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Pietro Parigi artista dell'Uno e del molteplice

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   La portineria della villa degli Uberti
   
Nel tempo avevo cessato di sostare in quella striscia di verde serrata tra via di Villamagna e via delle Nazioni Unite, là dove a chi sfrecci in auto per i due lunghi rettilinei, gli ulivi, i peri e i peschi col verde del prato paiono piuttosto il frutto di una nuova arte del giardino, che le testimonianze di epoche passate, simili ad antiche mura o a torri mozzate.
Dopo la grande gelata, gli ulivi sono persino tornati fronzuti; dalle loro ceppaie decapitate s'ergono ritti tre o quattro tronchetti, e le loro chiome sono tutte pettinate alla stessa altezza. Soltanto qua e là s'è salvata la vecchia pianta, contorta, bitorzoluta, con artigli ben piantati nella terra e con rami oranti al cielo. Le olive, noncuranti del traffico, sono, ad anni alterni, fitte e gonfie d'olio. I peri e i peschi, invece, si limitano ormai a fiorire.
Nonostante sia ad un passo da casa, da anni non vi ero più andato, né avevo sostato su una di quelle panchine, che, poste sotto quegli ulivi, sono la meta preferita di vecchi. Forse è stato che in quell'istmo avrei dovuto andarci di proposito, ma per restarvi recluso; almeno finché l'alta marea del traffico non fosse scemata lasciando ai lati le due strade lucide come di pioggia. O forse un giorno ho cominciato ad andare altrove, a passare da un'altra parte. Ciò mi capita anche con persone una volta care; basta ch'io muti di poco gli orari che mi trovo a familiarizzare con altre. Di loro mi resta, certo, il ricordo; so bene che esse continuano a vivere da qualche parte del mondo; è così finché non vado a salutarle per l'ultima volta. Sento di non poterci far nulla. Avevo continuato ad attraversare, di quando in quando, quest'isola stretta e lunga, proprio davanti all'acquedotto, là dove c'è un viottolo sterrato, percorso da chi deve andare all'Albereta, lungo le rive dell'Arno, o da chi, come me, v'è costretto per tornare a casa; ma è così breve il tempo che di nient'altro mi ero mai accorto se non della terra, gialla e sabbiosa. Tutto è cambiato con l'arrivo di un boxer, di nome Elia.
Per questo devo molto al mio cane: è lui, infatti, che mi ha insegnato ad osservare in modo diverso; a vedere e a scoprire cose che mi sarebbero rimaste altrimenti ignote. I turni assegnatimi per la giratina di Elia sono stati quelli a me più congeniali; o forse quelli meno comodi agli altri, non so. I turni sono due, quello del primo mattino e quello della sera tarda. Ma la condizione in entrambi è simile poiché a quelle ore prevale, durante l'anno, il buio, proprio quando sembra che non avvengano mutamenti percepibili.
È ad Elia che devo la riscoperta di quella striscia di terra o di verde: ideale per me data la vicinanza da casa, e per lui, dato il numero di alberi, di siepi, di erba, di quanto interessi i cani. Ma a lui devo soprattutto la riscoperta della portineria della Villa degli Uberti.
Come ogni cane, Elia ha la dote misteriosa di farmi fare percorsi poco lineari da apparirmi irrazionali, che in ogni caso non avrei fatto, ma grazie ai quali, ogni giorno, sono stato costretto ad osservare i particolari di ogni cosa, alberi, piante, animali, o manufatti. Tutto per lui assume una pari dignità e ogni cosa, a causa di ciò, ha rivelato a me significati nuovi. Il tempo di Elia, infatti, è un tempo diverso da quello mio solito, perché è lungo e paziente, adatto alla percezione, sia soltanto del cangiare della luce, dei colori o dei profumi. Elia pare persino sia capace di assecondare le cose a venirgli incontro: così che ogni alberello, frasca, sasso o foglia, tutto ciò che vive o alita è degna della sua attenzione e della sua curiosità e il loro abboccamento è sempre gioioso. Egli annusa e studia con quello stupore che per noi è solo dei bambini. Ma basta un grillo per farlo sobbalzare e indietreggiare come un campione pronto alla lotta. Lascia ovunque messaggi d'amore e dopo mi guarda felice. Sa per certo che prima o poi, da lì, passerà qualcuno a raccogliere quell'invito, deponendo anche lui il proprio; non diversi da quelle preghiere che certe popolazioni tibetane rivolgono agli spiriti della natura appendendo al vento fettucce colorate di stoffa.
Tempo, quello delle giratine, sottratto al sonno, mio e suo; pigro com'è anche lui quando, al mattino, specie d'inverno, mi vede col guinzaglio in mano e torce infastidito occhi e collo. Tempo sottratto, soprattutto, all'ultimo sonno, quando i sogni miracolosamente riappaiono per un attimo ancora vivi e intatti. Anche per me all'inizio è stato un sacrificio, ma ora ne sono grato ad Elia; lo sono almeno da quando, a causa di ciò, ho imparato a cavare meglio un po' del mio egoismo, a scambiare il sonno col sogno, quello vero, quello fatto ad occhi aperti.
E poi, cos'altro avrei potuto fare, se non dormire? Ora, invece, attendo che ad ogni stagione subentri la prossima, che ad ogni notte soggiunga l'alba, e che, dopo il buio dell'inverno, il sole venga a scacciare Sirio e la diafana luna. E poi ancora attendo che esso torni a stendere lentamente la coltre di buio, quando ogni ramo avrà perso tutte le foglie. Grazie a lui sono tornato a sognare il tempo e a causa di ciò m'è parso esser tornato un po' più giovane.
La conoscevo bene la portineria della Villa degli Uberti. E come potevo dimenticami di quando, ancora giovane, giunsi a piedi proprio qui per vedere dove avrebbero costruito la mia casa. Ma era come se me ne fossi dimenticato. Ogni volta che vi passavo dinanzi, se anche lo sguardo vi cadeva sopra accidentalmente, era come se non la vedessi.
Il tetto e il terrazzo, posti proprio sotto due secolari querce, negli anni s'erano ricoperti di foglie e di terriccio; entro la grondaia erano nati degli alberelli tanto che essa, sotto il loro peso, un giorno si staccò rimanendo a penzoloni. Lo stesso edificio, il cui basamento era ricoperto dall'intonaco che s'era sfaldato e dalla terra e dalle foglie accumulatesi lungo le pareti, pareva inselvatichito, nascere dalla terra, simile ad una pianta.
Prima che ponessero il cartello del cantiere non sapevo che essa avesse un nome, anzi, un nome così importante che le vicine case del quartiere ora paiono aver scoperto un antenato nobile.
Dal quel momento, da quando una sera Elia si fermò ai piedi del palo ove avevano inchiodato il cartello del cantiere, è riaffiorato spesso il ricordo del giorno in cui, attraversando quegli orti per vedere i paletti di confine del cantiere e delle future case, nel vedere lo scavo e i primi segni dello scempio, dissi: "Ora me ne vado, tornerò quando tutto sarà finito!"
È stato Elia a farmi ricordare tutto ciò.
Su quel palo e sulle siepi che contornano la casa su due lati, Elia è tornato ogni sera e ogni mattina a lasciare il suo messaggio d'amore. Vi giunge sempre trotterellando, col suo muso prognato con cui a filo d'erba aspira i profumi della terra.
Ricordo bene quella sera, quando senza motivo restai come preso da un sogno: una strana emozione, quasi qualcuno avesse veramente raccolto quel messaggio d'amore.
Era una serata fresca di primavera. La luna tra i rami alti delle querce, ancora spogli, profumava limpida di bosco; aveva piovuto per giorni e solo ora il cielo terso brillava intensamente.
Quante volte avevo visto quella casetta! Ma soltanto in quel momento cominciai a desiderala. Avrei voluta che fosse mia: così piccola, proprio come l'avevo sognata da ragazzo; due stanze al piano terra, di cui una separata, con un corpo avanzato, una sola finestra e come tetto un terrazzo aperto tra i rami delle querce: da lì, da quel terrazzo avrei visto le montagne o, più oltre, il mare. Al piano di sopra un'unica stanza con due finestre grandi e una piccola: lì, proprio lì, davanti a quella piccola, avrei messo il mio studiolo, simile a quello di un convento francescano. Il piano terra aperto sul prato, circondato da siepi profumate, appisolato all'ombra d'estate.
Da bambino avevo una scatola di costruzioni di legno. Ogni pezzo era ad incastro: pareti, finestre e tetto, s'infilavano su strette scanalature. Ero rapido, durante quei lunghi e silenziosi inverni, ad erigere i miei rifugi. Ogni volta variava qualcosa, ma quasi sempre senza volerlo, spesso per dimenticanza. Mi apparivano sempre lindi, puliti, luminosi: così anche esigeva la nuova cultura fascista, ma io non lo sapevo; così che non c'era per me alcun piano regolatore che m'imbrigliasse la fantasia, i desideri dei tanti sogni che allora mi regalavo con niente. Erano vuote quelle casette, proprio come questa che ora riempivo, con altrettanta facilità, di ogni cosa mi apparisse dinanzi.
Casette simili a quella che ora seguivo con la meraviglia degli occhi.
Ogni sera, da quel momento, ho pensato a come arredarla, a cosa collocare sotto e sopra, soprattutto vicino alle finestre. Una di queste era stata chiusa forse durante la guerra. Da quando la squadra di muratori iniziò i lavori, cominciando dalla demolizione dell'intonaco, mi sono chiesto più volte se avessero mai riaperto quella finestra "Io l'aprirei, non ha senso tenerla cecata... la luce... ho bisogno di vedere fuori, lontano oltre i rami, di giungere da ogni angolo ad uno spicchio di cielo." Per questo ogni volta che vi tornavo con Elia e la ritrovavo chiusa ero felice e deluso allo stesso tempo; presto mi convinsi che prima o poi avrebbero demolito quell'inutile diaframma. Elia non se ne dava cura, girava, mi guardava dal basso in su con i suoi occhi da vecchio centenario, quasi volesse rassicurarmi, invitarmi ad aspettare, e suggerirmi l'idea che la soddisfazione di quel desiderio tanto più venisse rinviata, tanto più sarebbe stata dolce.
Un giorno notai che vi avevano aperto un buco, giusto la larghezza di un viso; così restò per oltre un mese. E ogni volta che guardavo quel buco gioivo all'idea di quando quella finestra sarebbe tornata a sorridere.
I muratori non li ho mai visti. Tra noi, tuttavia, era presto stato scritto una sorta di codice segreto, fatto di innumerevoli messaggi, tanti quanti la tecnica del muratore richiede, e ogni giorno diversi secondo le fasi del lavoro: le pianelle, le tegole e la grondaia ben abboccata, l'arriccio dell'intonaco, il velo di cemento, le modanature, l'angolo e la scanalatura della lesena, lo smusso del bordo dello zoccolo, la ripresa dei colori della tinteggiatura.
Pochi colpi di cazzuola e una pausa. Quante pause! Per me tutti ritardi, per loro, forse, momenti di appagamento del loro progetto. Sembrava che anche loro, come Elia, volessero aiutarmi a capire la vita.
L'intonaco non fu demolito per intero. Specie sotto il tetto dove meglio s'era preservato dalle intemperie, restavano qua e là tracce di losanghe, di bordature delle finestre o dello zoccolo o del portone. Tracce di colore sbiadito, di un rosa o forse una volta di un rosso pompeiano. Per circa un mese, quanto è durato la lenta fase della demolizione, interna ed esterna, dell'intonaco, mi sono chiesto come lo avrebbero ricostruito, se nelle forme originarie o se non avessero preferito abbandonarle, per convenienza, per incapacità o per altro, fidando anche nella mia distrazione.
Sì, devo proprio confessarlo, ho dubitato di loro, e chiedo loro scusa, ma solo in parte, poiché nella facciata più povera e negletta, quella opposta all'ingresso, quella esposta a nord, dove v'è solo una finestrina con inferriata, hanno cancellato ogni traccia delle lesene che riquadravano la facciata; non c'è rimasto che lo zoccolo! Me ne dispiace, lo riconosco, perché questo è stato il loro unico errore. Mi chiedo ancora per quale motivo lo abbiano fatto.
Ma se ora ripenso ai giorni durante i quali a sera correvo a verificare se mai da quella parte le avessero ripristinate, resto interdetto, non sono più sicuro, ho la sensazione di non ricordare bene, anzi che proprio io sia nel torto, che lì non ci fosse mai stata alcuna modanatura, e che così spoglia fosse stata fin dall'inizio.
L'attesa con la quale giornalmente ho temuto il tradimento, animava il nostro dialogo: m'è parso, ad un certo momento, di sapere chi fossero i muratori, che si trattasse di giovani. Il ritmo del loro lavoro, e più ancora il gusto e la gioia di certe soluzioni non erano di uno che avesse sulle spalle la stanchezza di una vita! Anzi, coglievo nei loro messaggi, nelle interruzioni quotidiane, la mancanza di fretta, come se non volessero finire subito; come se ciascuno di loro avesse, chi sa dove, la ragazza ad aspettarlo.
M'è parso, così, che quella casa fosse per quei muratori come il corpo della loro ragazza, da lisciare, accarezzare, tinteggiare; ogni volta senza fretta, sicuro com'è l'innamorato di ritrovarlo, allo stesso posto, ogni giorno.
Forse, per questo Elia aveva lasciato, proprio lì, quei quotidiani messaggi d'amore.
"Se solo potessi portarmi questa casa altrove, lontano, in cima a un colle, vicino ad un bosco, e guardare da lassù la valle attraverso le finestre; i due alberi di quercia li manterrei così come sono, cani da guardia o sentinelle, o solo pertiche per parlare più da vicino al cielo stellato. Qui inviterei i miei amici e passeggerei in silenzio con loro, fino alla morte."
Il lavoro di ricostruzione iniziò ovviamente dal tetto. All'inizio, non mi parve che fosse ben fatto; le vecchie travi di legno, cambiate con altre nuove, restarono a giacere in terra per molto tempo: non mi sembravano marcite. Tardarono giorni e giorni prima che il tetto venisse ricoperto con mezzane e coppi. Attraverso i travetti, scoperchiata com'era, mi parve che la casa restasse indifesa, che la pioggia e chiunque potessero danneggiarla. Piovve ancora per qualche giorno, ma presto, tornato il sole, il lavoro riprese così che i miei timori d'improvviso cessarono.
Quando vidi il tetto finito fui felice, tutto m'apparve a regola d'arte.
La sorpresa e la gioia per i mutamenti di ogni giorno, anche se piccoli e provvisori, venivano subito sopraffatti da una sottile apprensione. Mi chiedevo sempre cosa sarebbe accaduto l'indomani, come sarebbe apparso l'ulteriore lavoro, se i piccoli passi avrebbero reso omaggio all'idea del progetto che s'era venuto facendo dentro di me.
Ogni volta che a sera scoprivo che il mucchio di rena era rimasto qual era il giorno prima o che l'intonaco era fermo all'altezza della sera precedente, che quei ragazzi non erano venuti, ne restavo deluso. "Domani riprenderanno!" mi dicevo, tirando via Elia verso casa.
A causa della loro inspiegabile lentezza, le novità erano minime, talvolta impercettibili, tanto da far dubitare che fossero venuti. Ciò mi aveva acuito lo spirito di osservazione, distillando una senile capacità di gioirne. Così ogni giorno nel girare intorno alla casa stringevo gli occhi per scoprire se loro mi avessero voluto mettere alla prova: qualche mano di intonaco in più, qualche pennellata più in basso, qualche centimetro di modanatura in più: tutto centellinato perché durasse di più!
Ci fu un periodo, tuttavia, sotto Natale, durante il quale la sospensione dei lavori durò più del prevedibile, quasi fosse stato interrotto per sempre; dopo un po' cominciai a sentirmi abbandonato. È stupido, lo so, ma è stato così!
Una sera, era molto buio, vidi una macchia grigia, come se l'intonaco da poco finito si fosse sbrecciato. Quel timore durò poco, finché un colpo di vento non mosse il ramo la cui ombra formava quella macchia così vera!
Non mancava molto alla fine; se ne intravedeva l'esito. Ma è doloroso arrendersi, in vista del traguardo!
"Quanto è stato fatto oggi è stato fatto bene! Cosa sarà fatto domani? Sarà altrettanto bello?" Così mi sono chiesto ogni giorno, per circa un anno!
Ma più ogni giorno essa sembrava splendere, tornare alla bellezza originaria, e più per me perdeva di significato.
Ieri hanno messo porta e finestre; tutto era ormai serrato. Confesso che per quanto prevedibile non me l'aspettavo.
Ora che tutto è finito, mi sento di colpo invecchiato.
Elia, sono certo, mi condurrà altrove.
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