' nera e il vento ne fa svolazzare i lunghi peneri. Lo ascolto commosso: canto d'amore o più alta preghiera; quale che ne sia la fede. Comunque "l'inno alla gioia", all'infinito, fonte di vita perenne. Le modulazioni della musica paiono non finire mai, mentre io vicino a lui esito a ringraziarlo. Dopo mi risponde più volte "Mui obrigado", mentre mi guarda fisso negli occhi ed uno strozzo di commozione mi toglie ogni altra parola, quasi che, disarmato davanti a simile sacerdote, la felicità mi traboccasse. E' la seconda volta che, colmo di gioia, sento che questo luogo e questo momento possono acquistare il valore simbolico di una fine, fors'anche quello della imprevista ma felice conclusione del mio incontro col Portogallo, cui nulla può aggiungersi anche se il viaggio continua.
Festeggiamo il mio compleanno con una cena deludente.
Facciamo sosta notturna ad Evora.


17 agosto.

Evora. Antica capitale dell'Alentejo. Cinta di mura con alcuni importanti e antichi monumenti; l'unico tempio romano del Portogallo. Cittadina silenziosa, ordinata, pulita, con le solite case bianche con ornamenti gialli o azzurri alle finestre, alle porte agli zoccoli e agli spigoli. Uno straordinario negozio di finimenti per cavalli e per l'equitazione mi ricorda l'avvicinarsi all'Andalusia e dei suoi culti maschili. La vita scorre tranquilla, in modo dignitoso e civile; un modello per il nostro sud.
Ripartiti attraversiamo una regione del tutto diversa dalle precedenti: prima, tutta a grano con masserie circondate da covoni e barche di paglia; castelli e piccoli paesi bruciati da un sole implacabile; poi, un lungo tratto a quercia da sughero. Qui il paesaggio è rimasto antico, anzi arcaico, inevitabilmente pieno di reminiscenze classiche. Infine giungiamo di nuovo al mare.
Al termine di un tavoliere con macchia mediterranea, spazzata dal vento gelido, lo strapiombo orrido dell'oceano. L'erosione ha creato una costa di falesie, frastagliata, ricca di grotte, faraglioni. L'azzurro cupo dell'acqua che sbatte con onde altissime contrasta col colore rosso della roccia. A Capo S.Vicente (che storia quella del culto di San Vincenzo, così simile a quella di S.Jago!) altro faro.
Altra punta simbolo del protendersi dell'Europa verso l'ignoto, l'immensità; altra straordinaria emozione. Il paesaggio è ancora più bello di quello di Cabo de Roca; vorrei non staccare lo sguardo finché il sole non sia precipitato all'orizzonte. L'aria gelida toglie il respiro, ma è come se liberasse l'animo dalle scorie di ogni stanchezza e per un attimo anche da ogni preoccupazione che mi porto sul groppone.
Cerco invano un villaggio di pescatori dove fermarmi coll'immaginazione per un lungo tempo di riflessione; così necessaria specie ora che ho cessato di lavorare.


18 agosto.

E' l'alba. Dal finestrino del camper scorgo lontano, al termine di un viottolo che s'inoltra nella bassa macchia mediterranea, l'oceano. Non vedo a perdita d'occhio segni di presenza umana. Il sole deve ancora sorgere. Quel buco che avevo scoperto alla vigilia della partenza sembra ora riempirsi, mentre il vento freddo e forte fischia tra i rami di palma che si flettono sul tetto del camper con unghiate sorde, mi invita alla preghiera del mattino. Mentre gli altri ancora dormono, dalla finestrina che ho aperto entra aria fresca. Ascolto il canto di piccolissimi uccellini neri che entrano ed escono dalla macchia.
L'oceano si sta lentamente colorando, così come ieri sera s'era illuminato con la luna piena.
Attraversiamo l'Algarve, ricca di piccoli centri storici: Lagos, Portimao, Sagres, Faro, Tavira, Silves. La costa tuttavia è ormai cementificata da un turismo di massa, brutto come quello di tutto il mondo, da mezzogiorno. Scappiamo delusi, altro che villaggi di pescatori! L'omologazione turistica, urbanistica ed edilizia rende l'uomo ovunque uguale negli aspetti peggiori, facendone perdere l'identità e la storia.
Il centro storico di Faro certo si salva chiuso dalle vecchie mura, ne è testimone sul campanile la cicogna sul suo enorme nido. All'ingresso del suo Duomo saluto l'ultimo cane portoghese che lì dorme proteggendosi dal sole all'ombra del portone. I cani in Portogallo non ci hanno mai abbandonato, come i Bomberos. non sono di razza visto che paiono vagare quasi fossero randagi. Sonnolenti si spostano all'ultimo momento come quelli di Ponza. Di taglia media, a pelo corto, marrone chiaro, col muso da segugio, con gambe lunghe da grandi camminatori, alla continua ricerca di cibo, di riposo o di affetto, credo rappresentino ancora per poco ciò che resta della storia antica di un popolo.
Il viaggio finisce veramente qui. Tavira col suo borgo e l'antico ponte romano, a sera, ci regala l'unica cena degna di essere ricordata. Ne usciamo brilli, certo di vino, ma anche consapevoli di essere giunti al confine.
Da ora in poi non ci fermeremo più fino all'arrivo.


19 agosto.

Inizia il ritorno.
Comincio a sentirmi stanco e a desiderare il ritorno a casa, anche con i suoi problemi; anzi il ritrovare i soliti, vecchi problemi fa parte di quel qualcosa di autentico, più in generale della realtà della vita, da cui non si può fuggire se non per poco.
Oltre un certo limite, viaggiare per vivere la sofferenza della fatica, del caldo, del rumore, dei grandi numeri, i chilometri, quelli delle chiese, dei castelli e dei musei visitati, è autolesionistico. Il ciclo naturale del vuoto e del pieno in verità ruota tra l'alternarsi dell'autentico col falso, della gioia con la noia e stanchezza, e così via. Quando si sente il bisogno di ritrovare la sorgente familiare di ciò che è autentico vuol dire che il viaggio non ha più senso, ha perso cioè la sua meta, o più semplicemente è finito.
Il marinaio che tornava a casa dopo aver attraversato gli oceani, si buttava sul letto di casa e dormiva profondamente, per quante cose ci fossero da fare e vedere fuori casa. La sua casa, il suo letto, la sua famiglia sono le cose che danno il senso alla vita anche quando si sia compiuta l'impresa più eroica, la scoperta di nuove terre o se solo si sia vinta l'ira dei mari.
Se il viaggio in Portogallo è terminato, per il ritorno c'è ancora da percorrere un lunghissimo tratto di strada attraverso tutta la Spagna, del tutto nuovo per me, oltre quello attraverso la Provenza; e per quanto sia stato deciso giustamente di non fare soste o deviazioni, ciò che posso vedere è ancora tanto e ne sono contento. La lezione sulla storia del paesaggio agrario di Emilio Sereni mi è ancora preziosa, specie quando per un intero giorno si ha la possibilità, come ho avuto io, di osservare, sia pure dal finestrino, in modo esemplare da manuale, pressoché per intero, il paesaggio agrario della Spagna: dell'Andalusia, della Mancia fino a Valencia, della Catalogna.
Come è strana la storia dell'uomo! Il latifondo della aristocrazia spagnola da freno allo sviluppo quale è stato, sembra a chi lo vede oggi per la prima volta, essersi in breve tempo trasformato in una felice condizione di modernità e di ricchezza. Trecento chilometri a grano, poi col mutare delle condizioni ambientali altrettanti ad agrumeto, ed infine altrettanti a uliveto. Non la polverizzazione del patrimonio fondiario che la conduzione contadina e l'ostilità della natura ha creato nei secoli in Italia, non una casa, ma filari di piante disegnate con geometrica razionalità.
Non mi chiedo tanto quale possa essere il tallone d'Achille di questa potente agricoltura (i difetti presto diventano pregi per chi non sa più distinguere la qualità, tanto da preferire ciò che non ha sapore o che ne ha uno peggiore, come è per le arance, di vainiglia dolciastra, o per l'olio, non molto diverso da quello portoghese).
Nel tornare a casa, mi chiedo piuttosto quale è, per noi italiani, la condizione di arretratezza strutturale che ci permetterà inaspettatamente di rifiorire? Penso alla nostra storia e ai suoi mille campanili di paese, alla vita di borgo tra la campagna, in parte ancora contadina, perché non può essere più moderna, tra panorami che la natura oggi svela non più ostile, ma grande risorsa per la condizione di vita e per lo stesso modello di sviluppo. E allora penso, con la stessa ingenua fiducia che non mi abbandona mai, che un giorno non lontano quando la tecnologia nella nuova economia avrà consentito a tutti gli abitanti dei nostri piccoli paesi di lavorare a casa propria, senza più la maledizione del suo abbandono, allora i poveri saranno invidiati; non perché più ricchi, ma perché migliore sarà la loro condizione di vita.

 

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