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ABBRACCI
Riflettendo sulla deriva centrista e sull’assenza della
sinistra
di Rossana Rossanda*
Scarsa curiosità e nessuna passione sta suscitando
quel terremoto della scena politica italiana che dovrebbe rappresentare la
nascita del Partito democratico. Esso cancella definitivamente i due
protagonisti del dopoguerra, Dc e Pci, duellanti per oltre quarant'anni,
formatori di storia e cultura antagoniste, i cui residui - Ds e Margherita -
stanno fluendo in un tiepido abbraccio dentro uno stampo centrista, per
dirla all'europea, o «clintoniano» per dirla come Veltroni.
Sono in corso le assemblee che preludono ai due congressi di scioglimento.
Non si può dire che la discussione sia bruciante. La Margherita era già
frutto della turbolenza che dal 1987 aveva scagliato la Democrazia cristiana
in frantumi disperdendone la base elettorale perlopiù nel centrodestra. Ma
quello dei due che subisce la trasformazione più profonda è l'ex Pci, che
dal crollo del
Muro
di Berlino ad oggi è andato perdendo, per scivolamenti successivi, ogni
aggancio con il movimento operaio dal quale veniva. La svolta, che per breve
tempo è sembrata portarlo a una socialdemocrazia ammodernata, è andata assai
oltre, fino al taglio con qualsiasi radice, non solo comunista ma
socialista. Nessuna Bad Godesberg ha segnato il passaggio come era avvenuto,
con non poco clamore, nella socialdemocrazia tedesca; la deriva è stata
pigra, coperta, all'italiana, per stati di fatto successivi.
E così sarà anche, a quanto si vede fin d'ora, il suo atto finale. A
leggere le mozioni che preparano l'ultimo congresso dei Ds - quella di
Fassino, quella di Angius e Zani, quella di Mussi - l'impressione è che, con
diverse sensibilità, sia comune a tutte e tre un orizzonte di fine della
storia - fine dei due secoli di vicenda europea segnata dall'alto conflitto
politico e sociale che, emerso con la rivoluzione francese, s'era addensato
mezzo secolo dopo nelle lotte continentali del 1848 e con il Manifesto di
Marx avrebbe poi dato vita alla I, II e III Internazionale, e segnato la
seconda metà del XIX secolo e tutto il XX. La mozione di Angius e Zani
chiede, è vero, un tempo di riflessione prima di andare allo scioglimento,
per correggerne l'asse e coinvolgere quell'associazionismo di sinistra, che
è una novità degli ultimi decenni e del quale nessuno ha tenuto conto,
nell'operazione tutta verticista, e di vertici in buona parte consunti e
rissosi. Quanto alla mozione di Fabio Mussi, essa dice rotondamente no
all'intera operazione. Ma è da dubitare che l'una e l'altra saranno un vero
ostacolo al processo che da almeno dieci anni somiglia piuttosto a una
deriva, nel corso della quale idee e pratiche e fini assai lontani anche
dalla migliore o più eretica e libertaria tradizione comunista hanno
penetrato l'ex Pci. E dove i meccanismi cogenti propri di un grande o ex
grande partito, che è anche arbitro dei singoli destini elettorali, sono in
grado di garantire il gruppo dirigente da qualsiasi deviazione dalla rotta.
Non era scritto che questo fosse l'approdo obbligato della crisi del
Pci alla caduta del Muro di Berlino. Neanche questa crisi era obbligata per
un partito che era cresciuto in un largo margine di autonomia e aveva un
radicamento autentico. Ma è un fatto che quel partito non aveva mai preso
per le corna il toro del cosiddetto socialismo reale, né alle sue origini né
nella sua marcescenza, per cui quando l'Urss è precipitata è precipitato
anch'esso, fino a definirsi un errore storico. Restando imprecisato a quando
risalisse il medesimo, alla scissione del 1921 a Livorno, come sosteneva
Giorgio Amendola, o alla matrice marxisteggiante del socialismo europeo,
come devono essersi convinti gli stessi che avevano condannato Amendola nel
1964. Né vi si è più riflettuto, con il pretesto che la velocità dei
cambiamenti mondiali, negli eventi e nei paradigmi culturali, renderebbe
mera perdita di tempo far i conti con la storia. Sta di fatto che l'identità
attuale dei Ds si è del tutto separata dall'idea di un conflitto insanabile
fra capitale e lavoro, capitale e forze produttive non devastatrici,
capitale e piena libertà della persona umana. Essa viene relegata al più
passato dei passati, quando non irrilevante da sempre.
E' sulla sua obliterazione che può convergere con i Ds l'ala democratica e
solidarista del cattolicesimo politico rappresentata da Romano Prodi e da
(un più riluttante) Rutelli. Nonché l'ex terzaforzismo italiano, che con la
socialdemocrazia ha sempre flirtato assai poco.
La mozione di maggioranza dei Ds presentata da Piero Fassino
rappresenta già il nuovo partito, in essa la transizione o il famoso
passaggio del guado sono pienamente compiuti. L'assetto del mondo e della
società sono soddisfacenti, o almeno privi di mortali pericoli, la
globalizzazione seguita al crollo dell'Urss e al breve tentativo di
autonomia dei paesi terzi è assunta come solo terreno reale in cui operare.
La mozione suona anzi assai poco aggiornata, giacché neppure fa cenno né
alle traversie della crescita europea sotto gli imperativi della Banca
Centrale e della Commissione, né alle resistenze di opposta natura degli
stati nazionali, né al delinearsi di minacciose guerre commerciali fra
soggetti emergenti, né all'imbuto in cui l'iniziativa americana ha cacciato
se stessa e il mondo musulmano. Vi è più attenta la mozione Angius-Zani. Il
provincialismo domina - l'obiettivo del futuro Partito democratico è non più
che una alternanza di governo sulla base di una idea largamente condivisa di
società in Italia, come quella che si dà fra repubblicani e democratici
negli Stati Uniti, conservatori e New Labour in Gran Bretagna. Partiti
peraltro sempre più somiglianti: basti l'impossibilità di distinguersi sul
ritorno della guerra come strumento della politica, riesumato con il
pretesto della lotta al terrorismo, e sul dogma del mercato e della
competitività, con conseguente drastica riduzione dei poteri della sfera
politica rispetto a quella economica.
Le due altre mozioni esprimono preoccupazione. Non tanto sulla
collocazione del partito sulla scena internazionale, che pure è un punto
tutt'altro che risolto, come le vicende della maggioranza dimostrano, ma
sulla questione sociale e la laicità. Il conflitto fra capitale e lavoro ha
subito anch'esso uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando
il lavoro come problema di solidarietà con i meno fortunati, salariati a
vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d'una volta e
precari. E' vero che appena si prende la questione sul serio, ci si scontra
con temi tabù, l'essere l'Europa non più che un mercato aperto ad ogni
razzia ed esposto a ogni dumping, e la mancanza di qualsiasi controllo sul
movimento dei capitali e quindi l'impossibilità d'una politica economica. La
verità è che nel liberismo spinto in cui siamo,con permanenti
delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, né l'occupazione
né il potere d'acquisto dei salariati possono essere protetti.
L'immigrazione è un bisogno potente indotto dalle inuguaglianze della
globalizzazione selvaggia e un potente destabilizzatore, cui ad oggi non si
sanno che opporre muri e proporre chiacchiere sulle multiculturalità. Ma su
tutto questo erano già anni che Pds e Ds avevano saltato il fosso.
Quanto alla laicità, va detto che le due mozioni minoritarie mettono le cose
in chiaro, ma quella di Fassino assume da Giorgio Napolitano la
complementarietà dei valori che si darebbero fra la chiesa e la repubblica,
e qui davvero il novello Partito democratico si colloca alquanto più
indietro del 1789.
Chi rappresenterà ormai in Italia i lavoratori e le figure sempre più
assoggettate dal mercato? E' sorprendente come l'imminenza del Partito
democratico abbia lasciato immobili le forze che si vedono alla sua
sinistra. Nulla è cambiato nei rapporti, neppure fra le due che si
proponevano di mantenere o rifondare la rappresentanza del conflitto
capitale-lavoro, anche se, a dir la verità, una, il Pdci, è stata sempre
troppo debole e l'altra, Rifondazione, ha frascheggiato sulla sua importanza
nel tempo, quando ha puntato tutto e solo sui movimenti. C'è perfino un
paradosso, che in pieno dispiegarsi dell'anarchia dei capitali, il solo
nominarla sia diventato oggetto di scandalo. Ma il conflitto esiste e su
scala mondiale come non mai ed è esso a rodere alle radici anche l'esercizio
della politica, e non solo per i salariati ma per le altre figure che da
esso sono, assieme, prodotte e trascinate fuori di sé, nessuna di loro
essendo in grado, da sola, di assumere una diversa centralità. Sta di fatto
che è una voragine che si è aperta nella rappresentanza.
La necessità di tenere assieme il governo, per evitare che il guasto
ormai avvenuto nella nostra società riporti a galla Berlusconi, sta rendendo
opaco il vuoto politico a sinistra. Anche per la Cgil: si tratta di ben
altro che di governo amico o non amico per il sindacato - tutto il
sindacato, non solo quello dei metalmeccanici. Esso è di fronte a qualcosa
di ben più grave che lo scorrazzare di qualche velleitario epigono degli
anni Settanta, che non ha nulla imparato ma anche nulla ha fatto se non
gesticolazioni. Le organizzazioni dei lavoratori hanno davanti a sé una
dirigenza capitalistica modesta, quando non improvvisati social climbers,
e un ceto politico che in tema di sviluppo, compatibile o no, non ha la
minima idea. Come possono difendere il lavoro?
Ieri sull'Afghanistan, domani sulle pensioni, sarà difficile tenere
assieme alla Camera o al Senato una maggioranza già così somigliante al
prossimo Partito democratico da non riuscire a reggere al suo interno le
voci di chi parla il linguaggio dei movimenti, dall'ormai antico movimento
sindacale a quello nuovo della pace, e a seguire. Sgomenta che i partiti di
estrema (estrema!) sinistra non abbiano di meglio da fare che perseguitare
e, magari espellere, i quattro gatti che esprimono una protesta reale, che
sbagliano soltanto il terreno su cui farla valere. Se nelle istituzioni oggi
essa non può che perdere, fuori di essa si può solo augurarsi che cresca
finché anche le istituzioni dovranno tenerne conto.
Ma questo non è un obiettivo anche di Rc, del Pdci e
di gran parte di quel 13% di italiani che aveva votato fuori del campo
ulivista? Non so se sia vero, ma che una persona come Paolo Cacciari sia
indesiderabile in Rc è una follia. Si possono tener separati i livelli di
intervento (non lo fanno la borghesia e la sua rappresentanza più o meno
accreditata?), ma che le sinistre debbano rianalizzare il punto in cui
siamo, misurare senza più soddisfazioni la propria fragilità, rimettere le
teste in movimento e costruire un'operazione opposta a quella dei
Ds-Margherita è d'obbligo. Se no, non glielo perdonerà nessuno.
* fondatrice de "il manifesto"
fonte il manisfesto.it del 10-03-2007 - (la
repubblica di tersitedel 21 marzo 2007) |
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