Vincenzo Leone
fu un apprezzato regista italiano, durante il periodo fascista
rifiutò di iscriversi al partito, e conobbe un momento di
ostracismo in cui non poté lavorare, andando economicamente
in rovina. Questo almeno fino al 1942, quando fu riabilitato
da un influente amico; nel 1943 girò il suo ultimo film, I
fuochidi San Martino, a fargli da assistente
c’era il figlio, Sergio.
Sergio Leone nacque a Roma il 3
gennaio 1929, fu un figlio d’arte: non solo il padre
era regista, ma la madre, Edvige Valcarenghi, un’attrice del
cinema muto; tuttavia conobbe una lunga gavetta, fu a lungo
aiuto regista e fece la comparsa in film quali Ladri di
biciclette
di De
Sica.
La sua prima occasione venne dal
genere storico.
A cavallo tra gli anni ’50 e
’60 spopolavano i peplum: film ambientati nell’età
classica, realizzati a Cinecittà con pochissimi mezzi,
imponenti scenografie di cartapesta, tante comparse e tanta
fantasia. Le storie non erano quasi mai aderenti alla realtà
storica, per lo più erano polpettoni avventurosi, romantici,
ma soprattutto spettacolari, che impazzavano tra il grande
pubblico.
Nel 1959 si stava realizzando Gli
ultimi giorni di Pompei, ma il regista, Bonnard, ormai
vecchio, abbandonò il lavoro e venne rimpiazzato dal giovane
Leone, che così realizzò la sua prima regia, senza
preoccuparsi di firmarla e con un film non suo.
L’anno successivo, però, ebbe
la possibilità di scrivere un film che poi avrebbe diretto,
un altro peplum:Il colosso di Rodi. La
sceneggiatura venne scritta a più mani, inaugurando l’abitudine, che non abbandonerà mai, di circondarsi di
numerosi collaboratori al momento della scrittura. Il colosso di Rodi
è un film che ha molte pecche, a partire
dalle incongruenze storiche, ma mostra già il tocco personale
del regista, che cercò di rendere più suo e più originale
un genere a quell’epoca veramente inflazionato, inserendo
elementi del giallo e del western nell’intreccio.
Per realizzare un altro film
dovette aspettare quattro anni. Nel 1964, si imbarcò nel
lavoro che lo rese famoso: realizzare un western, Per un
pugno di dollari.
Il progetto era ambizioso:
realizzare un film del genere in Italia era già stato fatto
in passato, ma con risultati scarsi e alquanto ridicoli;
Leone, invece, riuscì con la sua personale creatività a
manipolare il western calandolo nella cultura italiana,
creando una nuova scuola, un western “spaghetti”, che
usciva dagli schemi americani e che in un certo senso rinverdì
un genere che anche in patria stava morendo, sono infatti
successivi a Leone film come Il pistolero o Gli
spietati.
Il film venne realizzato con
pochissimi fondi, addirittura attori e regista si firmarono
con pseudonimi e, senza ricevere un’adeguata campagna
pubblicitaria, sbancò i botteghini: era piaciuto, ed
evidentemente vi era stato un passaparola tra il pubblico. Uscì
dal circuito italiano e Leone acquisì popolarità anche tra
le major statunitensi.
In seguito al successo il
regista fu più libero economicamente, e fu in grado di
produrre lui stesso i due successivi western: Per qualche
dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il
cattivo(1966), realizzando così la cosiddetta “trilogia del
dollaro”.
In questi tre film si leggono
chiaramente le caratteristiche e l’originalità del western
di Leone. Mentre a Hollywood si usavano campi lunghi per
inserire il personaggio nell’ambiente e piani americani nei
duelli, Leone alterna primissimi piani e particolari, soprattutto degli
occhi, da cui si può leggere l’anima del personaggio, a
grandiose riprese di folla. La regia è spesso originalmente
collegata alla musica, riuscendo a scandire il ritmo interno
al film, dilatando la tensione. Ma la grande differenza è che
il registra mostra la violenza, inquadra insieme assassino e assassinato,
ha una lettura anche “politica” dei film, fatti con
realismo critico, da cui si deve imparare che la violenza fa
veramente male, che le pistole uccidono veramente.
L’intreccio è vagamente
favolistico: vi è spesso di mezzo la ricerca di un tesoro, o
un torto da raddrizzare, ma in realtà la storia non si
esaurisce mai in questi pochi elementi, e spazia in tematiche
più scottanti e attuali, come, ad esempio, la violenza delle
guerre.
I personaggi sono sempre “a
tutto tondo”, sono spinti, sì, da sentimenti
preponderanti: la vendetta, l’avidità, l’odio… ma non
risultano mai stereotipati, sono profondi.
Nulla è ovvio, gli stessi
schemi che dividono buoni da cattivi, piano piano, vanno
sgretolandosi: i buoni sono considerati dei “poco di
buono” dalla società.
Una delle caratteristiche di
questi film è l’ironia. Inizialmente Leone temeva nello
spingersi troppo sul versante comico, credeva che risultasse
il solito pasticciaccio italiano. Ma piano piano il regista
prese fiducia, lavorò alla sceneggiatura de Il buono, il
brutto, il cattivo con gli scrittori de I soliti ignoti,
e il film risultò un western con sani elementi della
“commedia all’italiana”.
Con la trilogia iniziò il
sodalizio lavorativo tra il regista ed il compositore Ennio Morricone, che realizzò le colonne
sonore di tutti i suoi film. Le musiche sono spesso parte
integrante della sceneggiatura, nel senso che contribuiscono a
dare corpo al film. Leone girava sempre con le musiche in
sottofondo, in presa diretta, e sembra che aiutasse anche gli
attori ad entrare nella parte.
Un altro talento del regista,
che emerse da questi primi lavori, fu sicuramente la capacità
di trovare attori che si adattassero perfettamente al
personaggio, riuscendo a far loro esprimere il meglio. Leone
scoprì tanti artisti americani prima quasi sconosciuti, e
lanciò, o rilanciò, la loro carriera in patria. Per fare qualche nome: Clint
Eastwood, Lee
Van Cleef, Charles
Bronson. Diede anche vigore a parti non principali,
affidandole a bravissimi attori italiani di teatro come Maria
Monti, Romolo Valli… Sembra che fosse molto esigente congli
attori, sicuramente un regista di carattere e con le
idee chiare, e non è un segreto che non rimase in buoni
rapporti con Eastwood, in seguito alla sua decisione di
tornare in America.
Terminata la trilogia, il
regista sentiva di aver detto tutto sul western, e si occupò
di un nuovo progetto.
Nel 1967 gli capitò di leggere Mano
armata, l’autobiografia di un americano degli anni ’30
sullo sfondo di mafia e corruzione. Il libro, che raccontava
con feroce realismo una parte della vita americana ancora in
ombra, gli piacque molto, in effetti era sempre stato
suggestionato dalla storia statunitense, non per niente la sua
primaria e principale fonte di ispirazione era stato il western, e così nacque una prima stesura di C’era una
volta inAmerica.
In realtà, benché fosse un
lavoro a cui teneva particolarmente, e a cui diede sempre
molta attenzione, riscrivendolo varie volte, non poté
occuparsene fino al 1984.
Le majors americane con cui fu in
contratto, la United Artists prima e la Paramount dopo, non
volevano saperne del nuovo progetto: era troppo costoso e
troppo rischioso, mentre l’ormai collaudata formula del
western era un guadagno assicurato. In un certo senso Leone fu
rinchiuso dentro la gabbia del regista monotematico, e da lui
pretesero un altro western, che paradossalmente fu uno tra i
suoi più belli.
Nel 1968, infatti, girò C’era
una volta il West, ma cambiando completamente formula.
Innanzitutto per la scrittura si affidò a due giovani autori
di sinistra, che poi diverranno grandi artisti: Bernardo
Bertolucci e Dario Argento. La loro influenza si percepisce
pienamente, il film è molto più cupo dei precedenti,
abbandona i toni epici, in un certo senso è una visione
critica e dissacrante della nascita della società americana,
sorta dalle ceneri della frontiera, nella violenza e nello
scontro tra denaro e pistola.
D’ora in poi in Leone
l’affetto e l’ammirazione per l’America saranno minati
dal disprezzo per il suo sistema, nel regista, e quindi nei
suoi film, convivranno questi sentimenti opposti.
Queste caratteristiche sono
ancora più evidenti nel successivo film: Giù la testa,
del 1971.
Di questo film Leone avrebbe
dovuto curare solo la produzione, ma gli attori si rifiutarono
di recitare con un altro regista, e così fu costretto a
firmare un altro film western, l’ultimo.
La storia questa volta è molto
più palesemente politica:
è ambientata durante la rivoluzione di Villa, tratta quindi
il problema delle rivolte, e presenta vere e proprie
discussioni in proposito, citando anche Mao Tse Tung.
All’epoca non riscosse successo al botteghino, era
considerato lungo e prolisso, e fu, in un certo senso, il
primo e l’ultimo fiasco del regista. Suscitò però un vero
e proprio dibattito in Italia, ci fu chi lo considerò un
insulso “polpettone” filosofico, e chi il nuovo manifesto
della sinistra.
Negli anni successivi il regista
si occupò prevalentemente di produzione e sceneggiature. Come
produttore lanciò un comico che successivamente sarebbe
diventato protagonista del cinema italiano, Carlo Verdone, a
cui finanziò il film Bianco, rosso e Verdone.
Non abbandonò mai il progetto
di C’era una volta in America, il suo vero obbiettivo
da tanti anni, ma riuscì a realizzarlo solo nel 1984.
Anche questo film fu molto
discusso, per quanto visivamente spettacolare, ancora oggi ci
si divide tra chi lo considera un capolavoro, e chi un lavoro
riuscito solo in parte, e minato dal sentimentalismo.
Fu il suo ultimo film, il
regista morì a Roma il 30 Aprile 1989, con un nuovo progetto
tra le mani, L’assedio a Leningrado, che non fu mai
realizzato.
Ancora oggi è uno degli autori
più apprezzati, ha sicuramente inventato un modo nuovo di
raccontare il western, e alcuni suoi arditi montaggi sono
studiati nelle accademie di regia di Hollywood.