Anno I (2000)-Vol. 1-Pag. 1

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Dr. C. Urso

IN QUESTA PAGINA

Problemi nella diagnosi dei nevi melanocitici;

A cosa serve la classificazione eponimica dei nevi;


PROBLEMI NELLA DIAGNOSI DEI NEVI MELANOCITICI

La categoria diagnostica “nevo displastico” ha prodotto un progresso nella comprensione dei nevi melanocitici, perché ha sottolineato il controverso rapporto che questi hanno col melanoma. Dai maggiori studi sull’argomento infatti risulta che almeno un quinto dei melanomi insorge su nevo, una frazione di nevi, quindi, gioca un ruolo indubitabile di precursore del melanoma. Uno dei meriti della proposizione del nevo displastico è, secondo me, di aver affermato per la prima volta che l’istologia può essere in grado di identificare questo nevo. In realtà le controversie sorte in 20 anni sull’argomento dimostrano che restano ancora tanti problemi da risolvere, ma intanto da allora una strada si è aperta. Una traccia di ricerca importante perché potrebbe condurre alla identificazione delle lesioni che dànno luogo ad un melanoma su cinque. Il problema principale, qualunque cosa vogliano dire i sostenitori ad oltranza del nevo displastico, è che i criteri diagnostici istologici di questa lesione non sono efficaci. Prova decisiva di ciò è che non esiste accordo tra gli autori sui criteri diagnostici di questa lesione e ognuno tende ad usare i propri, diversi magari dagli altri. I sostenitori del nevo displastico (così come esso è stato enunciato da Clark e coll.) sostengono che la riproducibilità diagnostica è buona, ma questa affermazione mostra i suoi limiti quando si va a vedere che sono occorse molteplici riunioni preparatorie tra esperti per far sì che la concordanza raggiungesse valori elevati. Oggi, a seguito dell’introduzione della categoria diagnostica di nevo displastico, lo scenario diagnostico che si è venuto a creare è che, a prescindere dai nevi speciali (nevi blu, nevi con alone, nevi di Reed, Nevi di Spitz etc), esistono due categorie di nevi i nevi comuni e i nevi displastici. La realtà di ogni giorno invece ci mostra che questo è una semplificazione. Si vedono tutti i giorni infatti nevi che non hanno alcuna delle caratteristiche diagnostiche del nevo displastico e nevi che le hanno, ma in aggiunta a queste si vedono decine di lesioni nelle quali sono presenti solo uno, due o tre caratteri del nevo displastico, mentre altri mancano. Cosa sono questi nevi che per avere qualche caratteristica “atipica” non sono comuni e per non avere tutte le caratteristiche “atipiche” non sono displastici? E’ evidente, se si vuol guardare oggettivamente, che la realtà dei nevi è più complessa di quello che la letteratura corrente fa apparire. Alcuni autori invece negano l’esistenza del nevo displastico, dicendo che non si riesce a diagnosticare con accuratezza (e qui hanno ragione), ma poi sono costretti ad ignorare tutta una grande mole di studi che ha dimostrato in modo inequivocabile che alcuni nevi (non necessariamente con le caratteristiche classiche del nevo displastico) sono intermedi tra gli altri nevi e il melanoma, per aspetti immunoistochimici, cinetici cellulari, ultrastrutturali, citofluorimetrici etc. Per dire quello che dicono, questi autori devono ignorare questi studi e infatti non ne parlano mai. Se però vogliamo fare veramente un passo avanti, dobbiamo uscire da questi orizzonti angusti e cercare di pensare senza pregiudizi. Se il nevo displastico è stato mal definito clinicamente e istologicamente, questo non implica che non sia vero che alcuni nevi giochino un ruolo reale come precursori del melanoma. Il punto è che occorre identificarli e perciò ripartire con gli studi. Come? Un modo può essere intanto di guardare i nevi senza etichette precostituite e a questo fine può servire quello che ho definito la diagnosi analitica dei nevi. Ma occorre ancora fare di più: stratificare i nevi in modo oggettivo, riunirli in gruppi e testarli poi sul piano immunoistochimico e molecolare, e studiare i pazienti sul piano epidemiologico. Io trovo che tentare questa strada sia meglio che seguire acriticamente una corrente, pensare con la testa degli altri e chiudere ogni giorno gli occhi su quello che si vede al microscopio (30.06.2000).


A COSA SERVE LA CLASSIFICAZIONE EPONIMICA DEI NEVI

Nel 1990 Magana Garcia e Ackerman hanno proposto una classificazione eponimica dei nevi, nella quale si distinguevano il nevo di Unna, a crescita esofitica papillomatoso, il nevo di Miescher, a crescita endofitica, il nevo di Spitz nevo a cellule fusate ed epitelioidi, e infine il nevo di Clark, ovvero il fatidico nevo displastico. E’ del tutto evidente che una tale classificazione non fu concepita avendo in mente i banali nevi di Unna e Miescher, ma fu proposta per ridenominare il ben più discusso nevo displastico. Lo scopo dichiarato era di eliminare questo termine, oggetto di interminabili dispute, ma associato a questo c’era dell’altro. Dando al nevo displastico il nome del suo “inventore”, da un lato si conferiva un certo onore a Clark, ma dall’altro, equiparando il nevo displastico ai nevi comuni, questo diventava nulla di più che una banale variante morfologica del nevo comune, perdendo quella caratterizzazione originale di possibile precursore del e marker di rischio per il melanoma che aveva avuto sin dall’inizio. Con una mano si dava onore al propositore della lesione dunque, mentre con l’altra si sottraeva il senso stesso della lesione. E’ noto a tutti come è andata avanti la vicenda del nevo displastico. Non si è riusciti ad avere una concordanza unanime sui criteri istologici diagnostici, per cui si è creata una situazione paradossale, in cui alcuni hanno usato e usano questa categoria diagnostica (Elder e seguaci di Clark in senso lato), alcuni hanno smesso di usarla per scarsa riproducibilità diagnostica (Hastrup ed alcuni europei), alcuni non la usano e non l’hanno mai usata, perché si oppongono con tutte le loro forze al concetto di nevo displastico, come nevo cioè che possa fungere da possibile precursore del e marker di rischio per il melanoma (Ackerman e seguaci). Ma a cosa serve questa classificazione eponimica? Il nevo di Spitz è già largamente denominato secondo l’eponimo, i nevi di Unna e Miescher sono solo nevi banali la cui distinzione la momento non dice nulla a nessuno. Il problema quindi è il nevo displastico. Qui possono darsi 2 ipotesi. Se il nevo displastico ha una sua validità come nevo che comunque conferisce in qualche modo un maggior rischio per il melanoma, gli possiamo lasciare il nome che aveva, perché, anche se discusso, è ormai comprensibile anche ai sassi. Se viceversa il nevo displastico è solo una banale variante del nevo comune non ha molto senso e certamente nessuna utilità distinguerlo dai comuni nevi di Unna e di Miescher, visto che alla fine sono tutti nevi comuni. Allora perché ridenominare i nevi? Che vantaggio porta una siffatta classificazione? Non ci chiarisce nulla e in compenso confonde, perché negli iniziali dibattiti che seguirono a questa classificazione Ackerman stesso ebbe a precisare che in realtà il nevo di Clark non era esattamente ciò che veniva individuato come nevo displastico. Abbiamo abbastanza problemi con i nevi lasciando le cose come stanno per avere necessità di una nuova classificazione che rende le acque più torbide di quanto esse non siano (22.08.2000).