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Remo Michelotti racconta.....



La sua vita l´ha divisa con le vacche. Più di trent´anni a fare il malgaro e il resto del tempo a lavorare al caseificio come casaro. Una reliquia. Questo è oggi, per noi, Remo Michelotti, del 1916, riso a bocca larga, con qualche dente in meno. Persona serena. E dolce. Remo è di Drena, valle dei Laghi. Malga Campo, 1360 metri, sta sulle pendici del Monte Stivo. «Ci ho fatto 27 stagioni, un po´ di tutto: pastore, seguivo i parti, curavo le vacche. E caseràva, quattro quintali di latte al giorno: formaggio, ricotta, burro». Ma prima Remo avevo salito le pendici del monte, all´estate, per lavorare alla Malga di Vallestre, su quel di Arco. «Era en putelòt, prima del militare, nei primi anni ´30». Dietro alla vacche, pastorello «Mi piaceva, di lassù si vedeva la busa de Arco, lepri, caprioli, stelle alpine». E con «l´éghel», le «canàgole»  «Chi caricava la malga era un privato, Zanga di Bolognano. Non mi pagavano molto, piccolezze. Più il cibo. Ero di famiglia modesta, mio padre Carlo e mio fratello Enrico avevano sempre caricato malghe». Il meglio del vivere in malga, Remo? Poesia liquida: «Alla sera si vedevano le luci di Riva del Garda, si sentivano le bande che suonavano, il brusio delle feste: pump e pump, pump e pump». Cristo, il brusio delle feste e pump e pump. «Una meraviglia». «Névo con le vache. La mattina mi alzavo alle 3, mungevo 60 vacche con papà e il Gigiòti Zanga. Dopo la colazione, verso le 6, le conducevo al pascolo. Polenta e latte per colazione». Quando le vacche pascolavano Remo era attento, che non si facessero del male. «Nel tempo perso cercavo l´arbusto del trembelìn, il sorbo. Ne facevamo dei bastoni. Per piegare il legno si metteva sulle braci e poi si piegava il manico su una sagoma». La tecnologia del trembelìn. «Con un´altra pianta, l´éghel, facevamo anche le canàgole, il collare delle vacche a cui si attaccavano i campanacci». Pranzo: funghi, pastasciutta, crauti. Più spesso polenta. Il pomeriggio un sonno, poi pulizia della stalla, raccogliere legna, tenere acceso il fuoco. «Facevamo anche le perteghèle, graticole di rami su cui metteva del fieno e poi le forme del formaggio. Per portarle a valle col bròz, il carro a due ruote, a fine estate». Il formaggio stava nella casèra, sugli scaffali. «Si doveva coltivarlo, sciacquarlo con acqua e sale ogni giorno. Caricavamo la malga ai primi di giugno e scaricavamo a fine settembre. Le pesate del latte avvenivano ogni 15 giorni: sulla base di quel peso si definiva la quantità di formaggio da distribuire ai proprietari della vacche. A Malga Campo facevamo una specie di Asiago, piuttosto grasso. Quando divenni casaro, io toglievo solo il 2% del grasso per fare burro. Il burro? Avevamo gli stampi, poi si metteva nella carta e sugli scaffali. Durava anche 20 giorni».Paura in malga. «Erano i temporali. Cattivi. Una volta a Malga Campo una saetta, orco cane, abbatté le finestre, un frastuono. Poi qualche serpente e talvolta la vipera mordeva qualche vacca». In malga arrivavano anche i maiali. E gli facevano il piercing. «Cinque o sei giri di filo di ferro al naso, per evitare che scavasse buchi nel terreno e rovinasse il prato. E quando la vacca la féva, dovevi starci attento, anche alla notte. Se il vitello usciva con le zampe posteriori, dovevi ricacciarlo dentro, girarlo». Veterinario, Remo. «Malattie? Poche per noi, c´era l´aria pura e si mangiava. Al pascolo mi piaceva cantare. Tra pastore a pastore, tra malga e malga, facevamo le vive, un segnale vocale, specie di jodl». E ride largo Remo Michelotti, ride di gusto, è felice. Un ricordo particolare? «A volte, andavo sulla Cima Alta, verso il Bondone, a raccogliere le stelle alpine». Era la gioia. «L´ultima volta salii in malga nel 1970 e da allora anche Malga Campo fu chiusa. Le morose? Qualcuna veniva. Da Vic. Talvolta, prendendo la china per Rovereto, verso qualche festa, si andava verso Bordala e poi giù a Castellano». Qualche problema con gli animali selvatici? «No, c´era l´àgola, la poiana. Era curiosa ed io le davo dei pezzi di polenta. Ci fu una volta che la vacca del Mìlio Tabachìn si infilò tra due alberi, penzoloni. Riuscimmo a trovarla in tempo, squartarla e salvare la carne». Quando era la festa grande in malga? «Il 15 agosto, ostia, c´era un sacco di gente, veniva su la banda da Drena, si cantava, si suonava, c´erano 100 persone». Tu cucinavi anche in malga. Cosa? «La mia specialità erano le lugàneghe col pócio e le scódeghe col pél». Ma forse Remo ci sta coglionando. «Amavo cucinare gli uccelletti da nido, arrostiti nel burro, buoni. E i funghi, le brise o quei dal sangue col sal. I bambini mi chiamavano e io davo loro la poìna su le fòie de capelère, foglie grandi come un piatto».La malga, vietata alle donne. E veniva la fine dell´estate. «Quando si scaricava la malga, al collo delle vacche si mettevano le ciòche, le brónze, i campanacci grandi». La malga, un posto di maschi, proibito, o quasi, alle donne. Ciglia foltissime, Remo racconta ancora. «Il resto dell´anno io facevo il formaggio, al caseificio di Drena. Chiuse nel 1977 ed io finii col fare il manovale». E una scudisciata per dire che il tempo vola. Per tutti. «Sacramento, me par ieri che ero en putelòt». Anche noi Remo. Anche noi.