|
I luoghi della memoria
Visita a Forte Montecchio – Lusardi di Andrea Fracassi /
IW2NTF
Sezione ANGET di Milano
L’idea di visitare il Forte Montecchio – Lusardi di Colico,
è nata per la voglia di conoscere e vedere luoghi e opere che sono nate dell’ingegno militare, ed è stata subito promossa a pieni voti.
La visita, concordata operativamente con il Presidente della Sezione
ANGET di Delebio, che ha fornito la sua preziosa opera di collegamento, è stata un successo ed un’esperienza significativa.
Attualmente le visite all’interno del Forte vengono gestite da
una Cooperativa locale: sarebbe auspicabile, invece, anche il coinvolgimento di un’Associazione d’Arma, ma tant’è.
La visita al forte è iniziata poco dopo le ore 10,
all’ingresso si è immediatamente potuto notare il grado di conservazione delle strutture, che si può definire più che ottimo, considerato il fatto che hanno circa novant’anni. Attualmente il forte viene
gestito da una cooperativa di volontari, che organizzano queste visite guidate all’interno dello stesso, mentre per quanto riguarda le manutenzioni, le stesse non vengono più effettuate ormai da anni, si può
dire che terminata la seconda guerra mondiale, lo stesso è stato completamente abbandonato a se stesso.
E’ giusto dare alcuni cenni storici sulla sua costruzione e
progettazione. Gli studi per una nuova fortificazione risalgono al 1862, questo studio era voluto dalla “Commissione permanente per la difesa dello Stato”. Il forte avrebbe dovuto arrestare invasioni
provenienti dal Maloia, dallo Spluga e dallo Stelvio; la Svizzera non venne ritenuta una seria minaccia e l’idea della costruzione, in un primo tempo, fu accantonata.
Una decina d’anni dopo, e più precisamente nel 1871 si riproporrà
la costruzione di un nuovo forte, da costruirsi sul colle di Fuentes, con una spesa preventivata in 1.500.000 Lire (ndr: pensate oggi quanto costerebbe una realizzazione simile...), ma l’anno dopo il Comitato di Sua maestà espresse parere contrario, “essendo poco probabile una violazione austriaca nel territorio svizzero. Si giunge così al 1901, quando il Ministero della guerra studia il posizionamento di alcune batterie di cannoni, ma il progetto venne nuovamente accantonato, ritenendo questi interventi poco urgenti.
Solo nel 1911 prende il via il progetto della “Linea di operazione
Mera – Adda”. Con lo scopo, ancora una volta, di sbarrare il passaggio agli eserciti che avessero disceso la Valtellina e la Valchiavenna. Alcuni generali dello Stato Maggiore, dopo un attento sopralluogo,
decisero di piazzare una batteria permanente proprio sul Montecchio Nord. Da questa posizione, infatti, sarebbe stato possibile tirare sulla sponda Occidentale del Lario, sulla strettoia di Novate Mezzola e
sulla Bassa Valtellina.
Si iniziò così la costruzione del forte che, inizialmente, si
avvalse di un primo stanziamento di 750.000 Lire. Mentre nel 1912 il progetto venne rivisto, poiché fu ritenuto indispensabile un ampliamento della polveriera per stipare gli esplosivi, necessarie alle
interruzioni stradali, precedentemente ammassati a Tanno, nei pressi di Chiavenna. Nel dicembre del 1913, all’approssimarsi della Prima Guerra Mondiale, risultano completate le strade d’accesso, mentre per
l’opera corazzata sono da poco iniziati i lavori preliminari.
Nel luglio del 1914, all’inizio delle ostilità, il forte è ancora
in costruzione e, per tale ragione, i lavori subiscono una decisa accelerazione. Al punto che, nel mese di dicembre, anche l’armamento è completato e il forte è pronto ad aprire il fuoco.
Il forte durante la “Grande Guerra” non venne mai toccato
direttamente da attacchi, e non sparò nemmeno un colpo, (se non quelli di prova per il collaudo dei cannoni) anzi, come molti latri forti, nel giugno del 1915 l’armamento del Montecchio venne smantellato, per
poi venire riarmato dal Gen. Badoglio nel marzo del 1918.
Terminata la guerra, il forte rimane armato ed efficiente. Nel
1939, con il nome di “Lusardi”, viene affidato al XII settore della Gaf, la Guardia di Frontiera. E, sino agli ultimi giorni della seconda Guerra Mondiale, non è teatro di nessun evento di rilievo. Tornerà
alla ribalta nel 1945, quando prese corpo il “Ridotto alpino repubblicano”. Conosciuto anche come “Progetto Valtellina”, doveva essere l’estremo tentativo di resistenza della Repubblica sociale di
Mussolini. Nella vallata, infatti, erano concentrati circa 4.000 uomini fedeli al Duce e sarebbero stati loro a rappresentare l’ultimo baluardo contro l’avanzata degli Alleati. Ma il progetto non convinceva
tutti i gerarchi fascisti, e proprio per valutare meglio il progetto, il 20 aprile del 1945, il comandante del forte, il tenente Alberto Orio, viene convocato a Como. Una scelta fatidica perché, sorpreso dagli
avvenimenti, l’ufficiale non potrà ritornare al proprio posto di comando.
Ma già nel febbraio del ’45 alcuni militari, di stanza al forte,
avevano raggiunto accordi con la resa del presidio con il presidente del Comitato di Liberazione Nazionale, Vittorino Canclini. Tra il 25 e il 26 aprile del 1945 vi fu uno scontro armato tra militari italiani e
tedeschi all’interno del forte, due soldati tedeschi morirono, il comandante interinale fu imprigionato e il Montecchio venne consegnato agli uomini del C.L.N..
Proprio questi uomini, comandati da Battista Canclini, aprirono il
fuoco, il 27 aprile, sull’autocolonna tedesca che scortava il Duce sulla parte opposta del lago. I tedeschi avevano già consegnato Mussolini ai partigiani e cercavano di raggiungere il confine Svizzero, ma
furono bloccati da cinque cannonate sparate dal CLN. I colpi andarono a vuoto perché i tedeschi avevano distrutto le carte di tiro, ma intimorirono il comandante dell’autocolonna Fallemayer, che decise di
dare avvio alle trattative di pace che si conclusero con la resa firmata dai tedeschi presso l’albergo Isolabella di Colico.
Un excursus veloce sui dati storici l’abbiamo fatto, diamo ora alcune
informazioni progettuali e costruttive. Il forte è una delle tipiche costruzioni progettate, all’inizio del secolo, dal generale Enrico Rocchi che è ritenuto un genio delle costruzioni militari dell’epoca.
Si tratta di una struttura, completamente in cemento e pietra, a due piani, con gli alloggi dei militari realizzati in un’ala separata dal corpo centrale. I due edifici risultano collegati, grazie ad una
galleria scavata nella roccia e protetta da volte dello spessore di circa due metri. Sulla sommità dell’edificio sono posizionati, in installazioni girevoli e protette da cupole di acciaio e ghisa, quattro
cannoni. Si tratta del più moderno armamento utilizzato, nelle fortificazioni italiane, durante la Prima Guerra Mondiale. I quattro pezzi sono gli unici originali conservati sino ai giorni nostri. Due di queste
armi sono state prodotte dalla ditta francese Schneider, altre due dalle Officine Ansaldo.
I pezzi, modello 149/35 S, oltre ad essere i più grandi cannoni
presenti in Italia, sono ancora perfettamente funzionanti. Anche se, chiaramente, l’eliminazione del percussore impedisce di utilizzarli per sparare. Ogni pezzo, oltre a ruotare su se stesso, ha la
possibilità di effettuare un alzo fra –8° e +42°. Possiede, inoltre, un freno, un recuperatore e un congegno ad aria compressa che permette di espellere dalla canna i gas prodotti dalla deflagrazione. Ogni
cannone, dal peso di 3.800 Kg, poteva utilizzare proiettili di tipo diverso. Lo sharapnel, da 52 Kg, raggiungeva obbiettivi posti a 11.6 Km. Mentre le granate 149 S, pesanti 42 Kg, arrivavano fino a 12.1 Km.
Più leggere, ma con portata decisamente superiore, le granate monoblocco da 37 Kg, capaci di raggiungere distanze di 14.2 Km.
Una particolarità dei cannoni è che non usavano cariche di lancio in
bossolo, ma in sacchetto. L’esplosivo era pertanto conservato nella polveriera scavata sotto la montagna (raggiungibile dal tunnel) e, nei momenti di necessità, veniva portato al piano superiore grazie ad
appositi montacarichi. Mentre una squadra di artiglieri provvedeva all’immediata confezione delle cariche da utilizzare. Gli ufficiali, addetti al puntamento, si trovavano nella Camera di comando. Qui
calcolavano le traiettorie per mezzo delle carte e delle tavole di tiro poi, grazie ad un sistema interfono, impartivano gli ordini agli uomini posizionati ai pezzi. Una cupola di osservazione, infine,
consentiva di verificare l’efficacia del colpo.
Di intatto troviamo ancora gli impianti elettrici, parzialmente
funzionanti, ci sono ancora i quadri elettrici della “Ercole Marelli”, sono ancora posizionati tutti i gruppi di aspirazione che avevano il compito di espellere tutti i fumi derivanti dalle deflagrazione dei
cannoni, ed i fumi venivano fatti passare da appositi filtri per eliminare la parte visibile del fumo ed evitare di essere notati. Per essere stato costruito nel 1911-14, era già tecnologicamente avanzato. La
linearità degli impianti elettrici è sorprendente: una precisione nella realizzazione degli stessi che è impeccabile. Finiture esterne di ottima qualità, tutte in granito e pietra che hanno mantenuto
l’esterno in condizioni impeccabili, le fughe tra una pietra e l’altra in cemento sono intatte.
Potrei ancora andare avanti nelle descrizioni, ma l’unica cosa che è
possibile consigliare è quella di fare una visita.
|