F o r u m - I n t e r c o m u n a l e d e
i C o m u n i d e i M o n t i- D a u n i
11 novembre 2006 . Albergo
“padre Pio”- Candela
-
EDITORIALE
-
di
Vito Feninno*
-
-
L'ANARCHIA SOCIALE DELLA
PRODUZIONE
-
una nuova politica del territorio
-
- il campo di lavoro
del lavoratore agricolo, dell’allevatore,
-
del contadino è divenuto
sempre più un campo di battaglia
-
Cosa rende un
paesaggio unico. Cosa rende un popolo unico. Cosa rende un territorio
unico: se non la sua memoria che vive, o dovrebbe materializzarsi,
nell’opera dell’uomo nel governo della natura?
L’uomo nella sua
storia ha preteso di dominare le leggi della fisica per prodursi la
sovrabbondanza del cibo trasformandolo in merce.
Passando da una
coltivazione per il proprio fabbisogno ad una produzione commerciale, si
è passati da un attività di tipo familiare ad una di tipo sociale.
Questo pervenire a produrre l’eccedenza ci ha portati nel modo di
produzione capitalistico.
I vecchi vincoli si
sono così allentati: l’uomo lascia la campagna per la fabbrica; lascia
la montagna per la pianura, nuova sede opificia che accoglie la
trasformazione del lavoro artigianale in lavoro manifatturiero.
Se dapprima il
contadino, l’allevatore, l’artigiano lavoravano diventando “maestri” del
loro mestiere e dove ognuno possedeva il proprio prodotto e lo portava
al mercato;
con il modo di produzione capitalista
– cioè produrre la sovrabbondanza –
il campo di lavoro
del lavoratore agricolo, dell’allevatore, del contadino è divenuto
sempre più un campo di battaglia.
Con questa crescente
nuova organizzazione della produzione si è messo fine, così, alla cura e
al governo del territorio perché quel campo di lavoro divenendo di tipo
“produttivo” e non più per l’abbisogna non gli “appartenne” più, ma
divenne freddamente solo uno strumento per arricchirsi. Divenne
esclusivamente uno strumento di produzione, per altri. Così si passò
dalla coltura intensiva alla coltura estensiva. In nome dell’illusorio
arricchimento si incominciò a produrre in modo innaturale contro gli
equilibri degli ecosistemi ambientali: insomma, la fisica lasciò il
passo alla chimica dei fertilizzanti dei diserbanti, e il patrimonio
boschivo lasciò il passo agli sterminati campi cereagricoli.
Questo processo ha
portato nei decenni alla trasformazione delle amene colline verdeggianti
in brulle montagnole dissestate idrogeologicamente e percorse da
fatiscenti strade che ricordano le antiche mulattiere ottocentesche
censite nell’inchiesta parlamentare di quel secolo.
Quanto più il nuovo modo di produzione è
diventato dominante, tanto più crudamente questa produzione ci appare,
oggi, inconciliabile con il rispetto che si deve alla natura e
all’ambiente.
L’uomo incurante,
sempre più, di questo rapporto e passando definitivamente dall’effettivo
bisogno al modo di produzione mercantile è entrato così in collisione
con i vincoli della fisica e della natura: depauperando il proprio
patrimonio paesaggistico ambientale storico e culturale.
Questo circolo
vizioso che progressivamente si restringe sempre più ci sta portando –
forse ci stiamo già dentro - ad una sorta di
ANARCHIA SOCIALE
DELLA PRODUZIONE.
Da
quì prendono l’avvio tutti i problemi che oggi ci apprestiamo a
disaminare: “di cosa ha bisogno
il territorio dei Monti Dauni Meridionali per costruire le sfide tra il
presente e il suo futuro?”
Se guardiamo in
maniera oggettiva – e non con le lenti deformate della “parochial”
politica, o della politica parrocchiale - alla condizione di forte
depressione ambientale sociale ed economica, in cui versa da decenni il
Subappennino Dauno Meridionale, e se la premessa ha un nucleo di verità,
allora non possiamo prescindere dall’idea che occorre mettere un freno all’ANARCHIA
SOCIALE DELLA PRODUZIONE, PERCHE’ CON QUESTA ANDATURA SFRENATA SI
ACCELERA SOLO LA CORSA ALLA MERA SPECULAZIONE DELLE RISORSE NATURALI CHE
GRADUALMENTE CI PORTERA’ A ROMPERCI IL COLLO FACENDOCI CADERE NEL
BARATRO.
I guasti della
produzione fine all’arricchimento sono sotto gli occhi di tutti e in
special modo sotto gli occhi della stragrande maggioranza delle
popolazioni dei nostri piccoli centri che miracolosamente ogni giorno
compiono un grande sforzo sopportando la leva sfruttatrice che li tiene
nella condizione di semiservitù feudale. Che quantunque immiseriti
ambientalmente sono stati anche privati di quei diritti di cittadinanza
che dovevano compensare i guasti inscritti nella terapia del progresso.
Ci si può ancora
limitarsi a lucrare la rendita che produce l’Anarchia Sociale della
Produzione: che sarebbe tanto illusorio quanto socialmente suicida?
E’ vero che non si
può pretendere di imbalsamarsi nel passato. Il passato, è vero,
sconfina nella nostalgia e alimenta le nostre paure per il nuovo.
Il cambiamento, di
contro, ci obbliga, come ho cercato di dimostrare, a conoscerlo e non a
rimuoverlo, certo.
Ma l’uomo, la
politica, quest’insieme di fattori per contradditori che siano, li deve
controllare nei suoi sviluppi con chiare scelte di governo per
orientarne o ri-orientarne le dinamiche.
Altrimenti nel breve
giro di qualche decennio, oltre a non aver più le bellezze ambientali e
le necessarie vie di comunicazione: stradali e digitali, ci troveremo
letteralmente senza terra sotto i piedi.
Perché va ricordato,
ai distratti, e ai politici parrucconi "interessati", che un paesaggio
non è un luogo di cose abitate, ma il paesaggio è un sentimento. E’ un
fatto emotivo. E’ una entità spirituale.
E l’uomo prima di
essere un essere intellettuale è un essere sentimentale.
* relatore prof. Vito Feninno, fondatore de “la Repubblica di Tersite”
(Relazione presentata al Forum
intercomunale dei comuni dei Monti Dauni)
Rocchetta S. Antonio 11- novembre
2006 |