E n i o W e b P a g e

 

Su SAPORI TEROLDEGO ASPARAGO BRIGATA CINEPRESA FORMENTAS LORETO METEORA MICHELOTTI VIGO CADORE VACANZE2001 ASIAGO CALZOLAIO CANTINA MARKLHOF PARCHI RICORDI

 

 

 

 

 

 

 
Il Formentas da scartòcia

 
C´è almeno un paese, in Trentino, dove sull´entrar dell´autunno si scartòcia ancora il formantàs. E che sta portando il piatto «imperatore» della cucina trentina, la semplicissima polenta, in giro per l´Italia, l´Europa, il mondo. Uno strano paese quello del nostro racconto dove, pensate, alle pecore chiamano pére e i torsoli della pannocchia di mais si chiamano panoclì. Storo, 19 ottobre 2002, in una corte di un vecchio caseggiato, con tre anziani: Giuseppe Bonomini, 72 anni, la moglie Modestina Poletti, 69, e Vigilio Bonomini, 75. Stanno pulendo le pannocchie del mais. «Noi scartocén da sempre. Perché facciamo ancora la nostra farina da polenta. Il formantàs lo coltiviamo nella nostra campagna, fare i contadini è la nostra vita, da sempre: fieno, patate, fagioli, poi abbiamo le vacche». Giuseppe ha qualcosa di più: «Mi gò amò sédes pére». Traducendo (dal turco), lui ha ancora 16 pecore. Vigilio Bonomini lavora «forse un paio di ettari, con mia moglie e, qualche volta, i nipoti». Giuseppe Bonomini, invece, ha qualche campetto in affitto. Sono gli ultimi raggi di sole che entrano nell´aia ed i tre signori scartòciano che è un piacere. «È una tradizione antica qui. - dicono - Un tempo si riunivano anche tre o quattro famiglie, si aiutavano l´un l´altro. Di solito questa operazione si faceva nel màstach, il vano dove pure si pulivano i fagioli e si tenevano le cavalére (ndr, i bachi da seta). Ma soprattutto si lavoravano le bagiane dei fagioli e il formantàs». Modestina: «La pelatura delle pannocchie era verso ottobre e novembre, una vera festa. Si cantava e si mangiavano le castagne. Poi, le pannocchie erano messe al sole sulle grate dei poggioli, in alto. Le spalàngole de la gra». Vigilio: «Era una festa in cui, a volte, oltre alla socializzazione, nasceva anche l´amore tra qualche ragazzo e ragazza. E due castagne col vin dulc, il mosto cioè». Non era tradizione, dicono i nostri testimoni, la musica strumentale. Ma la gente cantava. Cosa? Giuseppe: «Ad esempio "La bella si risveglia col fazzoletto in mano". O anche «Mòla giù la scaléta Rosina che l´è n´ora che son chi a spetàr"». Vigilio ne ricorda un´altra: «"Non mi toccare le gambe" era il titolo». Ma qualche bacio se lo potevano scambiare i giovani innamorati, scartociando, o il controllo dei genitori era ferreo? Vigilio: «Erano anche i vecchi a darsi qualche bacio, mica solo i giovani. Si stava là ore e la settimana dopo si puliva il mais in un´altra casa. Qualche volta l´operazione era fatta nelle stalle, dove c´era più caldo». Tutte le famiglie di Storo (e del Chiese e del Trentino contadino sino ad una altitudine di 800-900 metri) producevano il formentàs perché la base del cibo contadino era la polenta. La farina finiva nel paiolo due volte al giorno. E la polenta che avanzava alla sera, era affettata e abbrustolita al mattino, e mangiata col

 

 

 

 

caffelatte. Pane ce n´era poco, anche se, a Storo, la produzione di frumento veniva pure dalla tradizione. Modestina: «A casa mia si facevano tutti i giorni le foài, le tagliatelle». Vigilio: «Di polenta no i ghé n´avéa mai asé, s´han magnava!». Dopo lo scartociàr le pannocchie rimanevano appese, al sole, almeno sino al marzo successivo. «Sal toléa giü mano a mano che serviva. C´era il molino della cooperativa per macinarlo, con le mole a préa. Quando noi eravamo giovani però funzionavano già con l´elettricità. Ai tempi dei padri, con la ruota ad acqua». C´era un uomo, stiamo parlando ormai degli anni dopo il ´30, che si occupava di portare i sacchi di mais al mulino, col suo cavallo: era lo zio di Modestina, Angelo. «Poi riportava in casa della gente la farina gialla». Un quintale di mais dava 80 chili di farina e 20 di crusca. E dal mais, da quando il mondo è mondo, nasce la polenta. Ernestina: «La polenta è quella di sempre. Metti su l´acqua e la sali col sale grosso, la porti a bollitura e ci metti la farina. Poi cuoci da mezz´ora a 45 minuti. Noi la polenta la usiamo bella morbida, ma non molle». Vigilio la corregge: «Che la faga la föta». Cosa? «La fetta, deve fare la fetta! Anche se c´è sempre stata gente, poca, che ha amato la polenta dura come una noce». Cosa si mangiava e si mangia, nella capitale mondiale della polenta, Storo, assieme al prezioso piatto? Giuseppe: «La ampevarà. Si bolle il cotechino e nel suo brodo si mette il pane ed una manata di formaggio grattugiato, poi pepe a volontà. Un sugo eccezionale». Modestina: «Ma anche il broàt, salame coi fagioli. Lo facciamo ancora. Si cuociono i fagioli nell´acqua. Poi si frigge il salame nel botér, nel burro, a fette, con un dente di aglio e un cucchiaio di farina bianca passata in padella nel fritto del salame. Qui si versano i fagioli cotti che si bollono per na mesüra (ndr, mezz´ora) a fuoco lento. Un brodo eccezionale per la polenta». Ora tocca a Vigilio: «Con la farina gialla si faceva anche la pult, la "mosa" direste voi a Trento. Una farinata ben liquida. Si arrostiva il burro e dopo mezz´ora di cottura della farina lo si versava sopra, assieme ad un bel po´ di formaggio tenero. La vèn fo´ buna (che tradotto dal mandarino significa che ne viene una buona pietanza)!». Modestina ricorda che nella vicina Condino si coltivava e si coltiva ancora anche un altro tipo di mais. Fanno la farina de marì, molto scura». Il mais, almeno a partire dalla fine del Settecento, si è trasformato nella «pianta sacra» dei contadini di montagna (come lo era stata per maya ed incas). Tutto era usato della pianta. Con le foglie secche si riempivano i paiù, i materassi. Modestina ricorda una storiella: «Mi raccontava mamma che verso la fine dell´800 c´era una sposa di Storo, la povera Massachina... Le avevano riempito tanto il materasso che nella sua prima notte di nozze dovette prendere uno sgabello per salire sul letto, perché lei era piccolina». Con i chicchi di mais, come in ogni parte del mondo, anche a Storo le famiglie contadine facevano i confèc. Cioè i pop corn. Modestina: «Noi li buttavamo direttamente sulle braci, non nella padella». La farina gialla serviva anche ad altro. «Si facevano anche le focacce, misturandola con la farina di frumento. La pòra Santa l´era brava!». E il torsolo del mais si buttava? Vigilio: «Col panoclì (il torsolo, appunto) si faceva fuoco». Giuseppe: «Erano tempi in cui soldi ce n´erano pochi e col panoclì si facevano tappi per bottiglie e fiaschi». Modestina: «E il fuoco per fare la lisciva, per lavare i lensöi». Arriva Tone Marcatù (al secolo Antonio Malcotti, 66 anni). E dice la sua: «A Darzo al panoclì chiamano segògn». Giuseppe: «Il panoclì lo mettevano anche tra due salamini, appesi in cantina, perché non si toccassero». Erano tempi, invece, in cui il mais non veniva dato alle bestie, serviva agli umani. Ma Modestina ha qualcosa da dire: «Però alla vacca che aveva partorito, davano per una settimana il bevarün di farina gialla, come ricostituente». Tone: «E alle donne, quando figliavano, davano la panada». Giuseppe: «In quegli anni con la farina gialla si facevano anche le maraconde. Grattugiavano la polenta che avanzava, poi un impasto con farina bianca, un uovo, latte, una manciata di formaggio grattugiato. L´impasto era raccolto a cucchiaiate e messo nell´acqua bollente. Si arrostiva il burro con la salvia ed ecco degli ottimi gnocchi». La polenta non è morta. Modestina la serve ancora in tavola due volte la settimana. E Tone l´ha mangiata «sabato scorso con le rape. Burro, un cucchiaio di olio, una fetta di pancetta e un trösöl de salàm (ndr, un salamino). Poi si buttano giù le rape a fette, sino a farle dorare». Potremmo star qui settimane a parlare con loro. Perché è gente buona. Gente di Storo. Un tempo li chiamavano i «cocuàder» che voleva dire testa quadra. E quelli di Darzo e Lodrone dicevano di loro che la testa l´avevano quadra perché i pidocchi non avevano mangiato gli spigoli, i cantün. Storo, la polenta. Nel 1990 in paese è nata Agri 90, una cooperativa che ha lanciato in Italia e nel mondo la farina gialla di questo paesone. Ma anche, una cooperativa che ogni venerdì dedica i suoi mulini alla macinazione del mais dei privati. Su 800 famiglie di Storo, più di un centinaio si fanno ancora la farina. Ad esempio, Cornelio Paoli, 72 anni, lo troviamo a scartociàr sulla sua soffitta. Lavora guardando la televisione accesa. Storo tra antico e moderno, Storo della polenta.