26 Ottobre 1860, ore 8:30. Al bivio
di Taverna Catena, presso Teano, Garibaldi consegna a Vittorio Emanuele
II le province meridionali. Restano da conquistare solo Capua e Gaeta.
Consegnato il Regno delle
due Sicilie, Garibaldi parte da Napoli per ritirarsi a Caprera a fare il
contadino. Il Re, ringraziandolo, gli disse che non avrebbe più avuto
bisogno di lui. Cavour aveva vinto. Le forze economiche trovarono nuova
espansione e il popolo, del defunto regno, trovò nuove dolorose
sopraffazioni. A capo delle municipalità, delle prefetture e delle
caserme s’insediarono il personale amministrativo piemontese.
Da allora, il nuovo Stato con
capitale Roma, dal 1871, ha sempre dispiegato la sua politica
conservatrice. Politica che intreccia da sempre le sorti fortunose delle
forze produttive del paese. Per il mezzogiorno d’Italia la politica
liberal-conservatrice ha solo e sempre pensato in termini di
sussidiarietà e mai produttivi. Le politiche di sviluppo per il
meridione hanno solo e sempre visto interventi di natura “straordinaria”
e “aggiuntiva” e mai di natura ordinaria. La classe politica di
questo paese per noi gente figlia di un dio minore ha solo pensato in
termini di “preindustrializzazione”: interventi di lavori
pubblici. A volte vere opere di civiltà come l’acquedotto pugliese del
1914 costato 300 milioni del vecchio conio. O la direttissima
Roma-Napoli. Molte altre volte, vere e proprie cattedrali nel deserto;
dove i finanziamenti scorrevano nei molteplici rivoli del voto di
scambio. Lavori pubblici che dovevano conseguire la creazione
d’infrastrutture a sostegno della nascitura attività produttiva,
finiscono invece per risultare investimenti improduttivi, di
mantenimento e rafforzamento tra potere industriale e potere fondiario.
La frattura che separa
economicamente il nord e il sud è ancora oggi tristemente certificata
dall’istituto statistico italiano. La sentenza dell’ISTAT è patente: la
differenza di reddito pro capite, il forte tasso di disoccupazione e il
basso tasso d’occupazione, le larghe fasce di povertà, la ridotta spesa
sanitaria, la contrazione dell’erogazione di servizi socio-sanitari e
culturali testimoniano il primato rovesciato del meridione d’Italia.
Questa situazione d’inferiorità - determinata dalla classe politica -
nel corso del processo unitario ha portato a definire il sud “area
depressa”. La classe politica di stampo conservatrice con
la definizione di “area depressa” non ha fatto altro che creare nuove
aree d’espansione interne al territorio italiano per garantire alla
classe industriale un maggior saggio di profitto. Il restringimento
delle aree produttive del nord per saturazione e deturpamento del
territorio e lo sproporzionato sviluppo del sud hanno spinto le imprese
a ricercare nuove aree d’espansione e sfruttamento.
Così, l’aver definito il sud area
depressa ha permesso alla Fiat di beneficiare di finanziamenti pubblici
e di far accettare ai lavoratori di Melfi condizioni di lavoro da
sfruttamento, e ha consentito la gestazione di interventi
protezionistici in materia di politiche industriali come: i patti
d’area, i patti territoriali, e gli accordi di programma, regalando alle
imprese allettanti saggi di profitto e riservando ai
lavoratori-contadini – cafoni di Fontamara – la torchiatura. A
testimonianza che le forze produttive del paese nella continuità della
direzione aperta dall’intervento statale non sono preoccupate a
rimuovere gli ostacoli sociali ed ambientali. Ecco perché questo
processo d’integrazione unitario, nei fatti, ha determinato
l’asservimento delle popolazioni meridionali alle forze economiche e
non, viceversa, reso un popolo emancipato. Se guardiamo al caso Fiat e
al nascente Patto Territoriale nell’agro di Ascoli Satriano, nel
tentativo di “valorizzare” un’area depressa, leggendo la
documentazione che fa da stura all’insediamento produttivo, si vede
ancora una volta che le suddette aree restano asservite agli interessi
economici: i forti e cospicui incentivi alle imprese fanno da contro
altare ai compressi salari dei futuri lavoratori. Il che non libererà le
popolazioni dalle loro condizioni di miseria e non favorirà un
miglioramento del loro tenore di vita.
Non è il caso di esecrare il
comportamento delle comunità locali interne al patto costrette a
scegliere il male minore perché preoccupate di dare un futuro alle
proprie popolazioni. Ma va da sé che non possiamo esimerci dal segnalare
che ci si muove sempre lungo la direzione tracciata dal sistema.
Rimanendo in una condizione di subalternità.
Ulteriore prova è l’asservimento
del nostro territorio dauno che le amministrazioni locali, in mancanza
di un programma di sviluppo economico autonomo coerente con la vocazione
della natura del territorio, hanno ceduto ai produttori d’energia eolica
che, in cambio di un 2% sulla produzione, hanno modificato l’aspetto
paesistico e paesaggistico dei contrafforti collinari. Altra
testimonianza che ci rincorre, da oltre 60 anni, con tutta la sua
gravità, - solo per restare nel nostro “depresso” territorio dauno - è
che la gente di Rocchetta S. Antonio, di Candela, di Ascoli Satriano, di
Deliceto, di S.Antaga di Puglia, di Anzano, e di tutto il tavoliere è
stata abbandonata nella condizione di impensierirsi solo di recuperare
51 o 101 o 151 giornate lavorative bracciantili per integrarle poi con
il sussidio di disoccupazione o richieste di malattia.
Pratiche di un lavoro raffazzonato
che ancora subordina il meridione a non esplodere; ma che la concorrenza
di manodopera tra residenti che lavorano per 35 e/o 40 euro al giorno e
immigrati extracomunitari che si offrono per 20 euro al giorno potrebbe
far deflagrare. Scoperchiando quella pace sociale ricercatamente
addomesticata. Fatti di una realtà che stanno già creando seri problemi
economici e sociali nel comune di Orta Nova.
Sotto un cielo carico di nubi che
non promette niente di buono, c’è bisogno di “illuminati” capaci di
indicare uno scampo. Una via nuova. Una via che abbandoni la politica
dello “struscio” e del farsi “trascinare” come vagoncino
di coda. Una classe politica di “galantuomini” che si metta a capo del
convoglio e operi per fare riconquistare alle popolazioni meridionali il
riconoscimento della loro dignità e del loro valore. Una classe politica
che dia l’avvio ad una svolta culturale e politica capace di sottrarre
il mezzogiorno dalla definizione di area depressa per evitare di
sottostare ad un atto d’elemosina concessa da chi ne ha voglia a chi
ne ha bisogno.
Sulla strada che porta a Teano,
Garibaldi consegnò l’Italia meridionale al Re ricevendone in cambio solo
una stretta di mano e il rifiuto di far continuare a combattere i
garibaldini a fianco degli ufficiali piemontesi. Così, l’eroico
Garibaldi dopo aver conquistato un regno si ritirò a Caprera portando
con sé un sacchetto di sementi, una balla di stoccafissi, una cassa di
maccheroni, un sacchetto di zucchero e l’immancabile caffè.
Mentre quella stessa mattina il
generale piemontese Della Rocca, assicurava la moglie del principe
Santagapito di stare tranquilla: “... non tema signora marchesa, noi non
abbiamo a che fare con quella gente, veniamo appunto per ristabilire
l'ordine”; - facendo intendere che i garibaldini erano considerati con
disprezzo sia dal re, che dal suo stato maggiore - il sottotenente poeta
garibaldino Cesare Abba frofettizzò:“…non saremo più alla testa,
ci metteranno alla coda”. La realtà di quel momento storico continua….