Anno IX (2008)-Vol.9-Pag. 1

archivio

Dermatopatologia Forum
Copertina -indici
Dermatopatologia Forum
Vol. 1, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 1, pag. 2
Dermatopatologia Forum
Vol 1 pag. 3
Dermatopatologia Forum
Vol. 2, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 2, pag. 2
Dermatopatologia Forum
Vol. 3, pagina 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 3 pagina 2
Dermatopatologia Forum
Vol. 3, pag. 3
Dermatopatologia Forum
Vol. 4, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 4, pag. 2
Dermatopatologia Forum
Vol. 5, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 5, pag. 2
Dermatopatologia Forum
Vol. 6, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 6, pag. 2
Dermatopatologia Forum
Vol. 7, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 8, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 8, pag. 2
Dermatopatologia Forum
Vol. 9, pag. 1
Dermatopatologia Forum
Vol. 9, pag. 2

Home Page
Dermatopatologia -
Dr. C. Urso

IN QUESTA PAGINA:

IL MELANOMA IN SITU DA W. F. LEVER AI GIORNI NOSTRI


IL MELANOMA IN SITU DA W.LEVER AI GIORNI NOSTRI

La diagnosi di melanoma in situ è ormai universalmente accettata e largamente utilizzata da clinici e istopatologi in tutto il mondo. Oggi peraltro non si incontrano difficoltà particolari a spiegare e a intenderne il concetto, perché l’esistenza e la possibilità di diagnosticare neoplasie limitate alla originaria struttura di insorgenza sono ormai dati acquisiti in vari organi e apparati, come cervice uterina (CIN), vagina (VAIN), prostata (PIN), vulva (VIN) etc. Tuttavia, quando il concetto di melanoma in situ fu formulato per la prima volta, la situazione era molto diversa, perché gli studi sulle fasi precoci di sviluppo delle neoplasie epiteliali non erano stati ancora sviluppati e perché il concetto di melanoma maligno in quegli anni era molto differente da quello attuale. Il termine melanoma in situfu usato per la prima volta nella prima edizione del trattato di istopatologia cutanea di W. F. Lever nel 1949 [1]. Negli anni 950, e ancora nei decenni successivi, il melanoma era un tumore pigmentato, di grandi dimensioni, nodulare, ulcerato, generalmente in fase avanzata, spesso già con noduli satelliti e metastasi al momento dell’osservazione [2]. Le lesioni iniziali, piatte o modicamente rilevate, in quel momento di sviluppo che oggi chiamiamo “fase di crescita radiale”, erano etichettate sotto altra terminologia (nevi, lentigo, melanosi) e considerate diverse dal melanoma. Nel contesto culturale degli anni 50, quindi, la parola “melanoma” aveva questa specifica connotazione semantica e non era applicata, sia pure con il qualificatore in situ, a lesioni piatte e relativamente piccole. Lever applicò il termine melanoma in situ alle espressioni del melanoma in cui le cellule maligne apparivano confinate prevalentemente entro l’epidermide [1], queste però non configuravano una specifica lesione autonoma, ma rappresentavano solo una fase precoce del tumore. L’autonomia della lesione cominciò a prendere forma solo dopo, con il contributo di A. C. Allen, che studiava le lesioni pigmentate pressoché negli stessi anni. Allen richiamò in primo luogo l’attenzione sull’analogia tra lesioni epiteliali squamose e lesioni melanocitiche (che egli considerava del pari epiteliali), paragonando il melanoma in fase iniziale al carcinoma squamoso e rilevando in parallelo una corrispondente analogia tra cheratosi attinica, lesione precorritrice del carcinoma squamoso, e il nevo giunzionale, come lesione precursore del melanoma [3]. Allen identificava la giunzionalità dei nevi come la componente che potenzialmente può dare origine al melanoma, ma non considerava tutti i nevi con componente giunzionale lesioni premaligne. Egli distingueva infatti il “nevo quiescente”, senza rapporto con lo sviluppo di malignità, dal “nevo attivo”, indicato invece come precursore del melanoma [3-4]. Poiché il nevo attivo coincide in larga parte con quello che oggi consideriamo melanoma in situ, come è facile rilevare dalle microfotografie originali, e poiché l’autore fornì a suo tempo anche definizione istologica e criteri per la diagnosi, sembra poter dare ad Allen il merito del riconoscimento del melanoma in situcome lesione autonoma, al di là della terminologia usata. Ackerman ha criticato Allen, considerando il concetto di “nevo attivo” fonte di confusione [5], ma queste critiche, seppure utili a far luce sull’argomento, al tempo della loro formulazione, oggi appaiono troppo severe. Se, infatti, si analizzano attentamente i concetti ci si accorge che la differenza tra il “nevo attivo di Allen” e il melanoma in situ di oggi è solamente di ordine semantico. Allen pensava che il nevo attivo desse origine al melanoma (invasivo), noi oggi pensiamo che il melanoma in situ dia origine al melanoma invasivo. Allen non poteva chiamare “melanoma” il “nevo attivo”, perché, come abbiamo visto, il contesto culturale del suo tempo non lo consentiva, e indicava perciò col termine “melanoma” o “melanocarcinoma” quello che in quel tempo era il solo melanoma possibile, quello invasivo, ma la sostanza dietro le parole è la stessa. Per indicare la lesione che precede il melanoma invasivo, Allen usò il termine “nevo”, congiunto all’aggettivo “attivo”, ma pretendere il termine “melanoma” in quel contesto culturale è pretendere un anacronismo. Del resto l’elemento che comunque chiarisce la questione è che Allen dimostrava di essere perfettamente consapevole della identità tra melanoma in situ e “nevo attivo” già nella prima metà degli anni 50 [6]. Si può semmai osservare che probabilmente il “nevo attivo di Allen” contiene oltre i melanomi in situ, come li intendiamo oggi, qualcos’altro, cioè nevi con atipia citologica e flogosi linfocitaria dermica, che attualmente vengono inquadrati come nevi atipici, nevi displastici, etc., secondo le varie terminologie. Il melanoma in situ, comunque, ricevette un esatto inquadramento nell’ambito di una più ampia ricostruzione della storia naturale del melanoma solo alla fine degli anni 60 con gli studi di Clark [7]. Clark riconobbe nel melanoma una distinta fase di sviluppo, un momento in cui tutte le cellule maligne appaiono confinate al di sopra della membrana basale epidermica, che chiamò melanoma livello I. Clark era consapevole che melanoma livello I e melanoma in situ erano sinonimi, ma non considerò il melanoma in situ una entità clinicopatologica distinta, vedendolo come un concetto di ricerca, importante sul piano teorico, perché rappresentava la prima fase di crescita del tumore, ma non utilizzabile sul piano pratico, come diagnosi da includere nei referti istologici [8]. Il melanoma in situ diverrà una lesione autonoma riconoscibile e diagnosticabile clinicamente e istologicamente solo alla fine degli anni 70 con gli studi di Ackerman [9-10]. Ackerman riprese l’analogia tra lesioni epiteliali e lesioni melanocitiche, già rilevata da Allen, formulò con chiarezza il concetto di melanoma in situ, come lesione autonoma al pari del carcinoma in situ, [9] e propose come criteri per la diagnosi istologica gli stessi usati per la diagnosi di melanoma in generale [10]. Negli anni 80 su questo tema si aprì una polemica tra le posizioni di Clark e quelle di Ackerman: il primo non riconosceva legittimità di entità autonoma alla lesione [8] e il secondo invece ne rimarcava con determinazione l’assoluta autonomia [10]. Sembra un bizantinismo, ma in realtà alla base di questa polemica stava una diversa concezione della storia naturale del melanoma. La radice di questo contrasto risiedeva nel fatto che Clark aveva impostato la sua interpretazione dello sviluppo del melanoma sulla esistenza di due fasi distinte di crescita: la fase radiale e la fase verticale. Nella fase radiale il melanoma cresce orizzontalmente, come una macchia di inchiostro sulle pelle, accrescendosi radialmente, con poca propensione all’infiltrazione degli strati cutanei profondi; nella fase verticale, d’embleé o successiva alla prima, il tumore forma un nodulo e cresce verso il basso, infiltrando in derma, fino ad arrivare all’ipoderma [7-8]. All’interno della fase radiale si possono distinguere due momenti, un primo momento in cui tutte le cellule neoplastiche sono confinate all’epidermide e agli epiteli annessiali (melanoma livello I o in situ) e un secondo momento in cui le cellule superano la membrana basale e infiltrano il derma, in maniera discontinua, mantenendo fondamentalmente una direttrice di crescita orizzontale (melanoma livello II o microinvasivo) [7-8,11]. La fase verticale, secondo l’autore, inizia quando nell’ambito di una iniziale infiltrazione discontinua del derma (livello II) si forma un primo nido tumorale che in dimensioni supera il più grande nido epidermico, con possibile presenza di mitosi, indizio del cambiamento della fase; poi prosegue con l’occupazione di tutto il derma papillare (livello III), con l’invasione del derma reticolare (livello IV) e dell’ipoderma (livello V). La grande importanza, secondo Clark, di queste due fasi risiedeva nel fatto che il melanoma in fase radiale non ha competenza per metastasi, acquisita invece dalla neoplasia in fase verticale [7-8,11]. Per Clark dunque la cesura fondamentale era posta tra fase radiale e fase verticale, perché in quel momento si trapassava da una neoplasia a crescita locale, non metastatizzante e curabile con adeguato intervento chirurgico, ad un tumore a probabilità relativamente alta di metastatizzazione e di difficile controllo. Ma ponendo questo drammatico punto di svolta tra fase radiale e verticale, si capisce quanto poco rilevante doveva apparire a Clark il momento in cui la neoplasia in situ, limitata al compartimento epiteliale, diventava invasiva con infiltrazione seppure iniziale del derma. Ackerman, che ha un atteggiamento critico su tutta questa impostazione, in analogia con la patologia degli altri tumori, ove il punto di svolta cruciale è senza dubbio l’infiltrazione dello stroma (ad es. carcinoma mammario, carcinoma cervicale), riteneva e ritiene essenziale la distinzione tra melanoma non invasivo o in situe melanoma invasivo. La posizione di Clark, per un certo tempo dominante, che intrinsecamente diminuiva di valore ai fini clinici il concetto di melanoma in situ, unitamente alla esitazione nel recente passato ad applicare la parola “melanoma” a lesioni piccole e piatte, hanno così portato al conio di numerose espressioni, più o meno complicate, per indicare il melanoma in situ (iperplasia melanocitaria atipica, neoplasia melanocitaria intraepidermica, proliferazione melanocitica pagetoide, displasia melanocitica severa), il cui obiettivo era di evitare la parola “melanoma” [12]. La ragione per evitare questa parola era che poteva risultare terrorizzante per i pazienti, ma tali complicate e oscure locuzioni in realtà provocavano distorsioni della comunicazione anche fra gli operatori. Clark sapeva bene che queste espressioni si riferivano al cosiddetto I livello e che quindi in realtà indicavano un melanoma, seppure in una precisa precoce momento di crescita, ma erano i medici alla fine, i fruitori di queste “diagnosi”, che non sapevano più se avevano di fronte una iperplasia, una neoplasia o una non meglio precisata proliferazione, variamente aggettivata. La linearità della posizione di Ackerman, che vedeva il melanoma in situ come una diagnosi specifica e proponeva per la diagnosi gli stessi criteri istologici del melanoma in generale, tuttavia alla fine ha prevalso e oggi il concetto e la diagnosi di melanoma in situ sono accettati anche dagli epigoni di Clark, dopo la sua morte, avvenuta nel 1997 [13]. Egli tuttavia finché visse non accettò mai il concetto di melanoma in situ come definita entità clinicopatologica autonoma e lo considerò un ossimoro, una contraddizione in termini [14]. Su questa posizione, in qualche modo estremista, di Clark influirono certamente le sue fasi crescita di crescita, ma anche probabilmente un certo retaggio della vecchia patologia. Clark considerava il melanoma in situ una contraddizione perché da un lato questo concetto affermava la malignità della lesione (melanoma) e dall’altro le negava un attributo essenziale della malignità, l’invasione (in situ), che è presupposto necessario alla metastatizzazione. Ma da questa impostazione, ancora rinvenibile nei vecchi patologi d’inizio secolo, che consideravano allo stesso modo contraddittorio il concetto di carcinoma in situ, la patologia ha percorso una certa strada. Ormai, e già nel tempo in cui Clark scrive, nessun patologo si sorprende del concetto di carcinoma in situ della cervice uterina o esita a porre diagnosi di carcinoma in situ della mammella. In realtà il melanoma in situ (come il carcinoma in situ) non è un ossimoro, ma un concetto che tiene conto dello sviluppo dinamico della lesione. Il melanoma in situ non è l’unione di due termini antitetici, ma un melanoma che non ha ancora varcato la soglia dell’invasività, un melanoma già maligno in sé, ma i cui effetti di invasività e di successiva eventuale metastatizzazione non si sono ancora esplicati. Paradossalmente l’ossimoro di Clark degli anni 90, generato da un residuo di patologia ottocentesca, si compone col ricorso a ben più vecchi concetti della filosofia classica aristotelica (il melanoma in situ come melanoma in potenza, e non ancora in atto).

Bibliografia
1. Lever WF. Histopathology of the skin. Philadelphia. JB Lippincott, 1949: p. 400. 2. Robbins SL. Pathology. 3 ed., WB Saunders Company, Philadelphia – London, 1967, p. 1295 3. Allen AC. A reorientation on the histogenesis and clinical significance of cutaneous nevi and melanoma. Cancer 1949; 2: 28-56. 4. Allen AC, Spitz S. Malignant melanoma: a clinicopathological analysis of the criteria for diagnosis and prognosis. Cancer 1953; 6: 1-45. 5. Ackerman AB. The concept of malignant melanoma in situ. In Elder DE (ed.): Pathobiology of malignant melanoma. Karger, Basel 1987, pp. 205-210. 6. Allen AC. The skin. A clinicopathological treatise. 1 ed. CV Mosby, St. Louis, 1954. 7. Clark WH Jr, From L, Bernardino EA, et al. The histogenesis and biologic behavior of primary human malignant melanomas of the skin. Cancer Res 1969; 29: 705-726. 8. Clark WH Jr, Folberg R, Ainsworth AM. Tumor progression in primary human cutaneous malignant melanoma. In Clark WH Jr, Goldman LI, Mastrangelo MJ, eds. Human malignant melanoma. New York, Grune & Stratton, 1979, pp. 15-31. 9. Ackerman AB, Su WPD. The histology of cutaneous malignant melanoma. In : Kopf A, Bart R, Rodriguez-Sains R, Ackerman AB eds. Malignant Melanoma. New York: Masson, 1979: 25-147. 10. Kamino H, Ackerman AB. Malignant melanoma in situ: the evolution of malignant melanoma within the epidermis. In Ackerman AB ed. Pathology of malignant melanoma. Masson, New York 1981, pp. 59-91. 11. Elder DE, Guerry D IV, Epstein MN, Zehngebot L, Lusk E, Van Horn M, Clark WH Jr. Invasive malignant melanomas lacking competence for metastasis. Am J Dermatopathol 1984; 6 (Suppl. 1): 55-61. 12. Ackerman AB, Borghi S. “Pagetoid melanocytic proliferation” is the latest evasion from a diagnosis of “melanoma in situ”. Am J Dermatopathol 1991; 13: 583-604. 13. Mihm MC, Murphy GF. Malignant melanoma in situ: an oxymoron whose time has come. Hum Pathol 1998; 29: 6-7, 14. Clark WH Jr. Malignant melanoma in situ. Hum Pathol 1990; 21: 1197-1198.

(da C. Urso: Il melanoma in situ. Da Lever ai giorni nostri. Esperienze Dermatologiche 5: 123-127, 2003).